“Per tutta la vita non mi sono liberato dalla Praga della mia giovinezza. Ho inseguito sempre il fantasma del ghetto praghese cercandolo dappertutto.”
Queste parole furono pronunciate da Leo Perutz poco prima di morire e Marino Freschi nel riportarle nella sua postfazione ad uno dei più famosi romanzi di Perutz : “Di notte sotto il ponte di pietra”, si sofferma sul rapporto che Perutz ebbe con Praga sottolineando “… il magnetismo esercitato da Praga che l’autore pur abbandonò da adolescente, ma che lo continuò ad attrarre per tutta la vita con misteriosa energia.” (1) Questo dato biografico ma, soprattutto, esistenziale è importante per comprendere non solo l’opera di Perutz nel suo insieme ma anche “Dalle nove alle nove” che, uscito nel 1918, costituì il primo grande successo editoriale di Perutz.
Perché se “Di notte sotto il ponte di pietra” è espressamente ambientato a Praga ed è altresì il romanzo che più impegnò e coinvolse Perutz, avendovi lavorato per circa un quarto di secolo, a testimoniare la forza di quel legame che Perutz mantenne con le sue radici praghesi, “Dalle nove alle nove” è invece espressamente ambientato a Vienna né vi sono in esso evocazioni che richiamino quel legame. Eppure, in realtà, quel legame è altrettanto presente e ciò nello spirito e nei significati che permeano “Dalle nove alle nove” a testimoniare che per Perutz Praga non fu solo un luogo di ricordi e di atmosfere ma fu, soprattutto, il suo luogo interiore che ne plasmò la sua sensibilità e la sua visione del mondo, il luogo delle sue “origini”.
A sua volta l’ambientazione viennese di “Dalle nove alle nove” rimanda a quella “seconda patria” di Perutz che fu l’Austria e, in modo particolare, Vienna, dove Perutz, nato a Praga nel 1882, si trasferì nel 1901, per scelte legate all’attività della sua famiglia, e dove visse, pressoché ininterrottamente, fino al 1938 quando, a causa dell’ annessione dell’Austria da parte della Germania nazista, fu costretto ad abbandonare Vienna in quanto ebreo. Trasferitosi in Palestina vi vivrà come in esilio, ai margini dell’ ambiente ebraico palestinese al quale si sentirà estraneo, soffrendo la distanza dalla cultura europea alla quale rimarrà invece sempre legato. Finché nel 1951, ottenuta nuovamente la cittadinanza austriaca, Perutz inizierà un “pendolarismo” tra Israele e l’ Austria che lo accompagnerà sino alla morte, avvenuta proprio mentre si trovava in Austria nel 1957.
Ma quelle origini ebraiche saranno in realtà anch’esse assai importanti per Perutz ed, in particolare, per Perutz come scrittore, perché ne faranno uno dei più significativi rappresentanti di quei grandi romanzieri ebraico-praghesi di lingua tedesca che formeranno il nucleo di quella grande esperienza letteraria che fu la letteratura ebraico-praghese di inizio secolo. Un legame invisibile ma fortissimo che unirà quegli scrittori e darà vita a quella letteratura di cui Perutz fu partecipe non solo per i rapporti che ebbe – tra l’altro fu coetaneo ed amico di Kafka – ma perché ne assimilò l’essenza laddove come osserva Marino Freschi “…è proprio in Leo Perutz che si configura quell’ angosciante presenza di umiliazione, sofferenza, terrore e allegria che è il sostrato di quel mito” (2) di Praga e del mondo letterario che in essa ebbe vita. Dimensioni queste presenti anche all’interno di “Dalle nove alle nove” tali da poterlo ascrivere a quel mondo letterario nel solco di quelle “origini” che contrassegnarono l’identità di Perutz.
Ma tutto quanto sin qui detto rimanda ad un ulteriore tratto che compone la personalità umana e letteraria di Perutz e ne fa, in qualche misura, da sintesi. Nell’incarnare la duplicità di quelle sue due “patrie”: Vienna realtà sia di vita che intellettuale, essendo stato Perutz partecipe a pieno titolo della vita culturale della città dei primi decenni del ‘900, e Praga luogo dell’anima e della memoria – nonché nell’attaccamento all’ uso del tedesco a cui rimase sempre fedele, anche durante l’ ”esilio” palestinese – Perutz rappresenta uno dei massimi esiti di quella grande cultura mitteleuropea di cui, unendo i diversi influssi di cui fu portatore, egli realizzò, di fatto, una sintesi esemplare. E a quel mondo e a quella cultura egli restò sempre fedele vivendone malinconicamente la fine, consapevole come proprio l’insorgere dei patriottismi e dei nazionalismi aveva condotto alle successive catastrofi delle guerre, a fronte dell’inclusività e della tolleranza che, la dimensione sovranazionale e cosmopolita su cui si era basata l’Europa asburgica, aveva invece garantito.
