“Berlin Alexanderplatz” – Alfred Döblin

Pubblico, in modo pressoché integrale, uno scritto di Rainer Werner Fassbinder, “Le città dell’uomo e la sua anima. Alcuni pensieri alla rinfusa sul romanzo di Alfred Döblin Berlin Alexanderplatz”, contenuto in: Rainer Werner Fassbinder – “I film liberano la testa” – Ubulibri – 2005, una raccolta di scritti di Fassbinder pubblicata originariamente in Germania nel 1984 con il titolo “Filme befreien den Kopf” e poi edita in Italia da Ubulibri in prima edizione nel 1988. Una segnalazione ricevuta da Elena Grammann: “Dalla mia tazza di tè-Il blog di Elena Grammann”, in relazione ad un film di Fassbinder, in calce ad un suo commento ad una mia recensione, mi ha portato a consultare questa raccolta di scritti di Fassbinder, nella quale ho scoperto questo suo scritto su “Berlin Alexanderplatz”, romanzo da cui il regista tedesco trasse nel 1980 una serie tv in 14 episodi. Essendo “Berlin Alexanderplatz” un libro che ho amato e amo molto e che considero un capolavoro non solo della letteratura tedesca del ‘900 ma della letteratura tout court e ritenendo il testo di Fassbinder illuminante dei contenuti e dei temi del libro ho deciso, sull’onda di questa felice scoperta, di pubblicare questo suo testo, acquisendolo come contributo su “Berlin Alexanderplatz”.

“Circa venti anni fa, avevo quattordici anni, forse anche già quindici, vittima di una pubertà pressoché mortale, mi imbattei, nel mio viaggio obbligato attraverso la letteratura mondiale, un viaggio del tutto non accademico, estremamente personale, guidato da criteri confusi solo miei, in un romanzo di Alfred Döblin Berlin Alexanderplatz. Inizialmente, per essere franco, il libro non mi entusiasmò affatto, né mi colpì come mi era successo con alcuni, seppur rari libri che avevo letto. Che strano! Mi sarei lasciato sfuggire il contatto con un’opera d’arte fra le più emozionanti e avvincenti; non solo, e credo di sapere ciò che dico, ma anche la mia vita, certo non completamente ma sotto alcuni aspetti forse i più decisivi che io abbia potuto fino ad oggi valutare, sarebbe scorsa diversamente se il romanzo di Döblin non avesse inciso la mia mente, la mia carne, tutto il corpo e l’anima; sorridete pure di me, ma è andata proprio così.

In effetti l’autore, vuoi per vigliaccheria, vuoi per rispetto inesplicabile per le concezioni morali del suo tempo e della sua classe sociale, vuoi per inconsapevole paura di colui che in qualche maniera è coinvolto personalmente, per capitoli e capitoli, per pagine e pagine interminabili, gira attorno all’argomento o meglio intorno al tema vero e proprio del suo romanzo. L’incontro dell’ “eroe” Franz Biberkopf con l’altro “eroe” del romanzo, Reinhold, un incontro che segnerà la vita di entrambi gli uomini, avviene alla centocinquantesima pagina delle quattrocentodieci della lunga edizione economica, cioè a più di un terzo del romanzo, almeno centocinquanta pagine troppo tardi. Questa fu l’impressione che ebbi allora alla prima lettura, impressione che oggi non è fondamentalmente mutata pur essendo io inevitabilmente cambiato.

Comunque sia, ma certamente per mia fortuna, superai quel primo terzo di Berlin Alexanderplatz che, come detto, mi aveva più annoiato che turbato, disturbato o eccitato; continuai a leggere e improvvisamente la mia non fu più una lettura ma piuttosto un fagocitare, un divorare, un aspirare addirittura il testo. E anche queste espressioni sono troppo deboli per definire il mio modo di leggere perché a un certo punto, pericolosamente, non fu più tale, ma piuttosto un vivere, un soffrire, un disperarsi, un aver paura. Per fortuna il romanzo di Döblin è troppo valido per consentire al lettore di naufragare o di perdersi. Sempre di più, come ogni lettore ritengo d’altronde, fui costretto a rientrare in me stesso, verso una realtà mia, verso l’analisi della realtà di ognuno. Del resto è una pretesa che io avanzo nei confronti di ogni opera d’arte. Forse Berlin Alexanderplatz mi ha aiutato a comprendere, a formulare questa esigenza verso l’arte e ad applicarla al mio stesso lavoro.

