“Il lacchè e la puttana” – Nina Berberova

Hieronymus Bosch, in quello che è uno dei suoi capolavori: “Il giardino delle delizie”, raffigura, tra le tante scene che egli vi rappresenta, quella di una coppia di amanti all’interno di una sfera di cristallo. Bosch, con tale immagine, ispirandosi ad un proverbio popolare, aveva inteso illustrare il detto: “Il piacere è fragile come il vetro”. C’è, ci avverte Bosch, nel fare del perseguimento e della ricerca del piacere una ragione di vita e il fine ultimo – tanto da vivere rinchiusi in quella dimensione, come in una sfera di cristallo – un pericolo e un rischio, perchè la natura del piacere è precaria ed aleatoria, destinato come esso è ad esaurirsi facilmente, avendo bisogno di essere continuamente alimentato e rinnovato. E, soprattutto, non bastando il piacere a fondare e a sorreggere la vita, non solo perché la vita è piena inevitabilmente di “dispiaceri”, ma perché essa si ridurrebbe ad una continua ed inesausta ricerca del piacere, laddove ci si illuda di poter vivere perennemente in tale condizione. Siccome ciò si rivela prima o poi impossibile e impraticabile la conseguenza è ritrovarsi totalmente smarriti e indifesi nel momento in cui si scopre che quel piacere, fino a un certo punto vissuto, si esaurisce, diventando via via – tanto più lo si cerca e lo si attende – sempre più irraggiungibile. E questo può tradursi in uno scacco fatale e terribile perché conduce dalla prefigurazione di una piena, appagante ed eterna felicità alla più disperata e disperante infelicità. Un passare dal sogno alla realtà senza vie di mezzo e senza protezioni, che fa sprofondare sempre più in basso, in una spirale senza fondo e senza speranze se non si ha nient’altro da opporgli.

Ed è proprio dentro queste dinamiche che si svolge la storia di Tanja, la protagonista de “Il lacché e la puttana”, che distruggerà se stessa e la sua vita rincorrendo ciecamente e, via via, per lei, sempre più miseramente, l’illusione di poter realizzare una vita finalizzata a quell’unico scopo: “…perché vive la gente? Per il piacere. Si, è così. La gente vive per il piacere”. Sarà infatti in base a questa convinzione che Tanja fonderà la sua esistenza. Una convinzione che prima ancora di essere tale, cioè prima ancora di quando la maturerà e affermerà, ella la praticherà, come una cosa, per lei, connaturata alla vita. Unico senso e unico movente che sin dalla giovinezza aveva avuto per lei la vita. Tanja pensa che anche lei come tutti gli altri e, soprattutto, come tutte le altre ha diritto ai benefici e alle opportunità date dal vivere per il piacere e quindi anche a lei sarà dato goderne. Non c’è alcun talento, capacità, competenza che Tanja metterà in gioco, né tanto meno risorse, impegni, sacrifici, fatiche, per raggiungere quel suo obiettivo, se non i sacrifici e le fatiche che scaturiranno dalle rinunce obbligate e da lei subite a cui quella sua scelta la condurrà.

Ella metterà in gioco solo se stessa, in una totale autoaffermazione di sé e, soprattutto, in una totale affermazione della sua vanità. Ma sarà proprio questa la sua condanna, perché finirà ostaggio di quel meccanismo, diventando vittima di quella sua vanità e di se stessa. Tanja vivrà infatti nell’illusione di ricevere un’attenzione incondizionata, di “risolvere” la vita attraverso la conquista di un uomo che le consenta di vivere in un “benessere” permanente, in uno sfavillio continuato, godendo di infinite possibilità, conducendo un’esistenza fatta solo di piacere e di piaceri. Ella inseguirà l’idea di una vita che si realizzi non tramite l’autenticità dell’ amore, ma tramite uomini che possano assicurarle ammirazione, agiatezza, felicità. Perché per lei l’affetto e il calore sono dati ed esistono nella misura in cui esista una cornice dorata che li racchiuda, una cornice entro cui sentirsi soddisfatta ed appagata.