Ora, l’insieme di tutti questi vissuti, esperienze ed influssi avrà, nell’opera di Perutz, una ricaduta che verrà trascesa e traslata su un piano basato sull’inventiva e sull’ invenzione. Perutz è stato infatti capace di portare il suo sguardo inquieto e inquietante, derivante dall’insieme di vissuti, esperienze e influssi di cui si è detto, all’interno di contesti e strutture romanzesche squisitamente narrative. Dove la “logica” della trama convive e si ibrida con l’”illogicità” delle cose e del mondo che Perutz aveva ben presente e che costituisce il sostrato e il movente di quell’angoscia e di quell’ossessività che le sue “storie” trasmettono. Ciò ha reso Perutz uno scrittore assolutamente “originale”, fuori dagli schemi dei generi e dei canoni, essendo stato capace di creare un mix unico in cui azione narrativa e dimensione metafisica convivono.
Come accade in “Dalle nove alle nove” dove una suspense continua lo rende apparentemente un “giallo”, sostenuto, come esso è, da un ritmo incalzante scandito da un susseguirsi di eventi ed azioni che mantengono sempre alta la tensione narrativa. Ma dove, in realtà, gli elementi emotivi ed esistenziali, irrazionali ed imponderabili, costituiscono un vero e proprio sottotesto che non viene mai meno e che veicola temi e significati quali quelli di colpa e di libertà, di giustizia e di verità attraverso i quali Perutz mette a nudo come gli inganni e le fatalità dominino l’ esistenza umana.
Stanislaus Demba, che è il protagonista di “Dalle nove alle nove”, entra in tal senso, a pieno titolo, nel novero di quei personaggi di Perutz che, come osserva Marino Freschi, “…sono trasportati ai margini da eventi imprevedibili, evocati da forze misteriose che sconvolgono le intenzioni dei singoli, vanificate dal fluire degli eventi.”(3) In altre parole, in Perutz, gli eventi padroneggiano la volontà umana e la loro origine non ha giustificazione. Essi sovraintendono il singolo che nulla può per dominarli, svolgendosi inesorabili e incontrollabili. Stanislaus Demba sarà infatti vittima di un destino oscuro e imprendibile come se la sua vita fosse finita riflessa in una infinità di specchi sfuggenti. Egli sarà infatti defraudato della sua stessa vita, da essa ne sarà estromesso, espulso, esiliato, in modo abnorme e sproporzionato, ingiusto e tragico. E neanche nell’ “irrealtà”, in cui per effetto dell’ artificio narrativo che, come vedremo, Perutz qui crea, gli sarà data alcuna possibilità. Il suo viaggio attraverso Vienna, inseguendo i suoi “fantasmi” e, al tempo stesso, inseguito dai suoi “fantasmi” si rivelerà infatti un incubo e insieme una condanna.
E – come rilevato da Paola Maria Filippi, nella sua bella ed ampia postfazione alla prima edizione di “Dalle nove alle nove” – a fare da sfondo e da contraltare alle vicende di Stanislaus Demba è proprio Vienna la quale “…è il vero deuteragonista, l’alter ego dell’ eroe, lo studente Stanislaus Demba, vittima di una moderna tragedia…In quest’opera Leo Perutz, come forse in nessun altro dei suoi romanzi,…rappresenta la realtà, il quotidiano, il contingente della capitale austro-ungarica di prima della Grande Guerra…in un’atmosfera rarefatta da cui sembra essere assente il dramma [a fronte] di chi invece al dramma non potrà sottrarsi…E il confronto fra questi due grandi protagonisti – città e individuo – genera la tensione di cui è materiato il racconto.” (4)
Demba si muoverà infatti in lungo e in largo per la città in una condizione di estraneità rispetto a tutti coloro che incontrerà, i quali non capiranno nulla di quel suo strano modo di comportarsi, finendo per apparire un diverso e perciò costretto a vivere in una sua solitudine la situazione nella quale si trova. Perché Stanislaus Demba si aggirerà per Vienna, in quelle fatidiche dodici ore durante le quali si svolge “Dalle nove alle nove”, ammanettato e quindi impossibilitato ad usare liberamente le mani ma, soprattutto, a mostrarle, giacché è sfuggito ad un arresto e, fintantoché non riuscirà a liberarsi da quelle manette, deve nascondere agli occhi degli altri quella sua inquietante e minacciosa condizione. Fra equivoci e assurdità di vario genere nelle quali Demba si verrà a trovare, “inventandosi” escamotage grotteschi e surreali per giustificare il suo modo di fare, la narrazione, in realtà, veicola – dietro i “siparietti” creati da Perutz con abile e beffarda “esattezza” – un senso di ansia e di angoscia per il protrarsi di quel muoversi da topo in gabbia a cui Stanislaus Demba è costretto.