Io mi sono imbattuto in un’opera che non solo è riuscita ad offrirmi un aiuto di vita ma anche, e ne riparlerò in seguito, in un’opera d’arte che aiuta a sviluppare l’aspetto teorico senza essere teorici, che costringe a comportamenti morali, senza essere morali, che fa accettare il comune e l’ordinario come se fossero il vero e il sacro, senza essere comuni e senza atteggiarsi a santi e tutto questo senza la pretesa di offrire un quadro dell’essenziale e senza essere crudeli, come spesso avviene con opere di questo valore.

Ma Berlin Alexanderplatz non mi è stato soltanto di ausilio in questo processo di maturazione etica; esso ha costituito per me, nella fase pericolosa della pubertà, un concreto reale aiuto di vita; allora interpretai il romanzo di Döblin, naturalmente semplificando troppo e restringendolo ai miei problemi, come la storia di due uomini la cui vita sulla terra si frantuma senza offrire loro la possibilità di trovare in se stessi il coraggio non solo di riconoscere, ma neppure ammettere che essi si piacciono in modo particolare, che in qualche modo si amano, che qualcosa di segreto li unisce più di quanto sia lecito fra uomini. Non si tratta di sesso fra persone dello stesso sesso; Franz Biberkopf e Reinhold non sono affatto omosessuali, non hanno problemi di questo genere e niente lo fa pensare. Neanche il rapporto chiaramente sessuale di Reinhold con un giovane detenuto, per quanto felicemente Döblin possa descriverlo.

Questo non ha niente a che fare con quello che c’è tra Franz Biberkopf e Reinhold. No, quello che c’è fra Franz e Reinhold non è niente di più e niente di meno che un amore puro, non minacciato dalla società. Ed è proprio questo che caratterizza il loro legame. Ma naturalmente entrambi, Reinhold ancora di più di Franz, sono esseri sociali e in quanto tali non sono nella condizione neppure di capire questo amore, di accettarlo, di accoglierlo semplicemente per arricchirsi dentro e diventare più felici attraverso questo amore che così di rado capita fra uomini. E infatti, si capisce, che significato potrebbe avere per una creatura allevata come lo siamo stati noi o in modo similare, un amore che non conduce a risultati visibili, che non porta a nulla di evidente, di sfruttabile, di utile? Un simile amore, ed è questa la cosa triste e terribile dell’amore, un amore così a coloro che hanno imparato che l’amore è utilizzabile, per lo meno utile, sia in positivo che in negativo – persino dalla sofferenza noi abbiamo imparato a godere – un amore così deve fare paura, e queste persone si intende siamo noi.

[…] Certamente chi non ha letto Berlin Alexanderplatz si chiederà che tipo di storia deve essere quella raccontata da Döblin da riuscire ad avere un significato così profondo, quasi esistenziale anche per un solo lettore, un effetto insolito per un’opera d’arte. A chi vuol conoscere la storia di Berlin Alexanderplatz si dovrebbe rispondere onestamente che di per se stessa la storia non è gran che. Anzi il contrario. La storia dell’ex operaio addetto ai trasporti Franz Biberkopf, come egli esce di prigione, come fa il giuramento di mantenersi onesto e come non gli riesce di rispettare questo proponimento è piuttosto una successione di piccole storie dissolute, in parte incredibilmente brutali, ognuna delle quali potrebbe costituire materiale pornografico per riviste oscene. Il clou di Berlin Alexanderplatz non è insomma la sua trama, questo è comune ad alcuni grandi romanzi della letteratura mondiale; la sua costruzione è ancora più ridicola di quella delle Affinità elettive di Goethe; lo straordinario è semplicemente il modo in cui viene raccontato il mostruosamente banale e l’incredibile. E’ l’atteggiamento verso i personaggi della storia, perché l’autore da un lato li mette squallidamente a nudo e dall’altra insegna al lettore a sentire la più grande tenerezza per queste creature così crudamente esposte nella loro mediocrità e gli insegna alla fine ad amarle. A questo punto tenterò di raccontare in breve la trama pura e semplice.

Come ho detto, l’ex facchino Franz Biberkopf viene rilasciato dal carcere dove ha trascorso quattro anni per aver colpito a morte con un frullino per la panna la sua ex amica Ida che negli anni Venti, economicamente difficili, di Berlino aveva battuto la strada per lui. L’ex detenuto ha dapprima banali problemi di virilità che risolve violentando quasi la sorella della sua vittima. Rotto il ghiaccio, gli riesce di avviare con la polacca Lina una relazione tale da poter essere definita d’amore e da spingerlo a giurare di restare onesto per il tempo a venire. E così è. Le condizioni economiche sono catastrofiche, tutti i tentativi di creare una base solida crollano sia che egli si dia da fare coi reggicravatte o con la letteratura erotica o vendendo il “Völkische Beobachter” [N.d.T. Quotidiano del partito nazionalsocialista], il che lo mette in urto con i suoi ex compagni comunisti, con i quali aveva svolto attività comune perché gli andavano a genio.

