Hermann Ungar è stato uno degli autori più originali e particolari, oltre che tra i più notevoli in senso letterario, all’interno di quella letteratura di lingua tedesca che si sviluppò con esiti altissimi nella Praga di inizio secolo. Ungar non era praghese, era nato in Moravia a Boskowice nei pressi di Brno nel 1893, in una ricca famiglia ebrea che, come tutta la comunità ebraica che viveva nel ghetto ebraico di Boskowice, era di lingua tedesca. Ma dato che fuori dal ghetto si parlava solo il ceco Hermann Ungar parlava in realtà entrambe le lingue. A Praga vi giunse per la prima volta nel 1912 per proseguirvi i suoi studi di giurisprudenza, intrapresi inizialmente a Berlino e a Monaco. E pur avendo trascorso periodi anche prolungati, nel corso della sua vita, lontano da Praga, vuoi per lo scoppio della Prima guerra mondiale a cui prese parte, vuoi per l’incarico all’ambasciata cecoslovacca a Berlino, dove lavorò dal 1921 al 1928, di fatto Praga fu la sua città. Nella quale morì il 28 ottobre del 1929, a soli 36 anni, a seguito di un attacco di appendicite che i medici scambiarono per una manifestazione di ipocondria. Proprio quando, tre settimane prima, aveva deciso di dedicarsi a tempo pieno alla letteratura, interrompendosi così, prematuramente, una carriera letteraria già di rilievo ma che avrebbe potuto dare altri e presumibilmente significativi frutti.
Autore: ilcollezionistadiletture
“Oscurato” – Paul Celan
Paul Celan – “Oscurato” – Traduzione e Nota introduttiva di Dario Borso – Einaudi.Collezione di Poesia – 2010
“…il 26 ottobre 1965 Paul Celan, disperatamente in viaggio per la Provenza, cercava sotto il segno di Mandel’stam di ristabilire un contatto con la moglie Gisèle. Di lì a un mese avrebbe tentato di accoltellarla. Recluso in manicomio, verrà trasferito verso metà febbraio del ’66 alla clinica psichiatrica della Sorbona. Da qui, per due mesi Celan non smette di scrivere: trentacinque poesie che consegna via via a Gisèle, dedicandogliene metà. Così uscito dalla clinica, si ritrova con un piccolo canzoniere…Un canzoniere ribaltato e deformato. Se in quello di Petrarca la donna era in cielo e l’uomo in terra, in quello di Celan la donna è in terra e l’uomo in ceppi: oscurato. Ma non è oscurata la poesia di Celan…Questi versi costituiscono una delle sue più belle raccolte, lirica e tragica allo stesso tempo, mortuaria e vitalissima.” (dalla quarta di copertina)
“Cecità” – José Saramago
In uno degli interventi contenuti ne “Il quaderno” che raccoglie i testi scritti e pubblicati da Saramago sul suo blog tra il 2008 e il 2009, lo scrittore portoghese mette a confronto, ponendole in una sorta di classifica ideale, tre virtù: la carità, la giustizia e la bontà e, in relazione ad esse, afferma: “Se mi dicessero di disporre in ordine di precedenza la carità, la giustizia e la bontà, metterei al primo posto la bontà, al secondo la giustizia e al terzo la carità. Perché la bontà, da sola, già dispensa la giustizia e la carità, perché la giustizia giusta già contiene in sé sufficiente carità. La carità è ciò che resta quando non c’è bontà né giustizia.” (1) La bontà è quindi per Saramago il valore in assoluto più importante e onnicomprensivo, quello cioè che qualifica più di ogni altro, in senso sia morale che umano, gli uomini. Continua a leggere
“Finché arrivano lettere d’amore” – Helga M. Novak
Helga M.Novak – “Finché arrivano lettere d’amore. Poesie 1956-2004” – Traduzione e Introduzione di Paola Quadrelli – Effigie – 2017
“È questa la prima antologia italiana della lirica di Helga M. Novak, qualificata dal poeta e chansonnier tedesco-orientale Wolf Biermann come «la maggiore poetessa della DDR». Intensamente legata alla esperienza autobiografica, contrassegnata da un doloroso destino di figlia adottiva, dall’ espatrio dalla DDR nel 1966 e da una esistenza errabonda, la vasta produzione poetica della Novak si distingue per una notevole varietà formale, ritmica e contenutistica, testimoniata nel presente volume dall’ alternarsi di ballate di sapore popolare, apologhi di marcata attualità politica, lamenti d’amore, invocazioni struggenti, composizioni di soggetto storico e mitologico e, soprattutto, splendide poesie dedicate alla natura, in cui paesaggi coperti da antiche foreste e punteggiati di laghi vengono evocati con precisione naturalistica e forza visionaria.” (dalla bandella di copertina)
“La metamorfosi” – Franz Kafka
“La metamorfosi” scritto da Kafka nel 1912 e pubblicato nel 1915 è un testo estremamente polimorfico perché si offre a differenti chiavi di lettura, così come le varie interpretazioni che ne sono state date evidenziano. Da quella che lo ha letto in chiave edipica per gli evidenti riferimenti che vi sono ne “La metamorfosi” al noto conflitto fra Franz Kafka e suo padre Hermann che avrà poi nella famosa “Lettera al padre”, indirizzata da Kafka a suo padre, la sua esplicita e drammatica confessione. A chi ha visto ne “La metamorfosi” un’allegoria del tema della discriminazione degli ebrei laddove, come ha scritto Harold Bloom, “…quasi ogni cosa che Kafka ha scritto si incentra sul suo rapporto con gli ebrei e con le tradizioni ebraiche”(1). A chi ha rilevato, nella condizione a cui si troverà assoggettato il protagonista de “La metamorfosi”, il riferimento al tema dell’alienazione e della spersonalizzazione dell’individuo nella società volendo rappresentare Kafka, secondo chi propende per questa tesi, l’emarginazione alla quale il “diverso” viene tragicamente condannato dalla società.