I vissuti di coercizione ed impotenza, ma anche di umiliazione e sofferenza che Stanislaus Demba trasmette nel suo peregrinare rendono la sua vicenda oggettivamente persecutoria, condizionato come egli è a simulare e dissimulare continuamente ciò che è e ciò che fa. Nascondere le proprie mani significherà infatti per Demba nascondere se stesso, la propria identità ma anche e soprattutto la propria “innocenza”, che egli vorrebbe affermare ma non può. E ciò non solo rispetto al reato che ha commesso ma soprattutto rispetto alla sua integrità come persona. “La colpa di cui Demba ammette apertamente di essersi macchiato è il furto, la sottrazione di tre libri preziosi dalla biblioteca universitaria. Eppure…non sembra un vero furto, il lettore ha la netta impressione che il tutto non sia sufficiente a spiegare e giustificare l’intervento della legge nelle forme in cui si attua…Non ci si può sottrarre all’impressione di una netta sproporzione fra causa ed effetto.” (5)
La condizione di Demba diventa quindi quella del braccato da una colpa che va molto al di là e al di sopra sia di lui sia di quanto egli ha effettivamente commesso. E questa sproporzione diventa ancor più vistosa e terribile perché quella colpa già in sé modesta diverrà fatale per Stanislaus Demba dato che di essa ne sarà tragicamente vittima. Perché noi non lo sappiamo, dato che fino all’imprevisto e all’imprevedibile finale crediamo di stare seguendo Demba, in giro per Vienna, in carne ed ossa, ma in realtà egli non è più un “vivo”. Quello che noi leggiamo egli non lo ha “vissuto” nel senso che non poteva fisicamente più viverlo eppure tutto ciò che gli accadrà e che noi leggiamo è passato nella sua mente in quegli attimi di incoscienza che avevano preceduto la sua morte.
Per sfuggire infatti alle guardie che lo hanno ammanettato, a seguito del suo arresto per quella storia dei libri, Demba si era lanciato nel vuoto: “Precipitato a terra, ferito, privo di conoscenza, esce da sé, entra in quel cono d’ombra del dominio incerto fra la vita e la morte, nella sfera sospesa fra due mondi, in quel tempo e in quello spazio che stanno fra il momento di morire e l’essere veramente morti” (6) E’ quindi in quel tempo e in quello spazio fra vita e non vita che Demba immagina/sogna tutto ciò che noi avevamo fin lì letto e che in realtà era avvenuto nella sua mente prima che i suoi occhi si chiudessero definitivamente. Quegli occhi che fino all’ultimo istante erano stati l’unica cosa che aveva continuato a muoversi di Stanislaus Demba: “Solo i suoi occhi si muovevano. I suoi occhi vivevano. I suoi occhi erravano senza sosta per le strade della città, vagavano sopra giardini e piazze, si immergevano nella rumorosa confusione dell’esistenza, si precipitavano su e giù dalle scalinate…si aggrappavano ancora una volta all’instancabile vita del giorno mai fermo, giocavano, mendicavano, lottavano per denaro e per amore, assaporavano per l’ultima volta la felicità e il dolore, l’esultanza e la delusione.”