Gli restano i lacci da scarpe, di cui l’uomo ha sempre bisogno e che egli smercia in società con lo zio della sua Lina fintanto che questi approfitta della fiducia di Franz per minacciare e ricattare una vedova che Franz ha reso felice dietro compenso di denaro. Franz, che incrollabilmente crede nella bontà dell’uomo, è così ferito che si ritira dal mondo e dalla gente, per settimane non fa altro che bere smodatamente finché ritorna alla vita e in mezzo agli uomini. Da qualche parte conosce un tipo di nome Reinhold, certamente un piccolo delinquente ma sorprendentemente affascinante, talmente affascinante che Franz fa con lui uno strano patto: lo libera delle sue donne di cui Reinhold si stanca presto; è quasi una malattia, Reinhold deve per forza avere una femmina vicina e per averla ricorrerebbe pure al diavolo, ma poi la deve mollare da un minuto all’altro, brutalmente; tuttavia gli riesce difficile liberarsene, ha dei problemi insomma; ma si accorge che Franz, che egli giudica un imbecille, è in qualche modo affascinato da lui e gli prende le donne, la prima, la seconda ma la terza la rifiuta. Reinhold deve imparare a restare più a lungo con una donna perché questo è sano e l’altro modo di agire non lo è e poi Franz vuole aiutarlo. E che Reinhold non possa capire e che si offenda, Franz Biberkopf lo capisce.

Poco dopo si dà il caso che Franz si trovi coinvolto in un affare che egli crede un regolare trasporto di frutta; all’improvviso però gli appare chiaro che si tratta invece di un furto. Fa il palo, se la vuole svignare ma non gli riesce. Avvenuto il fattaccio Franz siede in macchina con Reinhold quando d’un tratto questi ha la sensazione di essere seguito. Dentro di lui la paura dell’inseguimento congiunta all’ira contro Franz si mescolano pericolosamente. Poi succede qualcosa simile a un incubo, Reinhold scaraventa improvvisamente Franz fuori dall’auto, Franz viene investito dal veicolo che segue e pare sia morto. Ma non muore, perde soltanto il braccio destro. La sua ex amica Eva e il suo protettore lo rimettono in sesto, senza braccio ritorna in città, conosce un piccolo mascalzone per il quale fa ricettazioni che gli procurano un certo benessere. Poi Eva gli presenta una ragazza che lui chiama Mieze e che, è palese, si prostituisce per lui. Franz l’accetta e per un po’ i due sono felici. Si amano. Ma Reinhold si immischia in questo rapporto, incontra più volte Mieze finché la uccide. Franz viene arrestato per questo delitto, entra in un manicomio dove in una fase più lunga di un “processo inverso della catarsi”, diventa un membro comune utilizzabile della società. Poi non gli accade più niente di speciale. Diventerà nazionalsocialista. L’incontro con Reinhold l’ha distrutto fino a questo punto. Questa è la storia. In complesso niente di più di un romanzo da tre soldi, in particolare niente di più di una serie di storie da giornale popolare. Cos’è allora che trasforma questo intreccio in qualcosa di così prezioso? E’ il modo, si capisce.

In Berlin Alexanderplatz convivono le emozioni più piccole o semplicemente mediocri, i sentimenti, i momenti di felicità, le aspirazioni, le soddisfazioni, le sofferenze, le ansie, l’assenza di consapevolezza eccetera dell’individuo insignificante, non importante, visibilmente poco appariscente; si accorda qui ai cosiddetti “piccoli” la stessa grandezza che nell’arte si accorda normalmente ai “grandi”. Agli uomini di cui narra Döblin in Berlin Alexanderplatz, in particolare naturalmente al protagonista, Franz Biberkopf, ex facchino prima, magnaccia poi, assassino, ladro, di nuovo protettore, viene attribuito un subconscio differenziato, accoppiato a una fantasia e a una capacità di soffrire a mala pena credibili, di cui sono privi la maggior parte dei personaggi della letteratura mondiale – per lo meno fin dove arrivano le mie cognizioni – anche se si tratta di gente colta, di intellettuali intelligenti, di grossi amanti, per citarne solo qualcuno. Il piglio di Döblin verso i suoi personaggi, queste creature obiettivamente povere e insignificanti, è di notevole sicurezza, anche se Döblin ha più volte negato di essere stato influenzato dalle scoperte di Sigmund Freud. Berlin Alexanderplatz sarebbe insomma il primo tentativo di trasportare nell’arte le cognizioni freudiane. Questo innanzitutto.

