“Un amore” – Dino Buzzati

“Un amore”, pubblicato nel ’63, è l’ultimo romanzo scritto da Buzzati e si colloca a ventitré anni di distanza dall’“uscita” de “Il deserto dei Tartari” avvenuta nel ’40. Ora se si confronta “Un amore” con “Il deserto”, cioè con quello che è l’indiscusso faro di tutta l’opera di Buzzati – che la identifica dandole una sorta di imprinting – si può restare ancora oggi interdetti. E ciò per la divaricazione tematica e stilistica che i due testi presentano tanto da essere portati a pensare che la parabola di scrittore di Buzzati nel corso del tempo si sia mossa in una direzione diversa da quella originaria fino a trasformare la forma della sua scrittura e i contenuti della sua ispirazione che lo hanno reso famoso.

Ad una prosa elegante e misurata, evocativa e metafisica, rarefatta e quasi magica, quale quella che Buzzati aveva impiegato per narrare l’irreale e surreale attesa di quei fantomatici nemici da parte del tenente Giovanni Drogo e della sua guarnigione, insediati all’interno della fortezza Bastiani posta ai limiti del “deserto dei Tartari”, fa infatti riscontro, in “Un amore”, il più esplicito realismo che spoglia la materia trattata senza pudore e senza pudori. Una materia, a sua volta, inedita per Buzzati, lontana da quella de “Il deserto”, ma anche da quella dei suoi numerosi racconti “fantastici”. Una materia scabrosa e “spinta”, difficile e imbarazzante: quella di una passione amorosa bruciante e ossessiva, cruda e crudele, narrata a forti tinte e in modo spregiudicato. Dove non solo l’attrazione e il desiderio sono esplicitati ma divengono, nel corso del romanzo, un tormento carico di angoscia.

“Un amore” è la storia dell’ impazzimento d’amore del protagonista: l’affermato e maturo architetto milanese Antonio Dorigo, per una ragazza molto più giovane di lui – la ventenne Adelaide Anfossi che, con l’allusivo diminutivo di Laide sarà chiamata per tutto il romanzo – che è una prostituta, o meglio, che è anche una prostituta. Laide infatti conduce una vita parallela, essendo quello della prostituta una sorta di secondo lavoro, svolto in modo segreto e clandestino, dato che “ufficialmente” Laide è una ballerina del corpo di ballo della Scala. Tuttavia quella seconda vita occupa non poco Laide che la svolge senza turbamenti e conflitti, in modo disinibito e navigato. Ed è proprio fra le quattro mura della casa di appuntamenti che Dorigo frequenta, ovviamente anche lui in modo segreto e clandestino, che avviene l’incontro con Laide.

E così come Laide, disincantata e smaliziata, affronta e svolge quella sua “professione” senza farsi troppi problemi e senza averne alcuna ricaduta emotiva, anche Dorigo vive quella sua “abitudine” immune da implicazioni sia morali che psicologiche, attratto dal disimpegno che quel tipo di “soluzione” offre rispetto al coinvolgimento e alla “fatica”che una relazione fissa con una donna “reale” implicherebbe. Insomma una via di fuga facile, sempre pronta e a buon mercato per soddisfare i propri bisogni o meglio quel suo vizio – “lui ci andava per vizio più che per un vero bisogno, per la soddisfazione di provare…di godere una bella ragazza pressoché sconosciuta” – e restare liberi da vincoli e legami.

Ed è in questo contesto, per entrambi strumentale ed anaffettivo, che ha inizio la storia di Dorigo con Laide che finirà per rivelarsi fatale, innescandosi una dinamica perversa e distruttiva di cui Dorigo sarà vittima a causa di quell’innamoramento verso Laide che lo travolgerà. Giacché quell’innamoramento da Laide non sarà corrisposto, non concedendosi ella affettivamente, pur continuando a concedersi a Dorigo fisicamente e “mercenariamente”. L’asimmetria, con Dorigo dominato e Laide dominante, diverrà da subito il leitmotiv di una relazione che nella sua contorta e distorta dinamica si evolverà via via in un legame che ingloberà entrambi.

