“Cinque storie ferraresi” – Giorgio Bassani

“La verità è che i luoghi dove si ha pianto, dove si ha sofferto, e dove si trovarono molte risorse interne per sperare e resistere, sono proprio quelli a cui ci si affeziona di più.” Questa frase che Bassani fa pronunciare a Clelia Trotti la protagonista dell’omonima storia: “Gli ultimi anni di Clelia Trotti” è, a mio modo di vedere, paradigmatica per individuare la traccia che lega e attraversa “Cinque storie ferraresi”.

Perché mediante i protagonisti principali e secondari dei cinque racconti che compongono queste “cinque storie”, Bassani ci parla di tre cose, che sono tutte contenute e sintetizzate in quella frase. La prima, che attiene alla prima parte di quella frase, riguarda l’esperienza dolorosa, inesorabilmente vissuta in modo muto e solitario, prodotta dalle rinunce e dalle imposizioni a cui la vita sottopone. La seconda, ravvisabile nella seconda parte, rimanda alla lotta strenua, spesso impari, per far fronte, esistenzialmente oltre che materialmente, a ciò che tali rinunce e imposizioni comportano, e questo suscitando in sé quelle umane “risorse” fatte di speranze e resistenza, che affondano nell’ istinto di opporre la vita alla morte. Infine la terza, corrispondente all’ ultima parte di quella frase, che evoca l’attaccamento, comunque indissolubile, con i luoghi e con la realtà in cui tutto ciò avviene, in quanto “origine” di ogni cosa, elemento fondativo dell’identità sia essa interiore che “storica”, nonché legame affettivo inscindibile rispetto al quale solo un paziente ed ostinato spirito di adattamento può consentire di sopperire ai prezzi che quel legame comporta.

Ma quali sono queste rinunce e imposizioni e quali sono, a loro volta, le sorde lotte con sé e col mondo che tali rinunce e imposizioni comportano? Vi è l’amara rinuncia che Lidia Mantovani, protagonista dell’omonimo racconto, deve fare riguardo all’ amore e a un futuro con il suo David, quel “figlio di signori” che la metterà incinta, lasciandola sola nella sua condizione di ragazza madre, la quale Lidia, pur non amandolo, dovrà “accettare” l’amore, se pur premuroso, ma per lei solo rassicurante e “necessario” di Oreste, di lei assai più vecchio.

Vi è la rinuncia ad una molto più brillante e prestigiosa carriera di medico a cui Elia Corcos, il protagonista del relativo racconto: “Un genio, signori! Un uomo che se Ferrara al momento buono non fosse stata Ferrara, ma Bologna…”, si sottrae: per sposare Gemma Brondi, in un matrimonio pieno di ambiguità: “E il suo matrimonio, a trent’ anni, con una ragazza del popolo senza dubbio dotata di molte belle qualità, ma che chissà se aveva finito la quarta elementare, ne aveva suggellato la sconfitta e il sacrificio”. Perché Elia Corcos, di fronte ai parenti di lei venuto da loro a dichiararsi, si chiederà se sta facendo la cosa giusta: “A che scopo, in nome di Dio, sto rovinandomi con le mie stesse mani? Soltanto per riparare a una gravidanza? E nemmeno accertata per giunta? E poi: Mi è dato ancora scegliere, volendo. Cambiando idea, posso ancora uscire di qui, sfidare tutti quanti, padre, madre, fratelli, non farmi più rivedere. Come anche posso, se lo preferisco, stare al gioco, accettare fin da adesso la vita modesta del medico-curante di provincia: col vantaggio, però, in questo caso, quando la ragazza fra poco mi accompagnerà fino alla porta di strada, di cominciare a insinuare che la causa di tutto sarà stata lei, il matrimonio al quale saranno stati loro, in un certo senso, ad avermi costretto. E poi: Di fronte a due strade, la prima aspra, difficile, malsicura, l’altra piana, facile, bella comoda, uno, siamo giusti, non può mica esitare su quale prendere. E infine…Sul serio piana, del resto, la strada che ho già imboccato? Sul serio facile, bella comoda? Chi lo sa.”

E che dire della rinuncia, corrispondente ad una fine cupa e misteriosa di cui sarà vittima Geo Josz, il protagonista di “Una lapide in Via Mazzini” il quale, unico sopravvissuto fra gli ebrei di Ferrara deportati nei campi di sterminio nazisti, non sopravviverà al “ritorno” nella sua Ferrara e, irrimediabilmente spaesato e sradicato, pur avendo cercato a suo modo di reinserirsi, scomparirà nel nulla, comunque “morto” proprio là dove avrebbe potuto finalmente vivere.

Vi sono poi le imposizioni. Quelle che subirà Clelia Trotti, la socialista Clelia Trotti “che aveva veduto coi suoi occhi Anna Kuliscioff e Andrea Costa, che aveva discusso di socialismo con Filippo Turati” che, sebbene si blandisca con coraggiosa modestia affermando: “ A parte qualche anno di galera, qualche altro di confino, e adesso di libertà vigilata, che cosa ho combinato di tanto importante, io, nella vita…Non ho preso neppure le botte, si figuri.”, tuttavia un giorno sarà portata via dalla casa della sorella, presso cui era “ospite coatta”, tenuta sotto controllo da quelli della polizia segreta fascista della famigerata Ovra, per poi riapparire nel chiuso di una bara, mentre si celebrano i suoi funerali a guerra finita. E, come si evince da quel cartello che svetta sul corteo funebre e che dice: “ONORE A CLELIA TROTTI MARTIRE DEL SOCIALISMO” capiamo che Clelia Trotti è stata lasciata morire in carcere.