In secondo luogo Döblin racconta ogni brandello di azione, anche il più banale, come se si trattasse di un avvenimento significativo e grandioso, come se facesse parte di una mitologia solo apparentemente segreta, come una trasposizione di momenti religiosi, siano essi cristiani o ebraici.

Döblin convertitosi dal credo ebraico al cattolicesimo, aveva più problemi con la religione di quanto sia usuale. Forse per questo ha tentato di dominare questi problemi, di scoprire nell’ordinario lo straordinario della religione e di narrarlo come tale. Più semplicemente questo significa che nessun momento dell’azione del romanzo, anche se del tutto autonomo, può restare isolato perché è una sequenza di una seconda narrazione, di un’altra narrazione più impenetrabile e più segreta, è parte di un secondo romanzo nel romanzo o forse parte di una mitologia privata dell’autore, ma questo non voglio deciderlo ora.

In terzo luogo incide la tecnica narrativa che Döblin ha inventato per Berlin Alexanderplatz , che forse ha soltanto scelto. In realtà non ritengo importante domandarsi se l’abbia inventato lui oppure no, è decisivo però se un autore sceglie intenzionalmente il mezzo giusto; se egli poi ne sia anche l’inventore, questo è compito dello storico della letteratura. Ma non ha nessuna rilevanza per il lettore che abbia la fortuna di leggere un romanzo per il quale l’autore ha trovato l’espressione adeguata e questo Alfred Döblin col suo Berlin Alexanderplatz l’ha fatto con la sicurezza del sonnambulo. E se Döblin conoscesse l’Ulisse di James Joyce oppure no, non rende il suo romanzo migliore o peggiore. Del resto posso immaginare che i due autori abbiano inventato nello stesso momento le stesse nuove tecniche narrative, perché no? Come nella storia così anche nella letteratura niente è spiegabile da solo.

Più appassionatamente della domanda se Döblin conoscesse l’Ulisse è, secondo me, sapere se la lingua di Berlin Alexanderplatz sia stata influenzata dal ritmo della ferrovia urbana che sferragliava allora, come ora, davanti alla stanza di Alfred Döblin. Di queste cose, dei frastuoni della grande città, del suo caratteristico ritmo appunto, dell’eterna follia di un eterno andirivieni è impregnata la lingua. E dalla consapevolezza della vita di una metropoli, da una particolare osservazione di tutto ciò che ferve nella città deriva sicuramente la tecnica a collage che Döblin utilizza nel suo romanzo, uno dei pochi che hanno come tema la grande città, laddove vivere significa prestare costantemente attenzione ai toni, alle immagini, ai movimenti. E così mutano i mezzi della tecnica narrativa adottata come può mutare l’interesse di un abitante attento di una grossa città senza che questi, come il racconto stesso, perdano il loro punto focale.

Altri diranno di più e in modo più preciso dello specifico stile di Döblin; io posso solo aggiungere che Döblin ha scritto altre cose, opere d’arte che significheranno forse di più per le generazioni a venire, che forse saranno più importanti di Berlin Alexanderplatz. Io posso solo augurarmi che Döblin venga letto molto di più di quanto non succeda oggi. Per amore del lettore e della vita.”

Marzo 1980

13 risposte a "“Berlin Alexanderplatz” – Alfred Döblin"