Laide, approfittando dell’innamoramento di Dorigo che lo rende debole e acquiescente, detta i tempi e i modi di quella relazione, iniziando ad utilizzare Dorigo come suo cavalier servente, come accompagnatore tuttofare, stabilendo il quando e il come vedersi. E Dorigo, pur di starle vicino, pur di averla al suo fianco, pur di poterla stringere a sé, accetta e subisce quelle condizioni per lui dolorose e frustranti. Ma a sua volta Laide, così facendo, finisce comunque per alimentare e tenere viva quella relazione. Ella infatti non allontana da sé Dorigo, non ne fa una presenza marginale ma, al contrario, lo cerca e lo attira se pur nei termini che ella stabilisce e decide.

In questo modo quella relazione apparentemente unilaterale finisce per essere vissuta e “praticata” da entrambi costituendosi, di fatto, una sorta di doppio legame in quanto non più solo Dorigo ma anche Laide gioca un suo ruolo ed ha delle sue motivazioni. Se Dorigo è incessantemente attratto da Laide con tutte le amarezze e le umiliazioni che quell’attrazione per lui comporta, dato che Laide non prova e non manifesta alcun sentimento verso Dorigo, ponendosi per lo più con indifferenza e calcolo nei suoi confronti, ella, a sua volta, ha, in Dorigo, una persona non solo sempre disponibile ma con cui, se vuole e quando vuole, potersi lasciare andare.

E, in questa situazione, si genera in entrambi un doppio vissuto. Alla prevalenza dell’amore per Laide faranno riscontro in Dorigo reazioni di rigetto verso Laide , sebbene per lo più interiorizzate e inibite dalla paura di perdere Laide, la quale, a sua volta, al manifestato disinteresse affettivo e al rapporto utilitaristico verso Dorigo unisce la propensione a “stare” con Dorigo e a concedergli una sua parte di intimità.

E, nel concedere a Dorigo quell’intimità, Laide si concede la possibilità di esprimere quelle parti di sé che tende a comprimere, nascondendole sotto quel cinismo che di solito esterna. Quelle parti che ne fanno ancora, per molti aspetti, una “bambina” con le sue ingenuità e con la sua residua innocenza: “Lei poi in letto era molto più allegra e vivace del solito, mica che l’atto carnale con Antonio le procurasse molto piacere anzi è chiaro che non gliene frega niente, ma il letto forse diventa per lei come un grande giocattolo sul quale è così divertente rotolarsi, fare scherzetti, infilarsi sotto le coperte e nascondersi…Per di più in letto Laide perdeva quell’ “aplomb” disdegnoso a cui teneva tanto…nuda risultava più bambina…e lei stessa probabilmente se ne rende conto e ne gode… e allora si abbandonerà con lui, sorridendo, a vanitose confidenze così candide da renderla ancora una bambina. “Sai che cosa ho io?” gli dirà “Che sono ancora una bambina ma sono terribilmente femmina”…[e]”Sai che cosa sono io?” gli dice…”Io sono la nuvola. Io sono il fulmine. Io sono l’arcobaleno. Io sono una bambina deliziosa”. E nuda, inginocchiata sul letto, aperta dinanzi a lui, lo fissa con occhi impertinenti”

Da questo brano emerge tutta la sottile malizia e, al tempo stesso, la vivace freschezza di Laide che contrasta con quella “sfiducia totale nel mondo, inconcepibile in una ragazzina di venti anni” che Dorigo aveva in un altro momento percepito e che dà l’idea del coesistere in Laide di parti diverse ed opposte. Capace come ella è di apparire forte essendo anche fragile, di essere altera essendo ancora infantile, di essere insieme donna e bambina, così come quei suoi occhi: “…ora spaventati, ora impertinenti e duri, ora allegri e fidenti”.

Vi è quindi in Laide una pluralità di volti che la rende attraente e seduttiva ma anche, e soprattutto, elusiva, essendo quei volti mai disgiunti da una consumata e perfida sapienza nell’ agire sia l’arte della fuga che più ferisce l’amato ma più lo lega a sé, sia una sorta di controdipendenza tanto più l’amato chiede e pretende, usando senza scrupoli l’inganno e le menzogne ogniqualvolta ciò si rende necessario. In una commistione quindi di ruoli e di atteggiamenti in cui i confini fra amica, amante, mercenaria, ma anche nemica, si confondono di continuo.