E infine quale più dolorosa e drammatica imposizione sarà quella che si darà Pino Barilari, il farmacista Pino Barilari. In quello che è il racconto più bello di tutti, da cui è stato tratto quello che è forse anche il film più bello di tutti, fra quelli realizzati a partire dalle opere di Bassani e cioè quel “La lunga notte del ‘43”, titolo sia del racconto che del film, diretto, quest’ultimo, da Florestano Vancini (ferrarese anch’egli).

In questa “storia” la vicenda ruota intorno alla figura apparentemente vigliacca, in realtà amaramente dolente del farmacista Pino Barilari che costretto nella sua sedia a rotelle, sta sempre di fronte a quella finestra da cui vedrà, unico testimone, il terribile eccidio avvenuto a Ferrara in pieno Corso Roma nella notte del 15 Dicembre del 1943, nel quale 11 fra ebrei e antifascisti vengono brutalmente ammazzati da squadracce fasciste della neonata Repubblica di Salò. Ma Pino Barilari al processo che si terrà, a guerra finita, testimonierà: “Dormivo”. Perché quella notte egli non fu solo spettatore di quella feroce esecuzione ma anche di un’altra cosa, per lui assai più dolorosa, del tradimento della moglie, che egli vide apparire d’improvviso, in piena notte, poco dopo l’esecuzione, lì sotto, di fronte a lui, che rientrava nascostamente, proveniente dalla casa del suo amante. E guardatisi entrambi negli occhi, lui dalla finestra, lei dalla strada, portarono silenziosamente e solitariamente per anni il segreto di quella loro verità, a cui Pino Barilari vigliaccamente, ma dolorosamente, neanche al processo verrà meno.

Vi è adesso da dire della terza cosa contenuta in queste “storie” corrispondente alla parte finale di quella frase, riportata all’inizio e da cui siamo partititi e cioè “i luoghi…a cui ci si affeziona di più” e cioè Ferrara, l’amata Ferrara di Bassani, con le sue umanità e con la sua umanità, ma anche con le sue bassezze e le sue vigliaccherie, con la sua “storia secolare”, ma anche con il suo provincialismo, capace di eroismi ma anche di opportunismi.

Ferrara fascista: “nessun’altra città dell’Italia settentrionale aveva dato come Ferrara così numerosi aderenti alla Repubblica di Salò”; Ferrara ebrea: “Centottantatrè ebrei deportati in Germania, e là morti, nelle solite maniere, su quattrocento che ne vivevano a Ferrara prima della guerra”; Ferrara partigiana: “Erano socialisti, comunisti, cattolici, liberali, azionisti, repubblicani-storici: l’ex Direttorio al completo, insomma, dell’ultimo Cln clandestino”; Ferrara comunista: “dopo le recenti elezioni amministrative che avevano visto la vittoria schiacciante dei comunisti”

Ma se questa è la Ferrara “storica”, vi è poi la “creazione” che Bassani compie di Ferrara a partire da Ferrara. Perché in queste “Cinque storie ferraresi” ma, come è noto, in tutta l’opera di Bassani, Ferrara così minuziosamente e topograficamente descritta, diventa un palcoscenico di vita e di vite, un perenne teatro della memoria e dell’esistenza, un luogo incarnato nella geografia e nelle concrete vicende materiali ma per dirci e raccontarci “la commedia e la tragedia umana” comune agli uomini e alle donne in quanto tali, che rimanda all’ inesausto e inesorabile scorrere dell’esistenza. Ferrara quindi come microcosmo di quel grande macrocosmo che è la vita, la piccola Ferrara che diventa specchio del mondo: “Il contrasto tra l’enormità delle vicende di cui scrivo e la piccolezza della mia Ferrara mi dà una certa garanzia di venire ascoltato, creduto” dirà lo stesso Bassani a questo proposito.

In conclusione, in queste “Cinque storie ferraresi”, si ritrovano tutti i grandi temi dell’intera opera di Bassani: la condizione ebraica; la vita come esilio, sradicamento, minaccia; la solitudine dell’uomo; il tema del fallimento e della delusione; l’attenzione al dato esistenziale posta sullo sfondo di quello storico-sociale.

Controcorrente, rispetto al prevalere del “neorealismo”, Bassani che, non a caso, fu lo “scopritore” del Gattopardo, fu, proprio insieme a Tomasi di Lampedusa, espressione di quella tendenza che, nel corso degli anni ’50, esplorò moduli espressivi nuovi, andando oltre il “neorealismo”, moduli espressivi che, nel caso di Bassani, potremmo definire “esistenzialisti”.Nel contempo questo lo portò, però, a venire tacciato di tradizionalismo, estraneo, com’ era, alle avanguardie, da cui le critiche che gli piovvero da parte di chi si rifaceva al “Gruppo 63” espressione allora della cosiddetta “Neoavangurdia”.

Tuttavia Bassani, pur nel tradizionalismo classicista dello stile e del linguaggio, che lo ricollega alla grande tradizione italiana, da Dante a Manzoni, sicuramente lontano, oggi ancor di più, da concezioni e modalità di espressione contemporanee, va, a mio modo di vedere, assunto proprio come un “classico” della letteratura italiana, nella consapevolezza della sua storicità. Pur quindi distante da qualsiasi sperimentalismo e pur nell’ uso di una lingua piana, cosa che si riscontra con tutta evidenza anche in “Cinque storie ferraresi”, Bassani, tuttavia, resta uno scrittore di grande autenticità, intensità e profondità, capace di parlare in modo vero di cose vere, ben lontano da qualsiasi compiacimento consolatorio e da qualsiasi tipo di retorica.

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