Leggendo questo commento si noteranno concetti, brani o versi fra virgolette, seguiti, fra parentesi, dall’indicazione di autori e di loro opere. Quei concetti, brani o versi sono infatti tratti dalle opere di quegli autori. Tale scelta, nell’economia del commento, deriva dall’intenzione di evidenziare la presenza ne “La lucina” di vere e proprie assonanze tematiche, narrative e concettuali con quelle opere e con quegli autori, le quali danno la misura della ricchezza dei riferimenti e dei rimandi rinvenibili in questo testo e delle evocatività che esso suscita.
“La Lucina” è un romanzo sull’inscindibilità delle cose e, in primo luogo, sull’inscindibilità della vita e della morte. Tutto ne “La Lucina” appare immerso in un perenne ciclo vita-morte e tutto si muove in un eterno e meccanico moto, in continua trasformazione (Lucrezio, “De rerum natura”, Libro primo). Ciò all’interno di una Natura in cui si svolge una continua lotta per la sopravvivenza. La vita di qualsiasi essere, umano e non, è, perciò, un’esperienza dolorosa perché si basa su un anelito alla sopravvivenza che è esposto a sofferenze atroci. Giacché la sopravvivenza è costantemente messa a repentaglio dalla sopraffazione reciproca tra gli esseri e gli elementi che abitano la Natura e vivono il mondo. Un mondo che per sua Natura appare un mondo offeso e, nel contempo, di cui non si conosce la vera Natura.
Domina quindi un non detto o meglio un non dicibile in quanto non esplicabile che getta tutto in una stupefacente quanto spaventosa irrealtà. Già l’incipit, peraltro bellissimo, ci proietta in una dimensione di universo infinito e di deserto umano che induce il senso di “sovrumani silenzi” (G. Leopardi, “L’Infinito”): “ Sono venuto qui per sparire, in questo borgo abbandonato e deserto di cui sono l’unico abitante. Il sole è appena scomparso dietro il crinale. La luce si sta spegnendo. In questo momento sono seduto a pochi metri dalla mia piccola casa, di fronte a me uno strapiombo vegetale. Guardo il mondo che sta per essere inghiottito dal buio”. Già qui sono racchiuse molte intonazioni e motivi presenti ne “La lucina”.
In primo luogo la condizione di solitudine esistenziale oltre che fisica. Il protagonista, che qui si presenta, rivela, da subito, che è una necessità interiore, profonda e indicibilmente dolorosa di separatezza dal mondo che lo muove, “come uno di quegli animali malati che, cauti, vanno a rintanarsi in un rifugio…e si nascondono nella propria pelle fino a confondervisi” ( J.M.G. Le Clezio, “Il verbale”) Quel “Sono venuto qui per sparire” ha, in questo senso, una forza evocativa potente ed è altresì un’indicazione di forte evidenza premonitrice e programmatica.
Vi è poi il motivo delle opposizioni in quanto parti di un ciclo: in questo caso “La luce” e il “buio”, in continua rotazione tra loro. Vi è poi ancora l’elemento dell’essere incorporati, nel senso letterale di un corpo o di un’entità che ne incorpora un altro/a, in questo caso è l’immagine del buio che inghiotte il mondo. Poco dopo è quella di fameliche rondini: “Vedo distintamente di fronte a me il corpo nero di qualche insetto più carenato e più grande mentre viene inghiottito da una rondine che lo inseguiva col becco spalancato, lanciando grida. Il silenzio è tale che riesco persino a sentire il clangore del suo corpo che continua a soffrire stritolato e smembrato dentro il corpo dell’altro animale mentre risale inebriato nel cielo”. Tutto questo evoca a sua volta il binomio “Incanto e disperazione” (E. Dickinson, componimento “725”: “Quello che fai – Incanto – / Quello che non fai – Disperazione – ; W. Szymborska, “Il Cielo”: “Miei segni particolari: incanto e disperazione”), anche se qui opterei più per una lettura nei termini di “incanto nella disperazione”. Ciò per sottolineare che l’incanto trapela più dalla forma espressiva in sé il cui andamento è spesso vera e propria poesia in prosa. Laddove la disperazione è nelle cose, in quanto conseguenza di quel metafisico, oscuro ed ignoto che tutto avvolge e di quella crudeltà, insita nel mondo, che si genera e si produce instancabile.