Dorigo quindi si trova invischiato in un legame che lo ingabbia, di cui diventa “schiavo” per tutte le dinamiche sin qui descritte, che vanno ben oltre l’attrazione sessuale che finisce per essere, anche per Dorigo, del tutto secondaria: ”Aveva sentito raccontare spesso di uomini, per lo più avanti nell’età, che diventano schiavi di una donna perché solo questa donna sapeva procurargli il piacere e le altre no. Una specie di stregoneria sessuale…Purtroppo ha capito che il suo caso è completamente diverso e di gran lunga più grave…No. Del possesso fisico ad Antonio, relativamente, importava ben poco. Se per esempio una malattia l’avesse costretta a non fare più l’amore, in fondo lui ne sarebbe stato felice.”

In realtà Dorigo è attratto da Laide proprio per quella sua vitalità intensa ma anche oscura, ricca e misteriosa, che fa di Laide una fonte di vita e, al tempo stesso, un’ entità perturbante non priva di una sua purezza: “Lui l’amava per se stessa, per quello che rappresentava di femmina, di capriccio, di giovinezza, di genuinità popolana, di malizia, di inverecondia, di sfrontatezza, di libertà, di mistero. Era il simbolo di un mondo…che fermentava di insaziabile vita…Era l’ignoto, l’avventura, il fiore dell’antica città spuntato nel cortile di una vecchia casa malfamata…E benché molti ci avessero camminato sopra, era ancora fresco, gentile e profumato…Non era una infatuazione carnale, era una stregoneria più profonda, come se un nuovo destino, a cui non avesse mai pensato, chiamasse lui, Antonio, trascinandolo progressivamente, con violenza irresistibile, verso un domani ignoto e tenebroso ”; “…in quella svergognata e puntigliosa ragazzina una bellezza risplendeva ch’egli non riusciva a definire per cui era diversa da tutte le altre ragazze come lei…Le altre al paragone erano morte.”

E sempre di più Dorigo sarà trascinato e si trascinerà in quella dinamica attrazione/distruzione, succube di quella continua attesa dei momenti in cui vedere e stare con Laide. E così mentre il tempo lineare e reale scorre e avanza inesorabile, il tempo di Dorigo si avvita su se stesso, come intorno ad una spirale alla quale si avvolge sempre uguale. Un tempo fatto di abietto servilismo, di sofferenze, di sorde gelosie, di fantasie tormentate e tormentanti, di contorsioni mentali, di impotenza e scoraggiamento per quell’ irraggiungibilità di Laide: “Come era vera, come era genuina, come era bella. Lui non l’avrebbe mai raggiunta”

Ma è proprio quell’irraggiungibilità di Laide che alimenta l’attrazione di Dorigo e reitera il suo desiderio. E’ quella infinita attesa che Laide diventi sua che riporta sistematicamente Dorigo da Laide, anche quando, esasperato, tenta di troncare. Ma Laide irraggiungibile com’è non farà che produrre e generare nient’altro che attesa. Quell’attesa che è nello stillicidio delle innumerevoli attese in cui Dorigo si consuma, snervandosi e sfibrandosi finché Laide non appare. Quell’attesa che come un moto incessante si manifesta nel testo a scandire varie forme e momenti del suo comparire, fino a diventare l’eco di qualcosa più grande e profondo: “Che interesse avrebbe una scogliera, una foresta, un rudere se non vi fosse implicita un’attesa”.

E questa accezione dell’attesa – che ci dice che in tutto ciò che ci fa trasalire è implicita l’attesa di penetrarne il mistero – prelude all’apparire del suo significato decisivo: l’attesa di un assoluto che diventerebbe liberatorio: “E attesa di che se non di lei, della creatura che ci potrebbe fare felici”. L’irraggiungibilità di Laide è perciò l’irraggiungibilità di quell’assoluto, di quella felicità destinata a restare inafferrabile, così come il mistero è destinato a restare impenetrabile. L’attesa in cui si dibatte Dorigo quindi non fa che riempire un vuoto, dando a quel vuoto un suo senso, ma dove è proprio l’eros ad essere assente e l’assenza della realizzazione sessuale non fa che rendere manifesta l’assenza dell’amore e con esso della felicità.

