“La casa vuota” – Willem Frederik Hermans – Seconda parte

La prima impressione con cui si fa i conti leggendo “La casa vuota” è quella della dissoluzione e del disfacimento. Della perdita cioè di riferimenti e di coordinate che consentano di ancorare personaggi e circostanze a logiche riconoscibili e che permettano di stabilire le identità e di comprendere gli avvenimenti. C’è quasi un che di distopico che aleggia, trasmesso e indotto dalla presenza di un caos nel quale le cose si svolgono e gli individui si muovono, prevalendo un senso di annientamento e di deriva, di incomunicabilità e di disunità. I fatti si svolgono in una sorta di terra di nessuno, collocabile genericamente a est, i personaggi sono senza nome, del protagonista, anche lui anonimo, sappiamo solo che è olandese, le date si ricavano in modo indiretto e approssimato. Di certo c’è solo che siamo nel corso della guerra in un contesto in cui si fronteggiano russi, tedeschi e partigiani.

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“La casa vuota” – Willem Frederik Hermans – Prima parte

Il post pubblicato quest’oggi da Marisa Salabelle sul suo blog, dal titolo “Sgomento”, a cui rimando e di cui condivido pienamente le “preoccupazioni” in merito agli atteggiamenti di assuefazione che si stanno diffondendo in relazione all’idea della guerra, mi ha indotto ad anticipare la pubblicazione del commento del romanzo breve di Willem Frederik Hermans “La casa vuota”, pubblicandone una prima parte. Ciò per la corrispondenza e la contemporaneità dei temi trattati nel libro di Hermans rispetto a quanto stiamo assistendo oggi negli scenari delle guerre in corso, a fronte degli atteggiamenti vuoi di leggerezza, vuoi di rimozione, vuoi di accettazione nei confronti della guerra che, a seconda dei casi, si stanno affermando, come evidenziato da Marisa Salabelle nel suo post.

Willem Frederik Hermans è ormai unanimemente riconosciuto come uno dei massimi scrittori olandesi del Novecento. E sebbene la sua notorietà fuori dall’Olanda sia rimasta a lungo limitata – tanto che da noi la prima traduzione e pubblicazione di una sua opera è avvenuta nel 2005 quando la BUR ha editato il romanzo breve “La casa vuota” – tuttavia la valenza e la rilevanza della sua produzione è stata ed è ormai ampiamente riconosciuta anche al di fuori dell’ Olanda essendo stati, molti dei suoi libri, tradotti in tutto il mondo. E, di recente, nel settembre del 2022, anche da noi è stato pubblicato, da Iperborea, un altro suo importante romanzo: “La camera oscura di Damocle” (1958) che insieme a “La casa vuota” (1951) e a “Le lacrime delle acacie” (1949) costituisce la triade dei suoi romanzi più famosi e conosciuti.

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“La cittadina dove il tempo si è fermato” – Bohumil Hrabal

La cittadina dove il tempo si è fermato” è, in prima battuta, un gioioso romanzo comico in cui Hrabal, da par suo, conferisce alle vicende narrate una unicità e singolarità tale da farle diventare vicende “mitiche”. Ogni episodio, ogni circostanza della vita dei protagonisti, così come affiora nel corso della narrazione, nonché i loro caratteri e i loro comportamenti, si stagliano infatti di fronte al lettore per la loro particolarità e “teatralità”. Non appena si comincia a fare la loro conoscenza ci si accorge che i protagonisti del romanzo, dietro le parvenze iniziali, rivelano infatti una natura che non ha nulla di ordinario e di regolare. Una natura che, da persone quali essi sono, li rende tutti, chi più chi meno, dei veri e propri personaggi che, per un motivo o per l’altro, si staccano dall’ habitus di ciò che è standard e normale e si rivelano assolutamente fuori dagli schemi per il loro modo d’essere spiazzante e talora un po’ pazzoide che suscita un spontaneo effetto di intensa comicità.

