La prima sensazione suscitatami dalla lettura de “La pianista” è stata quella del labirinto. Non solo perché le vicende della “pianista” Erika Kohut (E.K.) non hanno, su un piano di realtà, alcun contenuto evolutivo, anzi si ritorceranno fino allo spasimo contro di lei ma, soprattutto, perché appaiono sistematicamente condannate all’impossibilità stessa di evolversi. Come, per l’appunto, ella si trovasse dentro un labirinto nel quale i movimenti sono rigorosamente dettati e limitati dalle pareti del labirinto che le vengono innalzate e frapposte da chi la circonda, fiaccando in tal modo e costantemente ogni sua manifestazione di volontà.
Né, da tale labirinto, è data alcuna reale possibilità di uscita o di fuga. Anzi esso è costruito intorno ad E.K. così meticolosamente da assumere di fatto i connotati della prigione. Una prigione nella quale, come in qualsiasi prigione, sono concesse le ore d’aria e un po’ di libere uscite ma poi è sempre in quella prigione che si deve fare rientro. E a quel regime carcerario E.K. si è così a tal punto adeguata e l’ha così interiorizzato, da sviluppare un suo personale adattamento, plasticamente organico alla rigidità di quel labirinto-carcere. Al punto non solo da conformarsi alle volontà del carceriere, in una sostanziale connivenza di lei vittima con il suo carnefice, ma al punto di assumere su di sé la violenza subita per riprodurla, trasferendola impietosamente su se stessa.
Tuttavia – nonostante gli evidenti rimandi che una vicenda di questo tipo ha in chiave psicanalitica e nonostante le contestualizzazioni sociologiche che pure da “La pianista” si possono trarre – condivido pienamente quanto afferma nella sua postfazione Luigi Reitani quando dice che “non [si] deve credere… che “La pianista” sia un romanzo di impostazione realista”. Se è vero infatti che E.K. è vittima di un duplice omicidio esistenziale, perpetrato nei suoi confronti in primo luogo dalla madre: la sua carnefice e poi da Walter Klemmer, il suo amante-allievo: cieco utilizzatore su E.K. del suo dominio di potenza, i quali, canalizzando su di lei le loro pulsioni procedono, pur da versanti e con obiettivi tra loro opposti, alla “costruzione” dell’identità patologica di E., si intuisce, però, che la Jelinek non aveva intenzione di narrare la storia di un “caso” pur offrendocene anche questa chiave di lettura.
Così come la esplicita messa a nudo delle devastazioni e derive sociali e culturali che il modello piccolo-borghese, qui ferocemente descritto, è capace di produrre in termini di odio e di egoismo sociale, nonché la scelta di ambientazioni in contesti di marginalità sociale propri delle grandi aree urbane, non devono portare a credere che “La pianista” sia riducibile a romanzo di denuncia sociale anche se offre una tale ricchezza di prospettive in questo senso da avere in sé anche questo aspetto. Il tessuto connettivo de “La pianista” è quindi altro. Prendo ancora spunto da Reitani per sviluppare e articolare una serie di considerazioni attraverso le quali tentare di restituire una mia idea de “La pianista”.
“Il nucleo centrale dell’opera” – afferma Reitani – “risiede nell’incessante flusso metanarrativo e nell’impasto linguistico con cui esso è costruito”. E, in effetti, è costante la percezione, procedendo nella lettura, che vi sia ne “La pianista” una narrazione di secondo livello che allude ad altro e rimanda ad una dimensione più impersonale nella quale i personaggi sono espropriati della loro individualità e immessi in un vortice di crudeltà reali ma rese parossistiche che li trasla in una dimensione di estraneazione a cui non possono sfuggire. La metafora del labirinto diventa quindi utile non solo per descrivere il percorso di E.K. ma per identificare l’opera nel suo complesso.
E. K., la madre e Walter Klemmer appaiono tutti alla mercé di qualcosa che li domina e impedisce loro di fare la sia pur minima presa di distanza da sé, come topi ossessivamente occupati a ripetere, nella loro gabbia, lo stesso gesto. Vi è in tutto ciò un evidente stato di alienazione che li rende incapaci di guardarsi e riconoscersi. E’ come se ognuno fosse rinchiuso in un proprio mondo in cui vigono leggi fatte non si sa né quando né da chi. La madre di Erika è, da sempre, maniacalmente occupata a tenere legata E. a sé, impedendole qualsiasi aspirazione alla libertà e al suo esercizio, al punto da farla dormire, pienamente adulta come E. è, nel suo stesso letto e a progettare ogni atto della sua vita in funzione di quel legame, al quale peraltro E. si assoggetta. E’ evidente che fra madre e figlia vi è una tipica relazione modellata sul “doppio legame”: il controllo della madre crea la dipendenza della figlia ma, a sua volta, quest’ultima, già con la sua presenza oltre che con la sua accondiscendenza, alimenta quel ruolo materno e lo legittima assicurando l’identità e l’autorità materna e acquisendo così, nei confronti della madre, un suo potere.