  1. Elena Grammann 28 agosto 2017 / 23:40

    Caro Raffaele, mi fai troppo onore attribuendomi un ruolo, anche casuale, in questa bella trouvaille; sei gentile come sempre e ti ringrazio molto. Mi fai anche un po’ vergognare perché io Berlin Alexanderplatz non l’ho mai letto, diciamo anzi che l’ho più o meno consapevolmente schivato perché mi dava l’impressione di essere molto pesante. All’epoca (un’epoca che mi sembra molto lontana, e veramente siamo in un altro secolo) ho fatto la tesi su “La morte di Virgilio” di Hermann Broch, e naturalmente mi sono letta anche la trilogia dei “Sonnambuli” e tutto il resto, per dire che di analisi della psiche germanica inizio secolo avevo avuto la mia dose. Ma adesso che tu e Fassbinder ne parlate così bene, non ho scuse.
    Il testo di Fassbinder testimonia di una lettura e di un approccio personali, che sono sempre i più interessanti e coinvolgenti. Ci sono diversi punti che fanno venir voglia di confrontarsi con l’opera, per esempio mi incuriosisce molto quando dice “Forse per questo ha tentato di dominare questi problemi, di scoprire nell’ordinario lo straordinario della religione e di narrarlo come tale. Più semplicemente questo significa che nessun momento dell’azione del romanzo, anche se del tutto autonomo, può restare isolato perché è una sequenza di una seconda narrazione, di un’altra narrazione più impenetrabile e più segreta, è parte di un secondo romanzo nel romanzo o forse parte di una mitologia privata dell’autore, ma questo non voglio deciderlo ora.” In effetti mi pare che una parte almeno della letteratura novecentesca alle prese con la disgregazione urbana del mondo tradizionale cerchi di porvi rimedio con una “narrazione più segreta o una mitologia privata”.
    Poi è incredibile come le cose si incrocino e riflessioni su temi o autori apparentemente lontani si stimolino a vicenda. Ho trovato nel testo di Fassbinder un’osservazione sulle tecniche narrative che mi sarà di aiuto per il post che sto meditando e che vedrai, se riuscirò a scriverlo.
    Grazie ancora per avermi coinvolto in questa bella presentazione e a leggerci di nuovo presto.

    Elena

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    • ilcollezionistadiletture 29 agosto 2017 / 9:50

      Cara Elena,
      le cose sono andate proprio così. Quando mi hai fatto quell’accenno a “Martha”, in calce al commento a “La parete”, sono andato a vedere se trovavo qualche riferimento in quel libro di scritti di Fassbinder che ho da diversi anni ma che non ho mai “guardato” con attenzione ed è stato così che ho scoperto il suo scritto su “Berlin Alexanderplatz”. Se non ci fosse stato quel tuo input tutto questo processo non si sarebbe attivato e, soprattutto, le parole di Fassbinder sarebbero rimaste, per me e per chi adesso le può qui leggere, chiuse in quel libro, quindi il ruolo l’hai avuto.
      Beh hai ben poco di cui vergognarti, visto il “pedigree” dei tuoi trascorsi germanistici che, adesso che li so, mi mettono anche un po’ di soggezione oltre che ammirazione.
      Avere fatto una tesi di laurea e avere letto l’opera di un mostro sacro, per niente facile tra l’altro, come Broch fa tremare le vene e i polsi – espressione che non uso a caso visto che nel 1° canto dell’ Inferno Dante la usa proprio rivolgendosi espressamente a Virgilio – solo a pensarlo.
      Proprio pochi mesi fa ho letto il mio primo Broch: “L’incognita” e ho lì, in bella vista, su uno scaffale tra quelli più a portata di mano della mia libreria, “I sonnambuli” al completo che mi guardano e che non oso affrontare oltre che “Gli incolpevoli”. Mi rifarò a te il giorno che ci metterò mano. Capisco quindi le tue motivazioni verso le resistenze nei confronti di “Berlin Alexanderplatz”. Però intanto ti tranquillizzo dicendoti che non è un libro pesante, anzi nonostante le belle dosi di tragiche vicende che lo attraversano è piuttosto scorrevole. E poi, come dice Fassbinder, vi è questa capacità di rendere queste vicende che sono in sé “povere e semplici” con quell’espressionismo, di cui Döblin era maestro, che le fa diventare quasi epiche e le trasforma in imprese, magari imprese disperate e ai limiti della sopravvivenza ma comunque sempre imprese. Che, forse, detto in altri termini, è quella “mitologia privata” di cui parla Fassbinder.
      E poi se questa lettura del testo di Fassbinder ti è stata di stimolo per ciò che hai in cantiere vuol dire che il gioco “letterario” delle corrispondenze e dei richiami da cui tutto è nato si conferma essere stato molto proficuo.
      A rileggerti presto.
      Un carissimo saluto
      Raffaele
      P.S. Ah, poi, nel libro di Fassbinder, riferimenti a “Martha” non ne ho trovati.

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      • Elena Grammann 29 agosto 2017 / 21:21

        Caro Raffaele, nella mia biblioteca Broch, opere pressoché complete, si trova sull’ultimo scaffale, terza fila dietro, praticamente irraggiungibile, nel senso che mi aveva dato una bella stufata. Per la scelta del tema della tesi avevo dato retta a un amico del cui giudizio estetico mi fidavo molto, ma probabilmente non avevo nemmeno la maturità per capire fino in fondo questo autore veramente complesso. E dove ho fatto l’università io, il motto dei docenti era semplicemente: “arrangiatevi!” Però “I sonnambuli” te li posso davvero consigliare, leggerli è un’esperienza che condensa un bel tocco di anima europea all’inizio di un secolo tragico. Invece ti direi di stare alla larga dalla “Morte di Virgilio”: è una lettura da masochisti.
        Buona serata e a presto.