Ma gli uomini che Tanja incontrerà non gli daranno ciò. O perché si romperà irrimediabilmente la “sfera di cristallo” nella quale Tanja si era illusa di poter vivere insieme al primo uomo della sua vita, che sarà lui per primo a non reggere all’ illusione di riuscire a vivere in quella dimensione. O perché i successivi uomini la “useranno” per i loro scopi, sfruttando la condizione di dipendenza e di ricattabilità in cui Tanja si verrà trovare nei loro confronti. O perchè, come nel caso de “Il lacché” del titolo – con cui si concluderà tragicamente la parabola di Tanja -, non avranno alcuna risorsa né materiale, né esistenziale da poterle offrire tale da elevarla alla condizione a cui ella aspira. Tanja è quindi “la puttana” del titolo, non perché svolgerà in modo organico e sistematico quella “professione”, ma perché ne riprodurrà la logica, nella misura in cui sottometterà la sua vita a quello scambio che ella ricerca, offrendo se stessa in cambio di quell’”ozio” dorato che la sazi, nell’auspicio che quella vita da “mantenuta”possa sfociare in una sua forma stabile ed esclusiva.

Con “Il lacché e la puttana” la Berberova ci dà un’altra delle sue prove di piccola/grande letteratura. Piccola nella forma e grande nei contenuti. In quanto la misura del racconto e lo stile stringato e conciso, persino lapidario, fanno anche de “Il lacché e la puttana” un esempio di come la Berberova sia riuscita con un’estrema economia di mezzi a rendere temi e atmosfere, e a plasmare personaggi e situazioni di grande forza ed intensità espressiva. Avendo questo racconto in comune con altri suoi racconti un sottostante che li accomuna che è quello della ricerca della felicità, la quale si rivela impossibile da realizzare, facendo, della Berberova, una cantrice di quel disincanto e di quella disillusione propri di tanta letteratura russa.

Ma nella Berberova lo scarto tra ricerca della felicità e sua irrealizzabilità si inscrive all’interno di una tematica che le è peculiare e cioè quella dello sradicamento. E’ noto che tutta l’opera della Berberova prende le mosse e si sviluppa a partire dall’esperienza dell’espatrio/esilio di cui lei per prima fu partecipe, avendo lasciato la Russia dopo lo scoppio della rivoluzione per emigrare prima a Berlino e poi a Parigi dove si stabilirà nel 1925. La condizione di “emigrato” diventerà per la Berberova un elemento identitario che segnerà esistenzialmente e materialmente la sua vita e sfocerà, in modo esplicito e rilevante, nella sua opera, facendo ella, del mondo e della vita degli emigrati russi a Parigi, lo sfondo, l’ambientazione e il contesto di tanti dei suoi racconti, così come avviene anche ne “Il lacchè e la puttana”. Che è ambientato a Parigi ed ha nei due protagonisti due “tipici” emigrati russi, in quanto anch’essi fuggiti dalla Russia dopo la rivoluzione.

Ma questa scelta narrativa la Berberova non la adotta per un intento di testimonianza dei vissuti di chi si trovava in quella condizione, vissuti che peraltro emergono implicitamente nei suoi racconti, ma per farne oggetto della sua ricerca artistica, della sua opera di scrittrice. A partire da quei vissuti la Berberova ci parla infatti di esistenze che finiscono per ritrovarsi ai margini della vita, di fatto in una condizione di alienazione/spaesamento, schiacciati come essi sono sul presente, in quanto privi del loro passato dal quale si sono staccati in modo lacerante e privi anche di futuro che è inseguito e perseguito ma che, a contatto con la realtà, sfugge e svanisce avvitandosi in una spirale che, per paradosso, finisce per essere proprio priva di futuro.

L’aspirazione alla felicità, come nel caso del personaggio di Tanja, è quindi l’aspirazione a cercare di alimentare quella vita vissuta per il piacere con nuovi desideri che rinnovino quel piacere. Ma tale bisogno di felicità diventa irrealistico e stridente quando le condizioni in cui lo si vuole soddisfare sono gravide di incognite e di limitazioni. Un’idea di felicità che finisce per essere una fonte e una forma di identità ma le cui coordinate in termini di realizzzabilità sfuggono allo stesso soggetto che ne è portatore, come la stessa Tanja rivela già in procinto di partire per Parigi, quando, con il suo primo uomo, nonché primo e unico marito, decidono di trasferirvisi: “Ed eccoli partire – alla ricerca della felicità, come diceva Tanja, che continuava a pensare al futuro e a fantasticarci sopra. Ma non aveva affatto le idee chiare su quella felicità, sulla sua felicità in particolare, sulla felicità sua e di Aleksej Ivanovic a Parigi”