Ma questa evidenza dell’attesa come tema portante di “Un amore” evoca, inevitabilmente, “Il deserto dei Tartari” che si svolge tutto sul motivo dell’attesa. E non solo perché entrambi i romanzi si appoggiano su questo motivo ma perché lo fanno in modo analogo, reiterando quel motivo con modalità che procrastinano fino alla fine l’oggetto dell’attesa: “”Un amore” e “Il deserto” sono anzitutto entrambi la storia di un’attesa: il tenente Drogo attende che dal fondo degli spiazzi brulli avanzi il nemico…l’architetto Antonio Dorigo attende che Laide si trasformi o che egli stesso subisca un mutamento” (Giuliano Gramigna – “Prefazione” in Dino Buzzati – “Romanzi e racconti” – I Meridiani Mondadori – 1975 – p. XXXIII)

A differenza perciò di quanto si potrebbe pensare “Un amore” non è l’esito di un percorso che ha allontanato Buzzati dalla sua originaria ispirazione. Al contrario è una rivisitazione di quell’ispirazione che rivela come, a distanza di anni, sia rimasta intatta l’unità dei temi della sua opera, avvertendosi, caso mai, una difformità tra i due romanzi a livello della forma resa, in “Un amore”, funzionale all’oggetto e al clima narrativo: “ … se nella forma “Un amore” si differenzia alquanto dalle altre opere di Buzzati essendovi una sintassi caratterizzata da periodi molto lunghi e poveri o privi di punteggiatura, funzionale a caotiche sequenze di monologo interiore che tendono ad evidenziare le contorsioni mentali di Dorigo e i vissuti irrazionali a cui il clima di sospetto e di menzogna suscitatogli da Laide lo conducono, ben diverso è il discorso per quanto riguarda i contenuti di “Un amore” rispetto agli altri libri di Buzzati e in particolare rispetto a “Il deserto dei Tartari.”” (Nella Giannetto – “Il sudario delle caligini. Significati e fortune dell’opera buzzatiana” – Olschki Editore – 1996 – p. 173)

Ma quell’attesa che si protrae imperterrita, resta, per Dorigo, fonte di angoscia per l’incertezza continua e totale in cui egli vive, data l’assenza di punti di riferimento che Laide gli dà e che egli non trova in se stesso. E tuttavia quell’angoscia si rivela esistenzialmente potente dando a Dorigo quell’impulso ad andare avanti. E così se per l’irraggiungibilità di Laide la vita gli sfugge, rincorrendo Laide egli vive una sua tensione vitale, come un miraggio che mai si afferra eppure si è comunque spinti a inseguire e raggiungere. Perché Laide resta per Dorigo la proiezione di una fantasia, come ne percepisse una sua segreta essenza, inafferrabile ma, nondimeno, enigmaticamente presente, come una sfinge, sfuggente, ma che si cerca in tutti i modi di penetrare. E tanto più Laide è realisticamente descritta e indagata tanto più si rivela incomprensibile.

Ma in questo si avverte pienamente ciò che costituisce per Buzzati il senso stesso del vivere e dello scrivere, l’essenza della sua poetica: “In lui si muovono e si giustappongono, più che comporsi, la tendenza alla chiarezza del reale e il movimento verso la sua oscurità, il profilo delle cose e l’ombra che si allunga dietro di esse, la semplice presenza, il semplice suono e il vuoto del silenzio, l’inquietudine dell’eco…Il Buzzati scrittore non tanto dubita della realtà, che anzi ascolta ed interroga; la sente immersa in una diversa e più profonda realtà o almeno retta, governata da leggi e forze superiori, intravedibili, ma incomprensibili.” (Alvaro Biondi – “Il tempo e l’evento. Dino Buzzati e l’ “Italia magica”” – Bulzoni Editore – 2010 – p. 131)

