“Dalle nove alle nove” – Leo Perutz

Per tutta la vita non mi sono liberato dalla Praga della mia giovinezza. Ho inseguito sempre il fantasma del ghetto praghese cercandolo dappertutto.”

Queste parole furono pronunciate da Leo Perutz poco prima di morire e Marino Freschi nel riportarle nella sua postfazione ad uno dei più famosi romanzi di Perutz : “Di notte sotto il ponte di pietra”, si sofferma sul rapporto che Perutz ebbe con Praga sottolineando “… il magnetismo esercitato da Praga che l’autore pur abbandonò da adolescente, ma che lo continuò ad attrarre per tutta la vita con misteriosa energia.” (1) Questo dato biografico ma, soprattutto, esistenziale è importante per comprendere non solo l’opera di Perutz nel suo insieme ma anche “Dalle nove alle nove” che, uscito nel 1918, costituì il primo grande successo editoriale di Perutz.

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“Camminare” – Thomas Bernhard

Bernhard – nel porre in modo esclusivo il camminare come titolo di questa che è l’ultima delle sue prose brevi ad essere stata tradotta la cui uscita, presso Adelphi, avvenuta l’anno scorso, colma una lacuna protrattasi a lungo, risalendo la pubblicazione originale, avente per titolo Gehen, al 1971 – esplicita da subito quella che è l’azione chiave che vi si svolge che è appunto quella del camminare nella quale i due protagonisti: l’anonimo io narrante e il personaggio di Oehler – di cui l’io narrante, secondo il consueto schema bernhardiano, riporta le affermazioni e i pensieri – saranno intenti dall’inizio alla fine del racconto.

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“La mansarda” – Marlen Hausofer

Nella lettura de “La mansarda” si ha da subito la sensazione che il senso e il sentire effettivo siano schermati e mascherati da quella sommessa pacatezza, distesa e distaccata, con cui la protagonista io narrante scrive e racconta. Come se quella pacatezza servisse a difendersi e a proteggersi da qualcosa da cui è necessario mantenere le distanze, come se dietro quella pacatezza vi fosse una barriera emotiva, da lei stessa creata dentro di sé, che la rende apparentemente partecipe di ciò che la circonda ma in realtà inesorabilmente e solitariamente lontana. Quella pacatezza è il modo per attutire, sopire, allontanare tutto ciò che può richiamare e far rivivere “quell’evento” così come lei lo nomina, perché né lei né chi le sta intorno lo vuole, né se lo può permettere, significherebbe ferire e ferirsi, “Mentre io non intendo ferire nessuno. Sono comunque sempre troppe le persone che si feriscono” dice la protagonista.

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“La pianista” – Elfriede Jelinek

La prima sensazione suscitatami dalla lettura de “La pianista” è stata quella del labirinto. Non solo perché le vicende della “pianista” Erika Kohut (E.K.) non hanno, su un piano di realtà, alcun contenuto evolutivo, anzi si ritorceranno fino allo spasimo contro di lei ma, soprattutto, perché appaiono sistematicamente condannate all’impossibilità stessa di evolversi. Come, per l’appunto, ella si trovasse dentro un labirinto nel quale i movimenti sono rigorosamente dettati e limitati dalle pareti del labirinto che le vengono innalzate e frapposte da chi la circonda, fiaccando in tal modo e costantemente ogni sua manifestazione di volontà. Continua a leggere