Mancando E. la madre scomparirebbe, la sua vita esistenziale si azzererebbe, tanto che ella vede l’ingresso di Walter Klemmer, così come quello di qualsiasi uomo nella vita di E. come una insostenibile minaccia. In altri termini, usando uno schema più letterario, siamo di fronte ad una tipica relazione servo-padrone, al di là che tecnicamente E. non svolge compiti di servitù in senso materiale ma è, ben più tragicamente, in una condizione di servitù esistenziale nei confronti della madre. Ebbene, in questo schema, il servo non ribellandosi, assume nei confronti del padrone un potere che gli deriva dall’ assicurare al padrone la sua esistenza come padrone. Se a questi venisse a mancare il servo non solo ne perderebbe i servigi a lui necessari ma perderebbe il suo stesso ruolo e la sua stessa collocazione nel mondo, ne sarebbe espropriato, restando alla mercé di se stesso, finendo quindi, di fatto, per essere il servo a determinare il destino del padrone.
Se queste letture, come vediamo, sono possibili esse tuttavia hanno un carattere, per così dire, di autoevidenza, si potrebbero persino definire scontate. Il “mondo” che la Jelinek crea per la madre di E. è in realtà ancora più profondamente obnubilante perché non risponde solo a pulsioni psico-sociali come quelle precedentemente descritte, ma affonda in una dimensione claustrofobica assai più metaindividuale. Per rendere il senso di ciò si rivela utile il ricorso alla denominazione e al concetto di Biedermeier, peraltro profondamente compenetrato nella cultura austriaca, che, comunemente applicato in ambiti artistico-artigianali-arredativi ha anche una sua precisa connotazione letteraria. La sua fondazione, in ambito letterario, viene attribuita “agli scrittori tedeschi Ludwig Eichrodt ed Adolf Kussmaul i quali, a metà dell’ 800, inventarono la figura del maestro Gottlieb Biedermeier, un uomo al quale il salottino angusto, il giardinetto, il borgo modesto e il misero destino di disprezzato maestro di paese procurano la felicità terrena.” ( V. Zmegac, Z. Skreb, L. Sekulic – “Breve storia della letteratura tedesca” – Einaudi – 2000 – p.196) In realtà, creando questo personaggio, Kussmaul ed Eichrodt volevano criticare l’uso tipicamente borghese di chiudersi in casa evitando qualsiasi contatto con la realtà esterna. Ma quello che è cruciale in questa figurazione è che “Il Biedermeier esige dall’individuo che egli si senta bene nella limitazione” (cit. p.202), che si autolimiti gratificandosene ed eleggendo a ciò la sua vita.
L’elemento claustrofobico-labirintico in cui è risucchiata la madre di E. nel suo reprimersi e reprimere è proprio questo, l’osservanza a una legge non scritta che non solo imprigiona gli altri ma prima di tutto imprigiona se stessi, impedendo la relazione col mondo, posto che tale legge è per lei appagante e viene elevata a sistema di vita. La madre di E. non solo impronta in chiave Biedermeier, come qualsiasi mediocre piccolo borghese austriaco, il sistema degli oggetti e lo spazio che la circonda, cosa che la Jelinek abbondantemente ci descrive, ma quello che è fondamentale è il fatto che ne attua il conseguente stile di vita e i relativi significati simbolici come fossero dispositivi automatizzati e non alterabili, finendo per vivere in un suo “mondo” fuori dal mondo, metastorico e spersonalizzato.
Se la madre di E. produce un’aggressività tutta diretta sulla figlia, E. produce un’aggressività tutta diretta su di sé. Quest’aggressività E. la attua attraverso il ricorso a pratiche autolesionistiche sul suo corpo, portate fino ai limiti dell’automutilazione, le quali sono, contemporaneamente, sia modalità autopunitive sia modalità con le quali provare piacere. “Il dolore stesso non è che la conseguenza del desiderio di provare piacere, di distruggere, di annientare e, nella sua forma più alta, una forma di piacere. Erika non esiterebbe a oltrepassare il limite e giungere al suicidio”. Il farsi del male diventa quindi per E. il modo per canalizzare ed esprimere la sua libido, per esprimere una sua sessualità, in assenza di qualsiasi affettività, la cui carenza nella sua vita è totale. E. non vive mai né gli istinti, né vere passioni.