E anche la città, cioè Milano, ha in “Un amore” questo duplice volto, dove alla frenesia e al movimento della realtà esteriore fa riscontro una realtà interiore cupa e misteriosa, equivoca e tetra. E Laide ne è l’incarnazione ricomprendendo in sé quella doppia natura che è anche la sua natura: “In lei, Laide, viveva meravigliosamente la città, dura, decisa, presuntuosa, sfacciata, orgogliosa, insolente. Nella degradazione degli animi e delle cose, fra suoni e luci equivoci, all’ombra tetra dei condomini, fra le muraglie di cemento e di gesso, nella frenetica desolazione”. La città diventa quindi un simbolo, una metafora di una condizione estraniante ed atomizzata. Descritta come uno “sterminio di formiche frenetiche” in quanto intrico di esistenze e di attività ma che per il singolo si rivela vuota: anch’essa, come quello dei “Tartari”, un deserto: “[La città] infatti come realtà d’uomini non esiste; esiste solo come caos dilatato di presenze umane ridotte a meccanismi” (A. Biondi – cit. p.114)

Fino a diventare luogo labirintico e claustrofobico nella descrizione di quel coacervo di vicoli e meandri che, ignoti e dimenticati, sembrano esprimere, nella loro irrealtà, un’ anima nera e segreta: ”In corso Garibaldi durava ancora ostinata…un’isola ancora intatta. E fra il numero 72 e il 74 c’era un passaggio sormontato da un arco, una specie di porta che immetteva in uno stretto e breve vicolo. C’era anzi una targa in pietra in cui era scritto: Vicolo del Fossetto. E’ così angusto l’ingresso della minuscola strada che la maggioranza dei passanti non se n’accorge nemmeno. Ma, dopo otto nove metri, il vicolo si allarga in una specie di piazzetta contornata da edifici decrepiti. E’ un angolo dimenticato, un labirinto di viuzze, anditi, sottopassaggi, piazzuole, scale e scalette dove si annida ancora una densa vita. Lo chiamano. chissà perché, la Storta”.

E come la città è fatta di meandri anche Dorigo si attorciglia sempre di più nei suoi meandri interiori, alla disperata ricerca di una salvezza: “…vorrebbe raggiungere la riva ma ha paura perché se raggiungesse la riva il fiume non lo trascinerebbe più e nel fiume, poco più avanti, fugge la Laide”. Ma perché questa paura di fermarsi e uscire definitivamente da tutto questo? Perché questa paura di raggiungere la riva e non seguire più il fiume e la Laide che pure dovrebbe essere per lui la salvezza?Perché se non c’è più niente da aspettare, se non c’è più il fiume da seguire, c’è solo la morte, ed è questa la grande paura.

Attendere Laide o che qualcosa con Laide succeda significa comunque vivere, mentre non avere più niente da attendere e da attendersi è la fine di tutto, è solo il vuoto e quindi la morte. Ed è questa la metafora e il senso profondo di “Un amore”. L’attesa, pur con tutte le sue angosce, è il movente di Dorigo per allontanare ed esorcizzare la morte. Raggiungere Laide e quindi la felicità è impossibile, ma perdere Laide toglie ogni speranza e con essa ogni impulso vitale come egli stesso riconosce allorquando se ne allontana tentando di “lasciarla”: “…c’era la speranza e le stesse lotte quotidiane, le attese i palpiti le telefonate riempivano l’esistenza era una lotta insomma una manifestazione di energia e di vita adesso non c’è più niente”. Procrastinare l’attesa significa quindi sfuggire a questo scacco. Perché per Buzzati la vita stessa è una lunga attesa, alla fine della quale vi è inesorabile la morte, ma senza quell’attesa non è dato vivere. E cercare di raggiungere ciò che ci diamo come oggetto della nostra attesa è l’aspirazione che dà a quell’attesa senso, pur nella consapevolezza che quell’aspirazione non è assolutamente certo che sarà raggiunta o che sia raggiungibile.

Né Giovanni Drogo, né Antonio Dorigo raggiungeranno ciò che essi hanno tanto lungamente atteso. Eppure, per entrambi, pur nell’assenza di contenuti evolutivi della loro attesa, pur nel tempo immobile del suo svolgersi, quell’attesa li ha protesi verso il futuro, verso un senso che in assenza di essa sarebbe stato preda del vuoto. Ma questa tensione verso il futuro, questa attesa del futuro è in Buzzati la grande metafora di quello che è il senso ultimo del vivere e dell’ esistere: “Pur partendo da situazioni diverse tutt’e due i personaggi (Drogo e Dorigo), nella vicenda dei rispettivi romanzi, vivono protesi verso il futuro. Le metafore narrative buzzatiane sono una continua domanda sul senso di questa costante tensione umana verso l’avvenire, sul significato di questa “esperienza dell’avvenire”…L’ intensità metaforica della narrativa buzzatiana, il suo valore di inchiesta esistenziale derivano appunto dal fatto che essa continuamente si interroga, tra angoscia e speranza, sul significato della irrinunciabile “aspettazione” nella quale viviamo.” (A. Biondi – cit. p.116)