Ma Demba ha compiuto quel gesto estremo spinto da una paura che in realtà è un bisogno vitale, quello della libertà, consapevole che stava per attenderlo la perdita della libertà. Il vedersi rinchiuso in una cella suscita in Demba una disperazione che lo porta a vedersi privo di futuro, in un vicolo cieco senza via d’uscita, impossibilitato “per sempre” a fare tutte quelle cose, importanti o meno, che ancora non aveva fatto e che solo da libero avrebbe potuto fare. Ma soprattutto che il “tempo”, il suo tempo, non sarebbe più stato nelle sue disponibilità e quindi la sua stessa vita non sarebbe più potuta dipendere da lui: “…mi resi conto di quanto…fossi stato ricco, per essere stato padrone del mio tempo. Compresi chiaramente, come mai prima di allora, cosa significasse “libertà”. Ora ero prigioniero, ero un carcerato…Mi girava la testa, nelle orecchie mi martellava solo: libertà! libertà! libertà! Il cuore voleva scoppiare per un unico desiderio: libertà! Ancora solo un giorno di libertà, ancora solo dodici ore di libertà! Dodici ore!”
Ed è con questo pensiero nella mente che Stanislaus Demba si lascia andare nel vuoto, ed è con questo pensiero che, al momento della caduta, nasce dentro di lui il suo doppio “mentale” che si condurrà per Vienna durante quelle dodici ore: “La preghiera dello studente di altre dodici ore di vita viene esaudita. Come a tanti altri eroi gli viene concessa una proroga sul tempo che la Moira ha stabilito per lui…Al momento della sua caduta rinasce…un suo secondo io al quale è concessa un’ultima chance…Il tempo si dilata straordinariamente, il protagonista acquista una nuova dimensione, la capacità onirica di vedersi agire, di configurare la relazione conscio-inconscio in una dimensione di ego-alterità.” (7)
Ma quelle dodici ore diventeranno anch’esse per Stanislaus Demba un carcere, una prigione perché quello che egli si prefiggerà di fare in quelle dodici ore si trasformerà in un assillo, in una corsa senza tregua, in una illusoria “rivincita” con la vita e sulla vita, del tutto vana. Non solo si prefiggerà di liberarsi dalle manette e riconquistare la normalità e con essa la reputazione ma, ancor più ambiziosamente, di realizzare quella che è una sua illusione amorosa. Ma tutto sfuggirà di mano a Demba e non solo in senso letterale. In primo luogo il tempo che incalzante lo assilla, poi la città che freneticamente attraversa, poi ancora le persone, che incontra con una fugacità dettata solo dalla necessità, inoltre il denaro che deve trovare, che trova ma che poi ogni volta gli sfugge e poi l’amore che non si realizzerà rivelandosi impossibile, attratto, come sarà, nella spirale della sua negazione. Ma in realtà è lo stesso testo letterario che si fa sfuggente facendo partecipi anche noi lettori di questa sensazione. E, in ultimo, soprattutto è la vita stessa a sfuggire di mano a Stanislaus Demba, nonostante il suo titanico sforzo di sopravvivere alla sua stessa morte: “…la via…che Demba deve percorrere per arrivare ad avere le mani libere, ad essere libero, non è che un condensato di esperienze quotidiane, di incontri che rivelano tutta la loro inanità. Il denaro, i rapporti sociali, la cultura, l’amore, l’amicizia: le tappe della disillusione…che preannuncia il distacco, sono altrettanti incontri di lui con se stesso, un’ultima verifica per sincerarsi della negatività dell’esistenza.” (8)
E come non vedere in ciò anche la metafora della fine di un’era, dello sfuggire per sempre di un’epoca. Di quell’impero asburgico in cui Perutz aveva vissuto e di cui proprio nel 1918, anno di uscita di “Dalle nove alle nove”, egli ne viveva in prima persona l’epilogo e la catastrofe. E così alla fine per Demba sarà la morte, proprio la morte, nella sua definitività, il vero momento della liberazione quello in cui, spezzatesi le manette egli aveva potuto finalmente trovare la pace: “Per la violenza della caduta le manette si erano spezzate. E le mani di Demba, quelle mani che si erano nascoste nella paura, indignate nel rancore, strette a pugno dalla rabbia, inalberate nel lamento, che mute avevano tremato…combattuto nella disperazione con il destino, che si erano ribellate con ostinazione contro le catene – le mani di Stanislaus Demba finalmente erano libere.”
***
(1) M. Freschi – “All’ inseguimento di Praga” in Leo Perutz – “Di notte sotto il ponte di pietra” – edizioni e/o – 2001 – p. 236
(2) M. Freschi, cit. p.232
(3) M. Freschi, cit. p.235
(4) P. M. Filippi – “Postfazione” in Leo Perutz – “Dalle nove alle nove” – Reverdito editore – 1988 – p. 258
(5) P.M. Filippi, cit. p. 268
(6) P.M. Filippi, cit. p. 273
(7) P.M. Filippi, cit. p. 273-274
(8) P.M. Filippi cit. p. 274
Splendido post! Praga è un fantasma ineliminabile sia nelle pagine di alcuni dei suoi più grandi cantori, come Urzidil, sia nella mia libreria… Per ora, di Perutz ho letto solo Di notte sotto il ponte di pietra, ma sento il bisogno di mettere in lista altri suoi titoli: è un autore decisamente affascinante.