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“Il levitatore” – Adrián Bravi

Winfried Sebald in quella sua bellissima raccolta di “profili” di alcuni autori a lui cari che ha per titolo “Soggiorno in una casa di campagna”, dedica uno di tali “profili” ad uno degli autori da lui più amati: Robert Walser del quale ne dà questa descrizione: “Robert Walser era nato, credo, per un viaggio silenzioso…un viaggio nell’aria. Sempre…egli vuole innalzarsi oltre la pesante vita terrena, vuole dileguarsi tacito e lieve in direzione di un mondo più libero.” (W. Sebald – “Le promeneur solitaire. In ricordo di Robert Walser” in W. Sebald – “Soggiorno in una casa di campagna” – Adelphi – 2012 – p. 135). Ebbene queste stesse parole che Sebald riferisce al modo di porsi di Walser nella sua vita e nelle sue opere potrebbero essere dette, ancor più appropriatamente, con riferimento al personaggio di Anteo Aldobrandi, il protagonista de “Il levitatore” di Adrián Bravi. In quanto Anteo non solo con lo spirito ma anche con il corpo tende a sollevarsi da terra giacché è dotato, in modo naturale, della capacità di levitare cioè di staccarsi dal terreno restando sospeso, in quella condizione di “sgravitato”, in modo stabile. Ad Anteo infatti non occorre sollevarsi di tanto; seduto sul suo cuscino preferito ed incrociate le gambe, per lui “…l’importante…è riuscire a staccarsi e a mantenere una propria stabilità.”

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“Da quando sono nato” – Maurizio Salabelle – Seconda parte

Patrizio Rhuggi, il protagonista di “Da quando sono nato”, nasce in un brutto momento, potremmo dire già nel segno della sfiga. Infatti il giorno in cui nasce il padre aveva appena dovuto chiudere definitivamente i suoi negozi di accessori a causa della perdita del portafogli. Che, detto così, sembra un bel po’ sproporzionato ma non ci si deve sorprendere perché qui le sproporzioni, le esagerazioni, le iperboli impazzano. Basti dire che veniamo messi pure al corrente che i Rhuggi, a quell’ epoca, abitavano a novecento chilometri dal capoluogo che, in effetti, è una distanza un bel po’ siderale da un capoluogo. Ma la perdita di quel portafogli fu davvero per il padre di Patrizio una disgrazia seria perché significò la perdita di quell’ “…affare fondamentale” che lo farà piombare di colpo nel fallimento. Il quale, cioè il fallimento, fin dall’ inizio della storia fa dunque la sua apparizione.

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“Da quando sono nato” – Maurizio Salabelle – Prima parte

Quando lo scorso mese di ottobre Marisa Salabelle, sorella di Maurizio Salabelle, ha annunciato, sul suo blog, l’ uscita, avvenuta il 18 ottobre, di un nuovo romanzo di Maurizio Salabelle dal titolo “Da quando sono nato”, ho provato un immediato moto di contentezza. Perché Maurizio Salabelle è un autore che ho amato e amo molto, di cui ho letto tre dei suoi precedenti romanzi e cioè: “Un assistente inaffidabile” e “La famiglia che perse tempo” – dei quali ho parlato qui nel mio blog – e “Il maestro Atomi”. La contentezza era ovviamente dovuta alla prospettiva di leggere un nuovo libro di Maurizio Salabelle ma, in essa, vi era anche la sorpresa per l’ inattesa notizia dell’ esistenza di questo nuovo libro. Perché, per coloro che non lo sapessero, Maurizio Salabelle è deceduto, prematuramente, nel 2003 a soli 43 anni e, da allora, era uscito un solo romanzo postumo: “La famiglia che perse tempo”, nel 2015, che ritenevo fosse anche l’unico e l’ ultimo rimasto da pubblicare dopo la sua morte. Scoprire a distanza di otto anni da quell’ uscita e a vent’anni dalla sua morte che c’era un altro suo romanzo rimasto inedito è stata più che una sorpresa, è stato come se avessi ricevuto un regalo insperato.

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“I superflui” – Dante Arfelli – Seconda parte

“I superflui” ruota fondamentalmente intorno a un tema, il tema della mancanza. Che non è solo una mancanza di tipo materiale, che pure è fortemente presente e condiziona pesantemente le vite dei protagonisti, ma è, soprattutto, una mancanza di possibilità. Come se le risorse, sia quelle interne: del loro bagaglio personale ed esistenziale, sia quelle esterne provenienti dalla società, dal mondo, dagli altri, non fossero loro date, lasciandoli quindi, come detto, privi di possibilità. In altre parole come se i protagonisti del romanzo fossero costituzionalmente in una loro condizione di debolezza sia soggettiva che rispetto alle opportunità, che ne fa degli esclusi, degli emarginati, per l’ appunto dei “superflui”. Persone cioè la cui esistenza è segnata dall’ irrilevanza, dalla marginalità e i cui tentativi di uscire da quella loro condizione risultano inutili, perché quella loro condizione gli ritorna addosso, li accompagna sempre, ne segna la vita e il destino.