“L’arcobaleno della gravità” – Thomas Pynchon
FIRST Step
La prima domanda a cui bisogna rispondere è: ne vale o non ne vale la pena? Ebbene per me la risposta è si, ne vale la pena. Perché se è vero che leggere Pynchon (P.), questo P. de “L’arcobaleno della gravità” (“L’a.d.g.”) è un’impresa, a suo modo titanica (968 pagine, oltre 400 personaggi, decine e decine di “storie” che si intersecano, si mischiano, si sovrappongono; citazioni di luoghi, personaggi, fatti i più svariati e innumerevoli: l’apoteosi dell’enciclopedismo), tuttavia qui siamo di fronte a un libro che, non a caso, è stato messo a fianco, per la sua levatura, all’Ulisse e a Moby Dick.
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“Un’ombra fuggitiva di piacere” – Constantinos Kavafis
Constantinos Kavafis – “Un’ombra fuggitiva di piacere” – Traduzione e Introduzione di Guido Ceronetti – Adelphi – 2004
“…Ceronetti ci consegna la sua versione di quarantaquattro delle centocinquantaquattro poesie che costituiscono l’intera produzione di Kavafis…Scopriremo così che i temi e i motivi della poetica di Kavafis – l’ incertezza e la difettosità del piacere, l’inafferrabilità della bellezza, il guardarsi invecchiare consapevoli di desiderare ancora – sono, come conclude lo stesso Ceronetti, <<bruciori e malinconie poetiche di chiunque abbia sensibilità e mente>>” (dalla quarta di copertina)
“L’uomo nell’Olocene” – Max Frisch
Se si volesse sintetizzare in una parola “L’uomo nell’ Olocene”, dandogli un nuovo titolo, quello per me più appropriato sarebbe erosione. Perché ne “L’uomo nell’ Olocene” non solo ci vengono descritte tutta una serie di manifestazioni che hanno a che vedere con i fenomeni fisici dell’erosione ma è l’idea stessa dell’esistere che è ricondotta al concetto di erosione. Al punto che tutto – noi compresi – appare in fondo soggetto nient’altro che un lento e inesorabile processo di erosione che noi contrastiamo con tutto il nostro istinto vitale ma che nonostante noi e indipendentemente da noi ci consuma e si consuma.
“Sotto il ferro della luna” – Thomas Bernhard
Thomas Bernhard – “Sotto il ferro della luna” – Traduzione di Samir Thabet – Crocetti Editore – 2015
“Aspettando i barbari” – John Maxwell Coetzee
Se è vero che la nostra “civiltà” è protesa a rendere tutti sempre più simili e a ridurre l’alterità di qualunque tipo essa sia, tendendo a razionalizzare e omologare il mondo, “Aspettando i barbari” è non solo un romanzo che affronta l’esistenza di quella alterità, ma ne rivela tutta la sua irriducibilità e la sua inafferrabilità. Le vicende narrate in “Aspettando i barbari” sono la metafora di un mondo che combatte l’alterità e cerca di sottometterla considerandola il proprio nemico e come tale la tratta e vi si rapporta. Anzi, per meglio dire, crea l’Altro come nemico, lo istituisce come tale, in quanto lo trasforma da quello che esso è e cioè il diverso da sé, in un nemico, proprio perché e solo perché è diverso da sé. E per stigmatizzare e sancire ciò attua una violenza che, nel contenere quella fisica, ne contiene una ancora più profonda, che è poi quella che genera quella fisica, e cioè quella dell’umiliazione e dell’offesa. E’ umiliando e offendendo l’ Altro in quanto essere umano che se ne qualifica la sua esistenza come Altro e lo si identifica come proprio nemico. Ma l’Altro, a sua volta, come accade in “Aspettando i barbari”, può essere violato e umiliato ma la sua alterità resta impenetrabile e imprendibile perché gli appartiene e tale distanza e differenza è ineliminabile.