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Grazie mille per l’apprezzamento.
Si la letteratura praghese è uno scrigno prezioso pieno di bellissime e imprescindibili cose tra cui, sicuramente, Urzidil.
Perutz è un “grande” che merita la massima attenzione. Ti consiglio “Il Maestro del giudizio universale” un altro suo bellissimo libro, mentre, prima o poi, devo leggere “Di notte sotto il ponte di pietra”.
Grazie ancora e buone letture.
Raffaele
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Ho ripreso il libro per terminarlo l’avevo iniziato qualche anno fa, ma poi l’ avevo abbandonato.
Ho dovuto riprendere dal secondo capitolo, ma sempre mi restava qualcosa di oscuro come di onirico e anche di occulto.
Non ho mai detto un libro così bizzarro e lei mi ha fornito degli ulteriori spunti di riflessione
La ringrazio
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Non l’ho mai letto, ma me ne parlò mio fratello Maurizio… devo assolutamente procurarmelo!
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Sono contento che Maurizio te ne avesse parlato. Io lo lessi una prima volta tanti anni fa e mi piacque molto e, dopo averlo riletto adesso, l’ho trovato ancora molto bello. E poi Perutz è un grandissimo scrittore. Penso ti piacerà.
In bocca al lupo per il tuo nuovo libro.
Un carissimo saluto.
Raffaele
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Grazie!
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Magnifica analisi!
Lascio qui il link a un mio post dedicato a Vienna, così come viene rappresentata da Perutz in ” Dalle nove alle nove”.
http://giacynta.blogspot.com/2011/09/una-citta-nelle-pagine-di-un-romanzo.html
Buon pomeriggio! 🙂
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Ciao giacynta. Ti rileggo con molto piacere. Grazie della visita e dell’apprezzamento. Ho visto il tuo post al link che mi hai mandato e, dai brani che avevi scelto, avevi colto bene lo spirito di “Dalle nove alle nove” a partire dal ruolo dall’ambientazione viennese, fino alle atmosfere kafkiane in cui finisce “catturato” il povero Demba. E scoprire, attraverso i reciproci contributi, come, a distanza di così tanto tempo, questo romanzo si mantenga ancora così vivo e vitale, conferma tutta la bravura e la grandezza di Perutz.
Un carissimo saluto.
Raffaele
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Ho ripreso il libro per terminarlo l’avevo iniziato qualche anno fa, ma poi l’ avevo abbandonato.
Ho dovuto riprendere dal secondo capitolo, ma sempre mi restava qualcosa di oscuro come di onirico e anche di occulto.
Non ho mai detto un libro così bizzarro e lei mi ha fornito degli ulteriori spunti di riflessione
La ringrazio
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Ringrazio lei e mi fa piacere che la lettura del commento le abbia suscitato delle riflessioni ulteriori..
In effetti in “Dalle nove alle nove”, l’onirico e l’occulto, inteso come mistero, convivono facendone un libro dove dietro un’ apparente razionalità, domina un continuo senso di sfuggevolezza e direi anche di follia di ciò che vi accade.
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Ciao Raffaele e innanzitutto buon anno.
Come sempre preziosi i Tuoi apporti. Ho saccheggiato (citandoti, però) questo per un mio commento ad un altro libro di Perutz, La neve di San Pietro, che per la verità non mi ha entusiasmato. Mi ero molto ritrovato con le Tue riflessioni ripensando agli altri romanzi dell’autore da me letti, Il marchese di Bolibar e Il cavaliere svedse, ma anche ai migliori capita di toppare, e secondo me è il caso de La neve di San Pietro.
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Naturalmente Auguri di Buon Anno anche da parte mia.
Ti ringrazio molto per gli apprezzamenti e per la gradita citazione.
Non ho letto “La neve di San Pietro”, per cui non sono in grado di darne un giudizio.
Mi fa comunque piacere che gli altri libri di Perutz che hai letto ti siano piaciuti e che in essi hai trovato il Perutz che è piaciuto a me.
Grazie ancora e ancora tanti Auguri.
Ciao
Raffaele
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