Tuttavia, fino a quel momento della sua vita, Tanja una sua felicità l’aveva assaporata potendo vantare con se stessa la conquista di Aleksej che aveva letteralmente “rubato” alla sorella con la quale Aleksej era fidanzato, mettendo in pratica un atto di seduzione con cui non solo aveva catturato Aleksej ma che, soprattutto, le aveva consentito di mettere alla prova e affermare con successo la sua vanità. Perché quando Aleksej si era invaghito di sua sorella Lilja ciò era stato per Tanja inaccettabile, producendole ciò una vera e propria ferita: “Le sembrava impensabile, incredibile che qualcuno le avesse preferito Lilja…Il pensiero che un uomo l’avesse ignorata, che la vita cominciasse con una sconfitta, le era insopportabile.” Da lì quella decisione perentoria di affermare se stessa senza mezzi termini, di imporre la sua vanità e, recatasi a casa di Aleksej, gli si offrirà senza riguardi: “<<Guardi!>> disse lei all’improvviso con voce sorda spalancando la pelliccia: le calze terminavano con larghe giarrettiere di raso (comprate il giorno prima), più su c’erano delle brachette di batista con laccetti e volant spiegazzati, e poi sul corpo di Tanja non c’era più niente…l’essenziale venne da sé: nelle grida e negli spasimi manifestò ad Aleksej Ivanovic la passione che aveva imparato nei sogni…Trascorsa una settimana …Aleksej sposò Tanja, e con lei partì per Shangai.”

Ma Tanja – in quel momento della sua vita – non era già più in Russia. Lei, la sorella e il padre erano in Giappone dove erano fuggiti: “…dovettero partire per il Giappone, fuggire. Da chi?…soprattutto dai bolscevichi” Il padre di Tanja era infatti un funzionario zarista di alto livello e Tanja era cresciuta nell’agiatezza senza rinunce e senza obblighi, aveva insomma assaporato sempre quella vita basata sul piacere e ora la conquista di Aleksej, conosciuto lì in Giappone, ed anch’egli in grado di garantirgli agiatezza gliela confermava. Ma, nel partire con Aleksej per Shangai, Tanja aggiungerà allo sradicamento determinato da quella fuga in Giappone – essendosi spezzati repentinamente i legami con la sua vita passata in Russia – anche uno sradicamento affettivo nei confronti del suo ambito familiare, abbandonando il padre e la sorella al loro destino, in quanto ormai per lei estranei al suo mondo interiore e alle sue aspirazioni: “…una volta andò a trovare il padre …In Giappone non c’era più nulla che le ricordasse la sua giovinezza. Il padre era inchiodato al letto da una paralisi, Lilja faceva l’interprete in un ufficio di esportazioni, invecchiava, diventava brutta.”

Sradicata dalle sue “origini” e sradicatasi dai suoi legami familiari Tanja si illude di poter vivere in quella sua “sfera di cristallo” con Aleksej Ivanovic, avulsa dal mondo. Anestetizzando la sofferenza e il dolore in modo di lasciarseli sistematicamente alle spalle, come farà anche quando: “…mise al mondo una bambina morta”, in una progressione di vissuti e di comportamenti sempre più anaffettivi. Proiettata solo e sempre sul futuro: “…non pensava mai al presente, e se pensava pensava soltanto al futuro”, implicitamente per lei foriero di felicità. Una felicità ottenuta vivendo nel disimpegno e nella deresponsabilizzazione, e nutrita dal piacere. E così dopo nove anni trascorsi a Shangai a “…Tanja venne voglia di andare a Parigi” e Aleksej che “...desiderava sempre quello che lei desiderava” lasciò il suo impiego per assecondare quel desiderio.

Ma le cose a Parigi presero da subito una brutta piega: “...dopo quattro mesi i soldi cominciarono a scarseggiare e lui non aveva ancora trovato lavoro, ed erano sorte complicazioni con il visto, i passaporti, il francese (lingua che nessuno di loro due conosceva). Aleksej Ivanovic cominciò ad avere delle crisi durante le quali spaccava tutto [finché] un giorno…ebbe la sua ultima crisi…Morì dopo pochi giorni all’ospedale, nel reparto dei pazzi furiosi…E Tanja si ritrovò sola a Parigi nella stanza dell’alberghetto economico dove era venuta <<alla ricerca della felicità>>. Si ritrovò sola. Cominciava una giornata grigia – grigia come la sua vita.”