Così come ne “Il deserto” non sono i Tartari il vero evento ma la morte alla quale il tenete Drogo andrà incontro non appena lasciata la fortezza Bastiani, cioè quando la sua attesa è finita, così in “Un amore” non sarà Laide l’evento ma sarà l’apparizione della morte, del simbolo della morte impresso in quella nera torre che si affaccia come una visione di fronte a Dorigo quando ormai la sua di attesa, quella di Laide, è anch’essa finita: “Nella notte si guarda intorno, Dio Dio cos’è quella torre grande e nera che sovrasta? …Della terribile torre…si era completamente dimenticato, la velocità il precipizio gli avevano fatto dimenticare l’esistenza della grande torre inesorabile nera…Adesso era lì di nuovo si ergeva terribile e misteriosa come sempre, anzi sembrava alquanto più grande e più vicina. Si l’amore gli aveva fatto completamente dimenticare che esisteva la morte. Per quasi due anni non ci aveva pensato neppure una volta, sembrava una favola…Tanta era la forza dell’amore. E adesso all’improvviso gli era ricomparsa dinanzi, dominava lui la casa il quartiere la città il mondo con la sua ombra e avanzava lentamente”

Quella funesta apparizione della torre segnerà la fine della narrazione ma anche la fine dei tormenti di Dorigo. Quel vortice di passione che lo aveva tenuto prigioniero si è sedato ed è svanito lasciandolo adesso solo di fronte a se stesso e a quel suo destino. Ma è stata ancora una volta Laide a determinare il destino di Dorigo. Il suo distacco da Laide, la sua fuoriuscita da quel meccanismo perverso, la fine della sua attesa saranno infatti la conseguenza del distacco e della fuoriuscita di Laide che, diversamente da Dorigo, trova un suo riscatto, una sua salvazione e si dà a sua volta una sua attesa nel segno della vita.

Laide risale dal fondo di quelle basse passioni di cui è stata partecipe e ritrova quel suo fondo di purezza che le appartiene e che le sopravvive, avendo scoperto di essere incinta e decidendo di vivere quella sua maternità: “E’ la sua ora, senza che lei lo sappia è venuta per Laide la grande ora della vita”. Come inesorabile avanza la morte, altrettanto inarrestabile pulsa la vita, in una circolarità non più involutiva ma dettata da ciò che vi è di più assoluto: il continuo alternarsi di vita e morte. Se in Antonio Dorigo il ripresentarsi dell’idea della morte segnerà quindi la fine della sua attesa e, con essa, della sua vita, Laide si troverà invece, nel pieno della sua attesa, dentro l’inizio di una vita e della vita. E la divaricazione dei destini di Antonio Dorigo e di Laide con tutti i suoi significati, che vanno persino oltre quelli già presenti ne “Il deserto dei Tartari”, rivela quanto ampia e profonda sia l’apertura metafisica di Buzzati nell’interrogarsi sul mistero del nostro esistere.

13 risposte a "“Un amore” – Dino Buzzati"

  1. Silvia Lo Giudice 6 luglio 2019 / 19:07

    L’avevo letto anni fa e, pur essendomi piaciuto, non lo ricordavo. È stato piacevolissimo “rileggerlo” raccontato da te. Visto che hai detto quasi tutto, spiegami meglio il finale. Perché questa biforcazione delle loro vite? Devo presumere che il figlio di Laide non sia di Dorigo? Dai, racconta.