Siamo quindi dentro ad un “mondo” che se pure è nel mondo, in realtà non assomiglia ad alcuna realtà. Perché ne “La lucina” non si indaga la realtà ma l’esistenza e se ne dà una sua possibilità, giacché l’esistenza è un campo di possibilità: “Il romanzo non indaga la realtà, ma l’esistenza. E l’esistenza non è ciò che è avvenuto, l’esistenza è il campo delle possibilità umane” (M. Kundera, “L’arte del romanzo”).
Una generazione di luce: “una lucina”, sospesa nel nulla, appare nello sguardo sul “crinale di fronte…ogni notte, sempre alla stessa ora”
“Che lucina sarà? Chi l’accenderà?”
Intanto siamo condotti dentro un flusso di gesti e di azioni elementari e meccaniche che scandiscono il tempo e l’esistenza: “Mi lavo. Mi vesto. Vado ad aprire le finestre…Mangio qualcosa. Mi lavo la biancheria”, perché non vi è altro da fare, non vi è più altro da fare. Lì, in quel luogo, il fare non ha più alcun senso. E’ troppa la disparità con quello che c’è ed accade là fuori: “Guardo…questo mondo vegetale immobile come un’apparizione…queste montagne ricoperte di boschi a perdita d’occhio. Vengono giù a strapiombo…come un paesaggio primordiale modellato a colpi di pollice”.
Non c’è bisogno di raccontare basta solo vedere, ascoltare, odorare, toccare la grande maglia dell’universo sospesa tra cielo e terra. Quella tessitura delicatissima e compatta che ci tiene dentro di sé e che ci imprigiona. Ma, nella quale, a ben guardare, un che di straziante si realizza immemore, lasciando spaesati: la morte abita dentro la vita: “”Perché c’è tutto questo sottobosco cattivo?” mi domando. “Che cerca di avviluppare e di cancellare e di soffocare gli alberi più grandi? Perché tutta questa misera e disperata ferocia che sfigura ogni cosa? Perché tutto questo brulicare di corpi che cercano di prosciugare gli altri corpi suggendoli con le loro mille e mille scatenate radici e le loro piccole, forsennate ventose, per dirottarne su di sé la potenza chimica, per creare nuovi fronti vegetali in grado di annientare tutto, di massacrare tutto? Dove posso andare per non vedere più questo scempio, questa irreparabile e cieca torsione che hanno chiamato vita?””.
E in questa materialità potente e prepotente incombono quelle minacce che possono distruggere il mondo e i suoi abitatori, minandolo dalle sue stesse viscere: “Poco fa, mentre ero a letto e dormivo profondamente, nel primo sonno sono stato svegliato dal terremoto”. Ancora un segnale di precarietà, di vulnerabilità, di morte potenziale insita nel vivere come quella che emana “Dall’utero tonante” de lo “Sterminator Vesevo” (G. Leopardi, “La ginestra”). Ma in questo perenne muto dialogo con quella materia animata che c’è lì fuori, il cui inesplorabile enigma, al solo pensarlo, stordisce, l’altro enigma, quello di quella “lucina” appare a suo modo esplorabile. E così un giorno, apertosi un varco tra tornanti, stradine, sentieri, “tentacoli vegetali” e crinali scoscesi vi giunge in quel punto da cui quella “lucina” proviene e vi trova una casina in cui “C’era dentro un bambino in calzoncini corti, con la testa rasata”, che vive lì da solo e che fa da solo tutto quello che di solito un bambino non fa perché, di solito, c’è un papà e una mamma che fanno quelle cose per lui.