        Elena

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  2. viducoli 2 settembre 2017 / 8:02

    Ciao Raffaele.
    Che piacere trovare Fassbinder dalle tue parti!
    Amo moltissimo il cinema di questo autore che questi tempi grami hanno ormai quasi dimenticato: le cose che dice a proposito di Berlin Alexanderplatz e del modo di fare arte secondo me si ritrovano appieno nel suo cinema (penso in particolare a Il matrimonio di Maria Braun).
    Come Eelna, anche io ti consiglio vivamente di leggere I sonnambuli: tre volumi semplicemente meravigliosi.

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    • ilcollezionistadiletture 3 settembre 2017 / 11:24

      Ciao Vittorio.
      Grazie della visita e della condivisione dei contenuti del testo di Fassbinder e della scelta che ho fatto di pubblicarlo. Anche a me è parsa illuminante come “lettura” del libro di Döblin e mi è sembrato fargli un giusto onore, visto che me ne è capitata l’occasione, sia come lettore di Döblin che come grande regista quale egli è stato. So bene quanto sia “grande” e immagino affascinante la lettura de “I sonnambuli” e ti ringrazio di avermi sollecitato a farla. Mi intimorisce un po’ la mole e l’impegno che, conoscendomi, finirei per metterci, ma comunque, stanne certo, non troppo in là la farò.
      Grazie di nuovo e un carissimo saluto.
      Raffaele

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  3. vengodalmare 7 settembre 2017 / 18:31

    È stato interessante e per me molto emozionante leggere questo scritto di Fassbinder sul libro di Döblin (che ho letto e assicuro essere una lettera scorrevole inizialmente e appassionante, avvincente nella parte successiva).
    Sapere che Fassbinder, regista da me molto amato, sia stato così seriamente segnato dal libro di Döblin è per me una bella scoperta. Molto emozionante come ha descritto quel libro, che secondo me è di scrittura cinematografica e non a caso Fassbinder ne ha fatto un bel film.
    Strano notare che il film da lui tratto da un libro così tanto amato, pur essendo considerevole, poi non sia -secondo il mio giudizio- stato il film più riuscito di Fassbinder. Ma queste sono considerazioni che lasciano il tempo che trovano.
    Comunque molto, molto interessante questo scritto e ti ringrazio di averlo proposto nel tuo blog.
    Ho fatto una ricerca, il libro da te citato non è più disponibile in commercio, peccato: sarebbe stato bello leggerlo.

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    • ilcollezionistadiletture 8 settembre 2017 / 7:06

      Mi fa molto piacere che ti sia piaciuto questo scritto di Fassbinder su “Berlin Alexanderplatz”. Un libro di cui, tra l’altro, “da giovane”, venni a conoscenza proprio tramite il film di Fassbinder. Quindi quando ho scoperto questo suo scritto in quella raccolta dal titolo “Il film liberano la testa” ormai, purtroppo, non più reperibile, mi è sembrato – tra gli altri motivi per cui l’ho pubblicato – bello pubblicarlo anche per fargli un giusto e doveroso omaggio per una sorta di debito di riconoscenza per avermi fatto scoprire un libro e un autore che ho poi letto “da grande” e che considero grandissimi.
      Grazie a te per l’apprezzamento e per l’attenzione e un carissimo saluto.
      Raffaele

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  4. T 12 aprile 2021 / 22:45

    Buongiorno Raffaele,
    ho appena letto “Berlin Alexanderplatz” tutto d’un fiato nella prima (anche matericamente splendida, nella sua nuda e disadorna semplicità) edizione italiana del 1931, opera dello stesso traduttore (Spaini, un genio) – una traduzione spesso meravigliosamente diversa (l’ho confrontata con una BUR del 1995) da quelle attualmente in commercio.
    Adoro, sopra qualunque altro regista, Fassbinder, di cui ho visto credo tutto, tranne proprio “Berlin Alexanderplatz”.
    Con gratitudine ti ringrazio di aver pubblicato questo suo scritto, con cui ho man mano, leggendolo, concordato pienamente e con gioia.
    Due domande: anche tu interpreti il finale in quel modo (Franz “diventerà nazionalsocialista”)?
    E: quale morale trai tu (o voi, se qualcun altro lo ha poi letto) dal libro? Devo saperlo da qualche altro lettore prima di mettermi al più presto a rileggerlo, e prima di vedere su YouTube il film (che mi complicherà il tutto). La domanda è puerile, ma per favore rispondi/ete proprio così, come risponderesti/e a un puer. Grazie