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    • ilcollezionistadiletture 7 luglio 2019 / 10:14

      Di chi sia il figlio non si sa. Può essere presumibile che non sia di Dorigo ma non è rilevante. E’ invece rilevante che Laide scegliendo di vivere quella maternità fuoriesce da quella relazione e si autonomizza, lasciando Dorigo a se stesso e al suo destino. Ed è per effetto di questa scelta di Laide che si crea quella divaricazione vita/morte tra Laide che si proietta verso la vita e Dorigo che vede venirgli incontro la morte. E comunque tutto “Un amore” va letto per i suoi contenuti metaforici che vanno ben oltre i suoi contenuti narrativi. Spero di averti risposto esaurientemente.
      Grazie della visita e dell’apprezzamento altrettanto piacevolissimo.Ciao e buona domenica

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  2. Silvia Lo Giudice 7 luglio 2019 / 12:51

    Anche se ora che ci penso una paternità non può essere irrilevante. È piuttosto Laide, che essendo più forte, ha spezzato la catena e il povero Dorigo non ha più niente da aspettare se non la morte. Tu pensi che se fosse stato certo della paternità e Laide fossse stata disposta a condividerla con lui, Dorigo sarebbe crollato nell’attesa di morire? Certo non era il lieto fine che cercava Buzzati.

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  3. lapoetessarossa 23 giugno 2020 / 16:23

    Buongiorno. Ho letto da poco Un amore e cercando in rete qualche analisi mi sono imbattuta nella tua, molto interessante. Poi è un su un blog e mi permette un breve confronto.
    Buzzati racconta la storia di una ossessione d’amore. L’ossessione è il lato oscuro del desiderio. Un movimento vivo ma non vitale, un moto a luogo che porta all’annullamento di se stessi. L’ossessione non è il semplice chiodo fisso, è una sorta di morbo che insinua nella testa e contagia la persona intera, diventa ossigeno tossico, crea dipendenza, distorce la percezione del mondo, diventa lente attraverso cui passano tutti gli aspetti dell’esistenza.
    L’ossessione d’amore maschile ha questo aspetto di autodistruzione anche in altri romanzi (mi viene in mente Un amore senza fine di Scott Spencer, non so se lo hai letto, non ho curiosato tra i tuoi scritti).
    Buzzati è un maestro nel raccontarla. E’ il primo Buzzati che leggo e di conseguenza non posso intervenire sul confronto che fai con con Il deserto dei Tartari. L’attesa però è motore fervido talvolta, non ha il potere autodistruttivo dell’ossessione, è un respiro ampio, anche se trattenuto a lungo.
    Nel libro c’è un momento straniante in cui Buzzati passa dalla terza alla prima persona. E’ un momento magico e assoluto insieme. Una svista solo apparente. Si dice che la storia narrata abbia molto di autobiografico. Sono convinta che per raccontare un’ossessione di debba per forza averla vissuta, o subita ed essere riusciti ad uscirne. Scriverne è la cicatrice e ogni parola che ce la racconta un punto di sutura con la realtà.
    Grazie per il tuo tempo,
    ciao
    Silvia

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    • ilcollezionistadiletture 24 giugno 2020 / 8:05

      Ciao Silvia, grazie per la visita e per l’ apprezzamento.
      Indubbiamente, come dici, le ossessioni d’ amore portano con sé dolore e distruzione se di esse si diventa succubi non riuscendo a risolverle. Tuttavia nel caso di Dorigo quell’ ossessione, per quanto umiliante, finiva per tenerlo al mondo, dando uno scopo a una vita che altrimenti per lui si sarebbe svuotata di senso finendo per condurlo dritto al cospetto di quella nera torre simbolo della morte. Invece quell’ attesa che prima o poi qualcosa potesse accadere con Laide finiva per svolgere una funzione vitale. Come ho scritto nel commento: “Raggiungere Laide e quindi la felicità è impossibile, ma perdere Laide toglie ogni speranza e, con essa, ogni impulso vitale come egli stesso riconosce allorquando se ne allontana tentando di “lasciarla”. Procrastinare l’attesa significa quindi sfuggire a questo scacco. Perché per Buzzati la vita stessa è una lunga attesa, alla fine della quale vi è inesorabile la morte, ma senza quell’attesa non è dato vivere. E cercare di raggiungere ciò che ci diamo come oggetto della nostra attesa è l’aspirazione che dà a quell’ attesa senso, pur nella consapevolezza che quell’ aspirazione non è assolutamente certo che sarà raggiunta o che sia raggiungibile.”
      Questo romanzo, come tutta l’opera di Buzzati, va quindi “letto”, secondo me, in questa chiave metaforica. Sicuramente Buzzati conosceva bene gli effetti e le dinamiche delle ossessioni d’amore, però non credo che intendesse “analizzare” questo tema e scrivere un libro su di esso, quanto assumerlo come meccanismo emblematico di come il protendersi verso il futuro ognuno con le proprie attese è il senso ultimo del vivere e dell’ esistere. Ovviamente ognuno si dà le attese che vuole, che può, che crede, illusorie o meno esse siano, durevoli o meno esse siano.
      Grazie ancora. Ciao.
      Raffaele