E così, andata in frantumi la “sfera di cristallo” in cui Tanja aveva fin lì vissuto, la sola e unica cosa che può fare, perché è l’unica e la sola cosa che è in grado di fare, è tentare di ricostruirne un’altra con un altro uomo. E per fare ciò l’unico mezzo che lei ben conosce, di cui dispone e che ha già sperimentato con successo è la sua vanità, da spendere per una nuova “conquista”: “…dove trovare un uomo dietro cui nascondermi, un uomo che pensi a tutto, che mi faccia regali, mi adori, un uomo di quelli che a volte capitano nella vita”. Ed è a questo scopo che si dedicherà, ingegnandosi, con quel poco che le rimane, per rendersi presentabile e credibile là dove quegli uomini che ha in mente è possibile trovarli.

Quello che la Berberova ci racconta da qui in poi è il peregrinare di Tanja lungo un itinerario squallido e penoso, fatto di ristoranti e locali dove “consumare” quella sua ricerca di conoscenze maschili. In realtà stazioni del dolore di una donna senza più patria né famiglia, sola con se stessa e incapace di uscire da se stessa, oggettivamente dipendente, facilmente ricattabile. Tanja quegli incontri li farà ma saranno tragicamente lontani da quelli sognati. Saranno solo offese, umiliazioni e sfruttamento quello che subirà, proverà e vivrà.

Prima quella “… brutale relazione con il violinista vestito da rumeno che in seguito ricordò come un animale antropomorfo più che come un uomo, quando dopo un degradante anno e mezzo di vita comune, consumata dall’angoscia, dalla gelosia, dalla paura del domani, uscì dall’ospedale dove aveva subito un’operazione, dimagrita, senza un soldo, con gli occhi più grandi, illuminati da un nuovo e amaro bagliore (il violinista non c’era più, era entrato in un’orchestra ed era partito per Londra)”. A quel punto il suo sogno si è già fatto chimera: “Aveva già capito che non c’era nessuno che potesse amarla e adorarla fino alla tomba” e perciò un ulteriore indurimento, un accresciuto cinismo, una più profonda disperazione la invaderanno: “…e dunque bisognava mentire, mentire, agguantare tutto ciò che era possibile agguantare nella vita”. Un accontentarsi che le farà accettare un altro uomo che per “…Quattro anni. Tre volte la settimana – di giorno – veniva a rilassarsi dalla Borsa, dalla moglie, dal bridge, da cambiali non pagate e assegni scoperti, dalla crisi, da tutta la sua difficile, convulsa vita maschile. Ogni volta le lasciava cento franchi…<<Mi sposerà?>> si domandava lei ogni tanto. <<Divorzierà? Lascerà la moglie?>>…Ed ecco che verso la fine del quarto anno lui scomparve.”

C’è ormai in Tanja un abbrutimento e un incattivimento che nascono dall’essere la sua vita diventata un incubo a occhi aperti, un’esistenza di fatto sordida, laddove anche quelle altre donne russe emigrate che conosce e con cui bazzica raccontano di esistenze allo sbando che popolano una Parigi parallela, per così dire dai tratti russi, assolutamente lontana dallo sfarzo e dalle luci de la “Ville Lumière”. La penuria e l’indigenza la spingono ad accettare il “sacrificio” di un lavoro con cui tentare di mantenersi, ma a una come lei risulta subito assolutamente estraneo e penosamente precario:” …cominciò a ricamare. Il primo giorno guadagnò nove franchi, il secondo undici. Il terzo giorno lo passò quasi tutto a letto piangendo…Il quarto giorno comprò per sette franchi e cinquanta centesimi mezza aragosta e la mangiò con la maionese – più di tutto al mondo amava le aragoste e la maionese…Il quinto giorno andò a piedi da Gulja – non aveva i soldi per il metro e non aveva mangiato nulla. Lavoro per lei Gulja non ne aveva…Quella sera stessa si fece prestare da Nad’ka centocinquanta franchi.”