Persino la sua attività di pianista o meglio di insegnante di pianoforte non assolve nella vita di E. uno scopo autorealizzativo o espressivo, riducendosi a “mestiere”, se pur ammantato esteriormente da un rigore con cui cerca di darsi un’immagine di autorevolezza e di rappresentarsi paladina di una sua sensibilità estetica che nasconde, in realtà, un mero bisogno di accettazione e di riconoscimento sociale il quale è, a sua volta, un bisogno soprattutto di sua madre, proiettato su E. e nutrito tramite E. Anche la sessualità praticata da E. non ha sbocchi, essendo priva della “relazione” sessuale. E. è una voyeur: frequenta peep – show, si acquatta di notte nel Prater per osservare, non vista, le coppie che vi si appartano e quindi, tutta la sua vita sessuale, è ridotta a immaginario sessuale, deprivata com’è di qualsiasi relazione sia fisica che affettiva. Ma, in realtà, tutta la vita di E. è priva di relazioni.
Fintantoché non si introduce progressivamente nella sua vita il suo allievo di piano Walter Klemmer (W.K.) che si invaghisce di E. e la seduce. L’apparente cliché della classica “storia” allievo/insegnante innesca in realtà l’esplodere nel romanzo di una deriva verso la violenza che diverrà una spirale inarrestabile. Il primo istinto di E. è raggiungere le vette del piacere a lei noto: il piacere come punizione, avendo adesso l’opportunità di attuare in pieno le sue pulsioni, “offrendosi” a W. perché egli metta in piedi, insieme a lei, un bel rapporto sadomasochistico. Scriverà infatti una lettera dettagliata a W.K., prescrivendogli tutta una serie di pratiche violente che lui dovrebbe attuare su di lei. K. che, da aitante sportivo qual’è, è invece tutto dentro uno schema del tipo io Tarzan tu Jean e quindi proteso ad affermare e a “donare” la sua virilità a E. è sconvolto e, al tempo stesso, disgustato da E.
Ma E., in realtà, vorrebbe l’opposto di quello che ha scritto nella lettera, vorrebbe da K. amore e affetto, sperando che lui la capisca. In altre parole E. attraverso la “messa alla prova” di W., vorrebbe uscire da quella prigione anaffettiva in cui è rinchiusa e spera che K. la aiuti e la salvi attraverso un atto d’amore, basato sulla comprensione. K., invece, ha ben altre idee e intendimenti sessuali. Egli è il classico maschilista e come tale desidera dominare ciò che adora. Esaltando la femminilità tradizionale egli esalta la propria virilità. Egli vuole perciò una donna sottomessa e devota al “suo” piacere e capace in modo efficiente di procurarglielo, ben lungi dalle “perversioni” di E. riportate nella lettera che, a uno come lui, appaiono incomprensibili.
In W.K non c’è, da questo punto di vista, alcun conflitto interiore, nessuna mezza misura, né è lontanamente sfiorato dal dramma e dalle contorsioni esistenziali di E., non intuendole nemmeno. E infatti cosa accade, che E. non avendo saputo soddisfare appropriatamente le richieste sessuali di W.K, ritenendola egli di ciò colpevole, la punirà violentemente e brutalmente, fino allo stupro. Quello che E. aveva chiesto a K. ma che in cuor suo non voleva, cioè il castigo violento, non solo si verifica, ma, oltre tutto, non per le motivazioni di E. ma per quelle di K., il quale finirà per assumere anche lui, in relazione ad E., il ruolo di carnefice.
Ora se tutte le dinamiche sin qui descritte presentano possibili letture in chiave psicopatologica la quale potrebbe apparire, a prima vista, l’oggetto in sé della narrazione, in realtà vi è anche in queste vicende, che costituiscono sicuramente la parte più cruciale di tutto il testo, un livello per così dire “più profondo”. E., abbiamo visto, oscilla paurosamente e sistematicamente fra castigo e colpa. In questo senso la sensazione è che ella sia dentro un sistema che la rende comunque vittima di colpe e che, a sua volta, si senta comunque colpevole. Potremmo dire che ella “cerca” la sua colpa e trovatala “cerca” immediatamente il suo castigo, quasi che il castigo sia il vero obiettivo di E. Ma avviene anche il contrario, il castigo arriva prima che E. trovi la colpa, come nel caso della violenza subita da W.K. di cui E. non comprende i motivi. In questo caso quindi il castigo non trova neanche la colpa. E., comunque persevererà a castigarsi, fino alla fine, così come avviene nella scena finale quando si colpirà con quel coltello che aveva preso per rivolgerlo a W.K.