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    • ilcollezionistadiletture 13 aprile 2021 / 11:10

      Per me il pregio di “Berlin Alexanderplatz” è il pieno riconoscimento che Doblin riesce a dare a quella che diverrà l’alienazione, la perdita di riferimenti, la deriva e la solitudine dei singoli nella condizione contemporanea. Ma, soprattutto, l’affermazione del grande tema del fallimento connaturato alla condizione umana, essendo “Berlin Alexanderplatz”, fondamentalmente, una tragica, impietosa e assurda commedia sul fallimento della vita e dell’ uomo.
      Grazie della visita e dell’ attenzione.
      Buone letture e riletture.
      Raffaele

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      • T 15 aprile 2021 / 21:30

        Sul serio? Io, leggendolo attraverso le lenti dalla cultura ebraica hassidica e di quella ebraica eretica, l’ho trovato un libro di una religiosità mistica e colma di dolente pietas. Forse il testo più “edificante” (in senso non bigotto, ma letterale) e morale (senza la minima traccia di moralismo), che abbia mai letto.
        Magia di un capolavoro, avere così tanti e addirittura opposti significati.
        Diversamente da Fassbinder, per me Franz non diventa affatto nazista, si ritrae del tutto, come il Candido di Voltaire.
        Ora guardo il film e poi rileggo.
        Grazie a te, della risposta. E diventerò certo una tua nuova lettrice.
        P.S: se lo stile di Doblin ti ha preso, prova Céline. Non l’ho visto tra i tuoi francesi, dove trovo invece Queneau, che adoro.

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  5. ilcollezionistadiletture 16 aprile 2021 / 17:00

    Sicuramente la pietas che Döblin suscita attraverso le vicende che segnano la vita di Franz Biberkopf è molto forte, pertanto condivido che “Berlin Alexanderplatz” trasmetta un senso di “dolente pietas”, indipendentemente che la sua matrice sia religiosa o meno.
    Tuttavia è altrettanto presente in “Berlin Alexanderplatz” – e non in contrasto con quella pietas – l’aspetto della lacerazione e dello sgretolamento dell’individuo che Franz Biberkopf incarna.
    La sua odissea e le sue “cadute” che ne fanno un “Kleiner Mann” (vale a dire un “pover’uomo”), nonché il suo vagabondare nella città, sono la rappresentazione di quella frantumazione dell’individuo e di quel suo procedere senza più certezze e riferimenti che Döblin rende in modo esemplare. In altre parole Döblin affronta umanamente ma anche spietatamente il tema del fallimento che aleggia e incalza nella vita di Franz Biberkopf a cui egli cerca di resistere e di opporsi disperatamente.
    Ti riporto a tale proposito alcune considerazioni di Claudio Magris che uniscono e sintetizzano molto bene, secondo me, l’aspetto della sacralità e quello del disfacimento presenti in “Berlin Alexanderplatz”.

    “Berlin Alexanderplatz è un libro dedicato all’inadeguatezza ma anche alla resistenza del singolo. Franz Biberkopf non è soltanto immerso nella tentacolare molteplicità della vita metropolitana, egli è intessuto di questa realtà vorticosa e indifferente. La sua vicenda e la sua esistenza sono un montaggio dei vari frammenti che compongono il brulicare della modernità. Berlino, la metropoli caotica e impersonale, porta all’estremo la prosa del mondo, l’astratto e anonimo ingranaggio che coordina, sintonizza e macina la vita degli uomini. In Berlin Alexanderplatz è il ritmo plurale della metropoli che tesse e disfa le figure e i destini. Ma Döblin non esprime soltanto la passività del suo eroe nel disincanto del mondo, ma anche la sua resistenza – ardua ed ottusa, ma picaresca ed impavida – a quel disincanto. Il romanzo mostra come anche un individuo sia, in gran parte, un collage eterogeneo e discontinuo, ma mostra pure come nel cuore di questo individuo, che si rialza dopo ogni “knock out” subito dal mondo, non si spenga una sacralità biblica, che lo inserisce nella continuità epica della vita.” (C. Magris – “L’anello di Clarisse” – Einaudi – 1999 – p. 381)