E così quella vita diventa per Tanja la presa d’atto che a lei il vivere per il piacere è ormai precluso: “<<E io, perché vivo?>> si chiese piena di pietà per se stessa. <<“E in generale, perché vive la gente? Per il piacere. Si, è così. La gente vive per il piacere. Ma qual è il piacere nella mia vita?>>”. In queste parole c’è quell’idea della vita che Tanja aveva sempre avuto, ma che adesso ella esplicita con una rabbia sorda, con amarezza e rimpianto, per sé e per la vita. Perché è proprio la vita, la vita in generale, che diventa la grande assente di questo racconto. E in questa sua non vita Tanja sarà destinata solo a scendere sempre più in basso, a condividere un mondo in rovina con chi, come lei, è memore di un passato che era stato luminoso ma che ora è segnato, per entrambi, dal fallimento e dalla decadenza. Sarà Bologovskij, ex tenente della cavalleria zarista che ora fa il cameriere lì a Parigi in uno di quei ristoranti in cui Tanja continua ad andare, che incarnerà la fine di ogni illusione di Tanja e sarà, al tempo stesso – come per un’ ultima beffa – proprio lui, che era stato l’unico di quegli uomini incontrati a Parigi ad amarla, l’artefice della fine di quella sua vita non più vissuta.

La loro relazione era nata in quel ristorante sull’onda del loro comune passato in Russia ma anche, e soprattutto, per la solitudine di entrambi e il loro reciproco bisogno di conforto. Bologovskij è ormai il fantasma del suo fulgido passato: si ritrova vecchio e solo a servire la gente ai tavoli, ridotto a fare il lacchè, e Tanja diventa per lui una speranza di felicità a cui ancorarsi per la propria salvezza: ”…si era avverato quello che…non avrebbe neanche osato sognare. Lei era accanto a lui, il suo corpo, il suo calore erano con lui, aveva una donna, una donna tutta sua, non una che chiunque altro poteva avere.” Per Bologovskij Tanja è dunque una realtà, la realtà di una donna da poter amare e dalla quale essere amato. Tanja a sua volta aveva bisogno di qualcuno che si occupasse di lei e Bologovskij era pronto a farlo, ma la distanza fra quanto quell’uomo poteva darle e quanto lei avrebbe voluto restava incolmabile: “Non era forse quello che aveva sognato in tutti quegli anni? – accanto a lei c’era un uomo pronto ad amarla e a prendersi cura di lei per tutta la vita. Poteva impunemente andarsene in giro tutto il giorno, rimodernare vecchi vestiti, giocare a carte. Ma il disgusto – per sé, per lui – le spezzava l’anima. Non sapeva cose fosse la vita, ma sentiva che non era quello, non poteva essere quello. E gli anni sono passati e dove andare adesso…”.

In Tanja una pulsione distruttiva si unisce a un rancoroso desiderio di vendetta nei confronti del mondo per quell’agiatezza non raggiunta, anzi perduta, di cui, lì a Parigi, è come se ne fosse stata privata. E a quella felicità che, come un vetro rotto, si è ormai infranta l’unica cosa che riesce ad opporre è la voglia di farla finita, facendo di Bologovskij il capro espiatorio di quella sua misera esistenza e di tutti quelli che l’hanno abbandonata. “ Sotto terra, sotto terra! Levarsi di mezzo il più presto possibile, vendicarsi in un sol colpo di tutta la vita – con chi non importava; farla pagare a Bologovskij – per tutti gli altri che se ne erano andati, se ne erano scappati, s’erano nascosti, razza di canaglie”

Il lacché e la puttana” si fa via via, sempre di più, il resoconto di un distillato della vita come privazione, ed è, in questo senso, tanto più spietato, in quanto è proprio l’opposto di ciò che nella sua vita la protagonista aveva cercato. Una privazione che è in primo luogo perdita dell’insieme delle proprie origini – “…aveva sempre avuto l’impressione che tutto potesse andar meglio…ancora prima, nell’infanzia, in quell’altro paese che da tempo aveva dimenticato…” – e, come tale, conseguenza di quello sradicamento che la Berberova ben conosceva e che, come un male oscuro, costringe a un adattamento che può diventare, come era diventato per Tanja, doloroso e distruttivo. E in questo epos della privazione a Tanja neanche il come morire sarà dato. Il suo piano le si ritorce contro e quella morte che pensava di procurarsi a modo suo, realizzando quella sua vendetta e affermando, in un ultimo tragico atto, se stessa, sarà invece, in quanto le sarà inferta, un’ennesima cosa subita. E alla fine di tutto almeno di un’ ultima privazione Tanja avrebbe potuto essere certa, liberatoriamente certa: “Ma, grazie a Dio, non c’era futuro.”

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