Tutti e tre i personaggi appaiono quindi intrappolati in qualcosa, anche W.K che è completamente intrappolato nel suo ruolo di dominio, sotto le mentite spoglie della sua “normalità”. Siamo quindi complessivamente di fronte ad una dimensione che attiene a meccanismi che obbediscono a loro regole, su cui i personaggi non hanno alcun controllo e che sfuggono loro. Ma evocare dimensioni di questo tipo significa evocare quel mondo labirintico e claustrofobico creato da chi rappresenta per definizione queste dimensioni, cioè Kafka. Nella postfazione Reitani rileva la presenza di una intertestualità fra “La pianista” e “Il processo”, rinvenibile nei relativi finali, in relazione a cui sottolinea anzi come quello de “La pianista” sia ancora più spietato di quello de “Il processo”. Tuttavia la presenza dello spirito di Kafka ne “La pianista” va oltre, a mio modo di vedere, il nesso fra i relativi finali. I vari temi e aspetti metanarrativi sin qui descritti, richiamano fortemente il mondo di Kafka, di cui non vi è certo una riproposizione, ma vi è un rispecchiarne le forme, rivelandosi come un’ispirazione che attraversa tutto il testo.
“La pianista” si rivela pertanto ulteriormente un romanzo complesso, per la pluralità e il tipo dei possibili livelli interpretativi e di lettura, che confermano comunque il fatto che esso è tutt’altro che un romanzo realista. E veniamo, riprendendo le parole di Reitani, all’aspetto dell’ ”impasto linguistico”, inteso come quell’elemento connettivo su cui si regge l’impalcatura del testo e che dà a “La pianista” quell’esclusiva impronta stilistica che questo romanzo ha. Un linguaggio quello de “La pianista” dotato di una sua autonomia, quasi fosse uno spartito con una sua propria scrittura compositiva, basato su una metrica che “lavora” nel veicolare quella metanarrazione che informa tutto il testo.
Che la ricerca sul linguaggio sia un elemento costante e peculiare di tutta l’opera di Elfride Jelinek è peraltro attestato da quanto riportato nelle motivazioni con cui gli è stato conferito nel 2004 il premio Nobel per la letteratura, attribuitole “per il flusso musicale di voci e controvoci dei suoi romanzi e commedie che con una straordinaria accuratezza linguistica rivelano le assurdità dei cliches della società”. Vi sono, già in queste motivazioni, elementi immediatamente rinvenibili anche ne “La pianista”. In primo luogo il procedere della narrazione come un flusso ininterrotto, tanto che non vi è nessuna suddivisione in capitoli o parti e sono pochissimi pure i punti e a capo. Senza però che tale flusso si riveli sequenziale o lineare, bensì fatto di rimandi, finestre, collegamenti che si aprono e si chiudono continuamente, in una moltiplicazione di percezioni offerte al lettore, di poliforrmità dei significati. Poi l’intrinseca musicalità, come già si diceva, di tale flusso, dove l’armonia non è certo in quello che si dice ma in come lo si dice.
Peraltro la Jelinek possiede saldissime basi musicali avendo studiato al Conservatorio di Vienna dove si è diplomata in organo. E così come i suoi grandi immediati predecessori, Ingeborg Bachmann e Thomas Bernhard, aventi anch’essi, nella loro formazione artistica, trascorsi musicali e nel cui alveo letterario la Jelinek è sicuramente collocabile per tanti motivi – basti dire, rispetto alla Bachmann, che la Jelinek è stata la sceneggiatrice della trasposizione cinematografica di “Malina” il noto romanzo della Bachmann – ebbene, ella come loro, ha nel retroterra musicale e fa del retroterra musicale un elemento costitutivo della sua formazione artistica e della sua opera. Se infatti per la Bachmann conta dire delle collaborazioni che ella ebbe con il compositore tedesco Werner Henze per il quale scrisse, di alcune sue opere, i relativi libretti, e per Bernhard fa testo “Il soccombente”, un romanzo tutto incentrato sul tema della creazione musicale, anche “La pianista” è un romanzo che ha al suo interno “idee” sulla musica, tematiche e riferimenti che attingono alla storia della musica, ambientazioni collocate in quel mondo e descrizioni di stereotipi propri di quel mondo.