Ma lì non c’è né un papà né una mamma, c’è solo lui che, come tanti altri bambini, siccome ha paura del buio, tiene quella lucina accesa la notte ma, diversamente da tanti altri bambini, si comporta come un grande da tempo abituato a fare tutto da sé. La solitudine di quel bambino non è l’esito di un abbandono, nessuno lo costringe lì, c’è una misteriosa alterità in lui, c’è un indizio di passato piombato nel presente: “Però che strano…Non li mettono più i calzoncini corti, da un bel po’ di tempo, i bambini”. Si inizia un dialogo, un avvicinarsi reciproco, uno scoprirsi che ha in sé un riconoscersi. Le visite si infittiscono. E si scopre, un po’ alla volta, che questo bambino ha un che di segreto. Quel suo autocontrollo, troppo serio per un bambino, lo rende irreale, è come se fosse qui ma, nel contempo, non fosse più qui. E’ umanissimo, è dolcissimamente e dignitosissimamente umano eppure non sono quei suoi gesti e quelle sue azioni fintamente adulte che lo rendono umano, è quello che egli trasmette, è il suo modo di esprimere le sue emozioni che lo rende umano perché, in realtà, quello è un bambino morto: “”In paese mi hanno detto che c’è solo la scuola di giorno…” ho balbettato, sottovoce, d’un tratto.
Il bambino ha alzato la faccia verso di me.
“Quella è per gli altri bambini..” ha risposto, guardandomi con i suoi occhi spalancati, rotondi.
“Gli altri bambini? Quali bambini?”
Ha esitato un po’ prima di rispondermi.
“I bambini vivi””
””Come sei morto?”…”Mi sono ucciso”…”Perché?”…”Mi hanno fatto del male””.
Quel bambino e quell’adulto che si parlano e che sono lì uno di fronte all’altro sono in realtà l’uno dentro l’altro. Il bambino ha già dentro l’adulto e l’adulto ha ancora dentro il bambino. Perché il passato non è mai passato e il futuro è già inscritto in quel passato, lo contiene, perché la morte abita già dentro la vita. Quell’adulto è andato lì per morire, è andato lì per poter dire: “Ecco questa terribile solitudine è finita. L’espiazione è finita”. E’ per questo che il bambino gli sta preparando quella seconda casina: “”Per chi è quella casina che stai mettendo a posto?” gli ho chiesto ancora, rabbrividendo.
“Per te” mi ha risposto””.
Così quando “un giorno si accenderà là vicino anche un’altra lucina…ci saranno due lucine al posto di una sola” due piccole e fioche lucine dei morti che brilleranno nella notte. E quando quel bambino e quell’adulto morti, mano nella mano, si incamminano e si dicono:
“”Dove andiamo?”
“Non lo so””
a mia volta mi appaiono questi versi:
“cosa accade dunque
quando quiete mortale
si fa”
(I. Bachmann,” Reclame”)
Moresco è davvero, da tutti i punti di vista, su un altro pianeta.
Ciao. Bel commento, quasi quasi mi convinci. A me però “La lucina” non è piaciuto affatto. Mi suona falso (e patetico). A cominciare dall’incipit: “Sono venuto qui per sparire” – sì, ma intanto ce lo dici, quindi non è vero che vuoi sparire. Vuoi sparire però vuoi anche esserci, recuperi – rocambolescamente – i morti per autorecuperarti nel momento in cui sparisci, usi la letteratura come un tour de force, o un gioco di prestigio, per dire che sei sparito ma ci sei ancora. Resurrezione laica. Dobbiamo crederci? Mi si inalbera un po’ la diffidenza.
Però il commento è proprio ben fatto, Moresco può essere contento. Buona domenica 🙂
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Entrare nei meccanismi narrativi di Moresco e tentare di smontarli è un’opera titanica e, se mi consenti, anche un po’ vana.
C’è in Moresco (ma c’è anche e molto forte in Sebald) una continua compenetrazione tra differenti livelli di percezione del mondo quello appariscente e quello inappariscente, in continua osmosi tra loro.
Moresco ha la capacità di guardare e andare oltre il reale e costruire mondi che dietro l’apparenza fiabesco-favolistica (perché, per me, Moresco è, in fondo, un grande costruttore di fiabe, non a caso uno dei suoi libri ha per titolo “Fiaba d’amore e “La lucina” può essere letto già dal titolo come una fiaba) contengono e declinano una visione metafisica leopardiano/dickinsoniana. Non a caso la Dickinson è la sua poetessa preferita. Laddove l’inappariscente veicolato dalla struttura fiabesca è molto più importante (e reale) dell’appariscente nonché della logica.