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      • lapoetessarossa 24 giugno 2020 / 9:20

        Grazie per la tua risposta Raffaele. Tu hai un’ottima conoscenza della poetica e dei temi di Dino Buzzati. Per me è il primo che leggo e per giunta l’ultimo che lui ha scritto. La mia visione è molto più limitata e anche influenzata dalla mia “ricerca” sulle ossessioni d’amore in letteratura. A questo punto metto nella mia lista dei desiderata Il deserto dei Tartari, mi sembra doveroso. Buona giornata.

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  4. ilcollezionistadiletture 24 giugno 2020 / 14:33

    Grazie a te Silvia. Ottima scelta leggere “Il deserto”. In effetti Buzzati è uno scrittore più profondo di quanto appaia a prima vista. Ti consiglio anche i suoi racconti. Buone letture. Ciao. Raffaele

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  5. s. e. 8 novembre 2022 / 7:56

    Salve a tutti. Volevo domandare se la morte che compare alla fine del romanzo non significhi piuttosto la morte, in senso figurato, della Laide. Il fatto che lei aspetti un bambino e che voglia essere mamma, rappresenta il passaggio dalla vecchia Laide alla nuova Laide. Con questo finisce e muore l’amore di Dorigo, perché lui può amare solo la Laide che conosciamo all’inizio del romanzo.

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    • ilcollezionistadiletture 8 novembre 2022 / 10:12

      La fine dell’attesa (della Laide) spalanca di fronte a Dorigo lo spettro dell’attesa della morte in quanto Dorigo, come lei dice, non può che amare solo Laide dato che è solo con lei che egli può vivere quell’amore basato sull’ attesa che per Dorigo è il senso e il fine della sua vita.
      A sua volta Laide incarna il ciclo vita-morte perché ella darà la vita in quella “circolarità non più involutiva ma dettata da ciò che vi è di più assoluto: il continuo alternarsi di vita e morte”. Ma, in questo, come lei dice, vi è anche un morire (della vecchia Laide) e il rinascere (della nuova Laide), che è anch’essa un’ulteriore circolarità vita-morte all’interno del personaggio.
      Il discorso sulla morte, quindi, è più ampio della sola “morte in senso figurato della Laide”, tuttavia la ricomprende.
      Grazie per le sue considerazioni che consentono di arricchire ulteriormente la “lettura” di “Un amore”.
      Raffaele

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  6. Luca 20 dicembre 2023 / 7:33

    Forse negli anni 60 non era sviluppato ma in questo libro si delineano anche dei caratteri patologici. La Laide che mente con facilita’ e credibilita’ che non sembra avere remore a fare male, che non accetta nessuna responsanilita’, che vede tutto in funzione del suo io incarna il carattere della narcisista. Non so se Buzzati ne avesse conoscenza ma ha descritto benissimo questo carattere con cui tutte le relazioni sono tossiche. Il/la narcisista sfuttano le persone per i loro scopi soggiogandole. Hanno capacita’ di attirare in quanto spesso affascinano. Buzzati deve aver incontrato questa persona ma non aveva gli strumenti per capirlo e attuare i comportamenti di difesa. Antonio esprime un comportamento maschile che divinizza la donna. I momenti belli sono solo quelli in cui lei e’ presente. Il piacere di vederla. Questo e’ caratteristico del maschio che nel suo profondo ha il concetto di posesso e che non si rassegna quando gli sfugge. Si dice infatti “possedere una donna”. Il romanzo descrive questi aspetti caratteriali. Avendo questa chiave di lettura gli eventi sono molto chiari.

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