    Ti ringrazio infine per la visita prestata al blog e per i suggerimenti di lettura ma Celine, pur avendo letto il suo capolavoro: “Viaggio al termine della notte”, e anche “Rigodon”, è un tale gigante della letteratura che affrontare un commento dei suoi libri mi sembra impresa improba. Vedremo.
    Grazie ancora e buone letture.
    Ciao
    Raffaele

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  6. T 19 aprile 2021 / 2:08

    Raffaele, ciao! grazie, ho letto attentamente, ma io l’aspetto caotico e dissolutivo, di disfacimento, lo vedo tutto, la mia “pianta” esistenziale ha radici decennali in Nietzsche e in Heidegger. La mia domanda era, pregandovi di rispondere come a una bambina che ve lo chiedesse: che morale avete tratto dal libro? Ancor più infantilmente: Vi è servito per la vita? e come?
    Sto vedendo il film e rileggendo contemporaneamente il libro. Lo farò molto lentamente, nel mentre che disbrigo faccende molto pratiche e prosaiche. Quindi ci metterò dei mesi, forse degli anni. Già solo l’episodio dell’incontro con i due hassidim (non sono, vedi la descrizione nel libro e anche nel film, due generici “ebrei” – un po’ come due amish non potremmo definirli due generici “cristiani”, neanche qualificandoli più specificamente come due “cristiani protestanti”), è un episodio densissimo, ed è probabilmente la chiave del libro – un “aiutino”, per così dire, al lettore, soprattutto al lettore ebreo. Lo Stefan Zannowich di cui i due ebrei narrano a Franz, non è un personaggio di fantasia: è un uomo realmente esistito, un uomo che ha cercato spasmodicamente di dare un indirizzo al suo destino. Ed è questo per Doblin che non va fatto (vedi le ultime pp. del libro). Qui siamo davanti a un libro severissimo, moralmente, durissimo. Un libro che se vuoi ti cambia la vita, che ti sgrava, che ti fa partorire un nuovo te. Anche il tema omoerotico che Fassbinder coglie (nello stesso modo in cui l’ho colto io leggendo – di qui parte della mia gioia di cui al primo post), qui però, a parte la gioia di constatare di aver interpretato come Fassbinder, che amo molto, non mi interessa: mi interessa di Reinhold che Reinhold appare poi a Franz come un diavolo con il quale Franz non avrebbe dovuto combattere. Perchè per vanità e orgoglio Franz mostra a Reinhold la sua Mieze, esponendola così alla morte. Qui siamo davanti a un libro durissimo, di redenzione: non devi volerti fare un destino, non devi essere vanitoso, orgoglioso, e molte altre cose ancora che ritroverò rileggendo, non devi essere. Senti qui l’enormità di ciò che esige Doblin in materia di etica: “Il tema intrinseco (del romanzo) quindi è: sacrificarsi, offrire se stesso come vittima”, dice nella “Nota a una ristampa, 1955”, riportata alla fine dell’edizione BUR che avete letto voi, “e ben presto risaltano nel libro, per colui che sa leggere, anche i temi del sacrificio”, e Doblin cita l’episodio di Abramo e quello del mattatoio.
    Se ti/vi vien voglia date uno sguardo alla figura dello Zaddiq nel hassidismo, e a come la torce un “eretico” dell’ebraismo come Jacob Frank o Sabbatai Zevi.
    “A Franz Biberkopf è stata praticata una cura intensiva. Ed alla fine lo ritroviamo in Alexanderplatz, molto cambiato, arpionato, ma insomma rimesso in piedi. Per molti NON sarà tempo perduto osservare e ascoltare tutto questo”, dice Doblin nella seconda pagina del libro. Allora, se hai voglia, aiutami, aiutatemi, visto che: “E’ anche più bello e meglio essere con gli altri. E tutto mi pare il doppio più buono”, e “Non si è soli”, come dice Doblin nelle ultime pp.
    Che libro luminoso, speranzoso, che ti mostra così chiaramente il “pabulum” del nazismo e altrettanto chiaramente anche il modo per non nutrirtici (= l’etica, il socialismo, la non-alienazione, il non aderire alla massa di quelli che si girano dall’altra parte, che marciano, che lasciano che il male diventi qualcosa di banale), restando purtroppo in questo inascoltato. Era il 1929: era già troppo tardi.
    Ho prenotato in biblioteca “Erläuterungen zu Alfred Döblin, Berlin Alexanderplatz”, di Bernd Matzkowski, vediamo se serve. (Nel farlo ho visto che “I film liberano la testa” non lo trovate più in commercio, ma lo trovate però in molte biblioteche italiane e lo potete richiedere in prestito interbibliotecario.)

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