Ma, soprattutto, ne “La pianista” vi è la dissacrazione del valore in sé della musica come mezzo di riscatto dal male e come salvacondotto, in virtù della suo essere arte suprema, per garantirsi e trovare una propria salvezza in cui rifugiarsi, dato che per E. la “sua” musica non sarà una via di fuga dal mondo. Infine, riprendendo le motivazioni del Nobel, vi è da dire dell’accuratezza del linguaggio che, ne “La pianista”, si traduce in descrizioni precise, originali, acute che spezzano l’immagine complessiva restituendocela quasi per fotogrammi, con un periodare brevissimo e una punteggiatura secca, in un “turbinio di definizioni, paragoni, immagini” e metafore. Ma la grandezza che il linguaggio riveste, nella prosa creata dalla Jelinek ne “La pianista”, sta anche e soprattutto nella capacità irridente e distruttiva con cui “attacca” la realtà.
Il linguaggio è quindi un mezzo per capovolgerla la realtà. I toni che la Jelinek usa sono quelli dell’ironia pungente virata sul sarcastico/beffardo, impietosamente irriverente e irriguardosa. Tutto questo conferisce a “La pianista” un’intima vena comica. Ma il comico della Jelinek non è solo un mezzo per decretare e veicolare la sua denuncia morale verso ciò di cui parla. Nel comico della Jelinek c’è l’orrore del comico, cioè quel comico che privato di qualsiasi sua leggerezza rivela ancor più vistosamente e brutalmente il tragico che c’è dietro il comico. Esso non è lì per edulcorare il tragico è lì per distruggerlo sul nascere, cioè per toglierli qualsiasi sua possibile grandezza e salvezza e restituircelo per intero nella sua impietosa crudezza. Noi assistiamo ai drammi e agli psicodrammi di E.K., di sua madre, di Walter Klemmer, eppure ci viene da ridere. Insomma il confine tra commedia e tragedia è sottilissimo però con un ben preciso ordine di apparizione nel senso che noi abbiamo l’impressione di stare vedendo una commedia se pure dell’orrore, in realtà stiamo assistendo ad una tragedia.
Ora tutto quanto sin qui detto sull’impianto stilistico della Jelinek derivante dal linguaggio, dai suoi toni e dalle sue modalità di utilizzo rivela, in ultima istanza,la presenza nella sua prosa di un effetto caricaturale che investe sia l’aspetto linguistico che quello tematico, rispecchiando tutto questo elementi molto simili a quelli presenti nella letteratura postmoderna americana. Senonché, riflettendo su questo, mi sono ricordato che Reitani, nella postfazione, accenna al fatto che la Jelinek nei primi anni ’80, subito prima di scrivere “La pianista”, “…si era dedicata alla traduzione di autori come Thomas Pynchon”.
Ora in Pynchon, autore americano postmoderno per eccellenza, non solo sono presenti, in proporzioni assai maggiori e volutamente esasperate, molte delle caratteristiche dello stile narrativo dette per la Jelinek (si pensi soltanto all’analogia per quanto riguarda il flusso incessante della narrazione così come accade ne “L’arcobaleno della gravità”, la sua opera sicuramente più paradigmatica); non solo vi è, nello scrittore americano, una narrazione metanarrativa che anzi, nel suo caso diventa ipermetanarrativa, ma, soprattutto, è presente il nesso commedia/tragedia nella stessa sequenza in cui si presenta nella Jelinek e, infine, vi è una sistematica trasposizione caricaturale della realtà. Pur senza voler fare facili e semplicistiche deduzioni è però legittimo pensare all’influenza sulla Jelinek di un autore come Pynchon, avendo la Jelinek lavorato su quel genere di letteratura in quegli anni e le connessioni riscontrate lo suggerirebbero.
Questo ci dice ulteriormente dello spessore, dell’originalità e della ricchezza di questa scrittrice che è riuscita a fondere nella sua opera una pluralità di influssi, arrivando ad una loro sintesi caratteristica. Dove l’innovatività delle forme stilistiche veicola, con un linguaggio e con una visione delle cose adeguati alla contemporaneità, quella spietatezza del mondo che la grande letteratura austriaca e mitteleuropea del ‘900, a cui la Jelinek va pienamente ascritta, ci ha rivelato e ci continua a rivelare.