Credo che per “accettare” Moresco bisogna leggerlo come si leggesse una fiaba per quanto claustrofobica, sul piano narrativo e sforzandosi di percepire l’irrealtà della realtà sul piano concettuale.
Ma so già che non me la farai passare così liscia.
Un carissimo saluto
Raffaele
P.S. Grazie molte per l’attenzione e per gli apprezzamenti che, in questo caso in particolare, sono ancor più graditi
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Caro Raffaele, alcuni anni fa ho scoperto che c’era un grande scrittore italiano (il più grande scrittore italiano?), osteggiato dalla critica e misconosciuto dal pubblico, il Cristo delle patrie lettere non diversamente da papà Goriot che è il Cristo della paternità. Ho comprato “Gli esordi” e per le prime ottanta pagine mi sono detta: per la miseria, questo è davvero un grande. Poi, dal momento che per le restanti cinquecentosessantasette era sempre di quella, un’apertura e un’apertura e un’apertura e mai l’ombra di una chiusura nemmeno provvisoria, ho concluso che non era un grande ma uno che a tutti i costi voleva essere un grande, un po’ come da noi, in dialetto, si fa o si faceva la differenza fra “s’gnori” e “fas’gnori”. L’episodio finale, quando il potenziale ma già attuale grande scrittore si ritrova alla cena danzante nel castello degli spiriti magni, mi ha confermato in questa impressione. Non ti tedierò oltre con le mie frequentazioni di Moresco (perché poi uno potrebbe sempre sbagliarsi, nevvero?). Sono d’accordo con te quando dici che “Moresco è, in fondo, un grande (?) costruttore di fiabe”. Infatti la fiaba è un genere letterario in cui il lieto fine è obbligatorio. Però a me le fiabe non hanno mai interessato, nemmeno da bambina. Conosco molto poco la Dickinson. Per quanto riguarda Sebald, invece, secondo me fra lui e Moresco c’è un abisso, e non parlo nemmeno di qualità (nei contemporanei la qualità è alla fin fine una questione di gusti), ma del fatto che in Sebald, al posto della fiaba, c’è la storia, il che dà alla sua scrittura una profondità abissale e vertiginosa, mentre la scrittura di Moresco è caratterizzata da un espandersi illimitato nella dimensione orizzontale, come un movimento concentrico e monotono che si allarga all’infinito partendo sempre dallo stesso centro: lui, Moresco. Ecce homo.
(Ma perché ce l’ho tanto con lui? Non mi piace quello che scrive, e questo è un fatto; ma quello che mi fa salire il crimine è l’atteggiamento da vittima sacrificale, però che vuole subito gli onori dell’altare).
Spero che tu ti sia fatto almeno una risata e mezzo :).
Un caro saluto
Elena
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Cara Elena,
prima di tutto non mi sono fatto una risata e neanche mezza, al contrario ho letto con attenzione e con molto rispetto le tue ragioni, perché si sente che “senti” quello che dici e perché si capisce che la tua lettura di Moresco è ampia e non superficiale, sicuramente superiore alla mia.
Io di Moresco ho letto decisamente poco rispetto al complesso della sua opera. Per la precisione: “Gli esordi”; “La cipolla” (una raccolta di suoi racconti edita da Bollati Boringhieri nel ’95); e “La lucina”. Ho in libreria: “I canti del caos”; “Gli increati”; “Gli incendiati”; e “Fiaba d’ amore”, ma non li ho ancora letti.
Quindi mi guardo bene, non avendone i titoli, per ergermi a “esperto” di Moresco né, tanto meno, a suo interprete o, peggio ancora, a suo difensore.
Fatto questo lavacro di umiltà, provo a dire la mia sulla base di quello che penso (e “sento”), alla luce di quello che ho letto. Parto dal livello più elementare. A me Moresco piace. Lo dico a livello squisitamente empatico, in quanto lettore. Cioè leggerlo mi affascina, prima ancora di capire il perché e prima ancora di comprendere i significati e i meccanismi che sovraintendono ciò che scrive, come si suol dire, la sua “poetica”.
Stilisticamente trovo la sua scrittura ipnotica, visionaria, fantastica, spiazzante, stordente, assurda e angosciosamente comica.