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“I superflui” – Dante Arfelli – Prima parte

“… questa era la città…era un essere immenso che lo premeva da tutti i lati, lo spingeva, gli gridava di muoversi, con la voce irosa di un facchino, con il clacson di un’automobile, con lo scampanellio di un tram. In cento modi gridava, in cento modi lo incalzava. Era la città che lui stesso si era scelta. Ma proprio lui se l’era scelta? Pensandoci bene, no. Anche qui era stata una serie di minimi avvenimenti, oggi uno domani un altro, poi un altro ancora che lentamente l’avevano staccato e portato via dal paese. Si accorse per la prima volta che sono le cose piccole quelle che contano, non le grandi. Le grandi sono il risultato di migliaia e migliaia di minuzie che ora per ora, giorno per giorno, lavorano tenaci, accanite e preparano il colpo finale.”

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“Ferragosto” – Daria Menicanti

Daria Menicanti – “Ferragosto” – Prefazione di Marco Marchi – Edizioni “Lunarionuovo” – 1986

«La poesia di Daria Menicanti, priva degli strombazzamenti critici di cui godono normalmente i poeti [alla moda], pare a me, nella sua nuda semplicità e sincerità, una delle più vive e schiette dei nostri giorni». Così scriveva Sergio Solmi, nel 1978, suggerendo di inserire l’opera poetica di questa poetessa nella tradizione della «poesia d’ogni tempo, dai primi lirici greci fino a Leopardi», che si articola sempre «nei suoi poli fondamentali di amore-morte»….Le radici più vitali di questo suo prezioso discorso lirico affondano nella Milano banfiana, dove un’eletta schiera di intellettuali, poeti, scrittori, filosofi, pedagogisti, artisti e musicologi (come Dino Formaggio, Remo Cantoni, Enzo Paci, Antonia Pozzi, Maria Corti, Vittorio Sereni, Giovanni Maria Bertin, Luigi Rognoni, Renato Birolli, etc. etc.) si è formata alla scuola di un razionalismo critico che ha saputo nutrirsi al dibattito europeo ed internazionale senza trascurare il confronto con la tradizione dei classici….Lo spessore critico di questa sua formazione feconda la sua biografia intellettuale,…in cui, per dirla con Sereni, il lettore penetra in «un limpido canzoniere, sempre leggibile come un canzoniere d’amore e sempre capace di ribaltarsi, con poco più di un docile fruscio, in un canzoniere di morte».

(Libera riduzione dalla “Sinossi” di: Daria Menicanti – ““Il concerto del grillo” – L’opera poetica completa con tutte le poesie inedite” – a cura di: Brigida Bonghi, Fabio Minazzi e Silvio Raffo – Mimesis – 2013)

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“La vendetta” – Agota Kristof

“La vendetta” raccoglie 25 racconti brevi, anzi brevissimi, di Agota Kristof pubblicati nel 2005 prima in Francia poi da noi, presso Einaudi, che li ha riediti nel 2009 e nel 2017. Sebbene pubblicati molto dopo l’uscita dei tre libri che compongono la “Trilogia della città di K.” – il romanzo della consacrazione della Kristof, che l’ha resa famosa, leggendaria ed indimenticabile per tanti dei suoi lettori, libri usciti rispettivamente nel 1986: “Il grande quaderno”, nel 1988: ” La prova”, nel 1991: “La terza menzogna” e confluiti definitivamente nel 1998 ne la “Trilogia” – questi racconti, in realtà, risalgono agli anni settanta, a molto prima quindi dei libri della “Trilogia”, e furono le prime cose scritte dalla Kristof in francese. Da quando cioè, fuggita dall’Ungheria nel ’56, arrivò e si stabilì, dopo varie vicissitudini, a Neuchatel nella Svizzera francese, divenendo quello, da quel momento, il definitivo luogo di quel suo volontario esilio. E in cui, altresì, iniziò il suo apprendistato con il francese che diventerà la sua lingua “letteraria”, quella che utilizzerà, da allora in poi, per scrivere.

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