Poi mi affascina quella sua capacità di stare dentro percorsi labirintico/claustrofobici e, al tempo stesso, di navigarci dentro, aprendo continuamente finestre su mondi e realtà parallele, totalmente immaginarie che però alludono a livelli di realtà altri e fanno percepire l’esistenza di possibili altrove “esistenziali” (scusa il gioco di parole). I famosi mondi di cui parlo nel commento de “La lucina”.
In questo senso il confronto più ravvicinato che mi viene in mente è con Kafka.
Potrei anche fermarmi qua, perché l’aspetto emozionale che mi suscita Moresco potrebbe bastarmi a farmelo piacere e a “spiegarmelo”. Ma aggiungo dell’altro.
Come ho detto la cosa che trovo originale in Moresco, sia rispetto alla letteratura italiana contemporanea che in connessione con la letteratura nel suo complesso è questo suo essere grande costruttore di “fiabe”. Grande nel senso di molto abile e capace prima ancora che di bravo e bello.
E questo per me non è poco perché per la mia concezione della letteratura e per quelle che sono le mie preferenze io prediligo la letteratura che fa della mente, del sogno, della fantasia la sua fonte di ispirazione. In cui le situazioni narrate vengono trasferite e trasportate in un contesto che le trascende, creando un mondo a sé, carico di immaginario e di immaginazione, il quale, a seconda della cifra propria di ciascun autore, “lavora” su dimensioni quali quelle del mistero, dell’onirico, delle ossessioni, dell’assurdo, del metafisico, del surreale. Per cui un autore assolutamente antirealistico come Moresco non può non piacermi.
E qui mi aggancio al riferimento a Sebald. Detto prima di tutto che ho piena consapevolezza della grandezza assoluta di Sebald verso il quale nutro un’ammirazione enorme perché Sebald non è solo un creatore di mondi e di visioni come può essere Moresco ma è un innovatore della concezione stessa della letteratura e dei suoi campi di applicazione, tuttavia quando l’ho citato e l’ho collegato a Moresco l’ho fatto per quella cosa comune che hanno che è la capacità di concepire e creare una idea del mondo e delle cose basata su quel continuo scorrere tra ciò che appare e ciò che sfugge, tra l’appariscente e l’inappariscente. Ma non nel senso di due realtà separate, ma di un’unica realtà, di un mondo le cui parti concrete e manifeste da un lato e quelle a noi nascoste e mai del tutto chiare dall’altra sono in una eterna e perenne osmosi. In Moresco questo si gioca soprattutto sul piano narrativo in sé e in modo forse più prevedibile, basato come esso è sul binomio vita/morte, in Sebald è molto più potente perché avviene a livello della Storia e quindi penetra anche la realtà materiale del mondo, la sua razionalità e la sua geometria e la scompone e dissolve, cogliendone l’irreale precarietà e oscurità.
Tuttavia sia in Moresco che in Sebald vi è una comune istanza metafisica, in Moresco risolta letterariamente cioé nel raccontare in sé, in Sebald assai più profonda e cosmica perché intacca le strutture portanti del pensiero e della conoscenza.
Caso mai, infine, e poi mi taccio, ci sarebbe da fare un discorso (ma magari è stato già fatto e non ne sono a conoscenza) sui collegamenti tra Moresco e Celati (e sul debito, in questo senso, di Moresco nei confronti di Celati). Mi riferisco in particolare al Celati del ciclo “Parlamenti buffi” (e cioè: “Le avventure di Guizzardi”; “Lunario del paradiso”; “La banda dei sospiri”) e al ciclo “Costumi degli italiani”.
Collegamenti sicuramente a livello stilistico per quanto riguarda le ambientazioni e i trattamenti comico-farseschi, in relazione ai quali penso che Moresco (volontariamente o meno) abbia attinto molto da Celati. Ma anche per certi tipi di personaggi e di tematiche presenti in entrambi.
Anche per ancorare Moresco alla storia della letteratura italiana, uscendo dall’idea, che mi sembra diffusa, che sia un fungo spuntato dal nulla, disancorato, estraneo ed anomalo rispetto a tutto e a tutti.
Il “vittimismo” di Moresco è sicuramente giustificato dalle sue vicende personali, ma in parte c’è anche di suo, d’altro canto ognuno ha le proprie debolezze.
Comunque detto tutto questo ci tengo a dirti che ti ringrazio di avermi stimolato a pensare e scrivere queste cose, sapendo, come dici tu, che, comunque, ci si può sempre sbagliare.
Un carissimo saluto e a presto.
Raffaele
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Sai qual è il bello, caro Raffaele? Che la tua frase “per la mia concezione della letteratura e per quelle che sono le mie preferenze io prediligo la letteratura che fa della mente, del sogno, della fantasia la sua fonte di ispirazione. In cui le situazioni narrate vengono trasferite e trasportate in un contesto che le trascende, creando un mondo a sé, carico di immaginario e di immaginazione, il quale, a seconda della cifra propria di ciascun autore, “lavora” su dimensioni quali quelle del mistero, dell’onirico, delle ossessioni, dell’assurdo, del metafisico, del surreale”, questa frase io potrei sottoscriverla, potrei averla scritta io, dice esattamente quello che (senza escludere altre possibilità) mi affascina nella letteratura (quello che però ai miei occhi è sempre pericolosamente vicino all’infanzia e ancor più pericolosamente aperto a un’assoluta arbitrarietà – quindi bisogna starci attenti). Eppure non mi piace Moresco. Non gli nego un’eccezionale bravura – nel senso di un virtuosismo nel gestire una spropositata capacità immaginativa (ma anche con la capacità immaginativa siamo un po’ agli sgoccioli, si vedano i suoi ultimi lavori), tuttavia non riesco a liberarmi dall’impressione che in fondo imbrogli, che con questa sua grande capacità immaginativa non sappia poi dove andare a parare, e infatti va a parare sullo scontato: i buoni (che sono sempre integralmente buoni) vincono sui cattivi (che sono sempre integralmente cattivi). Allora scusa ma fiaba per fiaba preferisco Il Signore degli Anelli.
Non vedo un vero punto di contatto con Kafka, e per la ragione, direi, che Kafka fa sul serio.
Neanch’io sono un’esperta di Moresco; ho letto, come te, La cipolla (ma solo quella, non gli altri racconti), Gli esordi, Gli incendiati (bruttissimo, almeno per me), la prima parte dei Canti del Caos, La lucina. Ah, e l’ultimo, L’addio (velo pietoso). L’addio l’ho letto per curiosità, perché alla fine della prima parte dei Canti del Caos mi ero detta che basta (nel mio blog c’è una specie di compte rendu dei Canti, giusto per farsi due risate, ma non so come si fa a inserire il link. Se ti interessa è nella categoria cazzeggiamenti estivi).
Ma basta con Moresco: di sicuro, che piaccia o no, non è uno scrittore indifferente, e questo nel panorama italiano odierno è già moltissimo. Mi interessa invece quello che dici di Celati: non molto tempo fa ho tentato di comprare la trilogia, ma mi risulta che non sia più in commercio, e nemmeno l’ho trovata in biblioteca (la tengono fra i libri rari). Dovrò in qualche modo procurarmela perché il discorso mi interessa molto. Intanto vado a leggere il tuo post.
Grazie per queste belle conversazioni e a risentirci presto!
Elena
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Avevo già letto delle recensioni sul suo conto, ma a tutt’oggi non mi sono decisa ad affrontarlo. Qualcosa mi attrae e qualcosa mi respinge, non so perché. Ho trovato quindi interessante questo vostro scambio d’opinioni, che fa venire voglia di leggere l’autore anche solo per confrontare le personali impressioni con le vostre. Che, pur essendo diverse, sono ben argomentate entrambe.
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Grazie Alessandra del passaggio e della condivisione dei miei argomenti e di quelli di Elena su Moresco. Un autore importante ma che sicuramente induce opinioni diverse proprio per la sua particolarità e originalità rispetto al panorama della letteratura italiana.
Comunque se e quando ti sentirai di affrontarlo, magari partendo proprio da un romanzo breve come “La lucina”, non penso ne resterai delusa, anche se dovesse risultarti lontano rispetto ai tuoi gusti.
Un caro saluto e buona domenica.
Ciao
Raffaele
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