“Chiusi le tende della mia stanza, scrive Rudolf, presi parecchi sonniferi e mi risvegliai solo ventisei ore più tardi nella massima angoscia”. Questo è l’ excipit di Cemento. E, “angoscia”, ne è l’ultima parola. Ma la parola angoscia intesa nel suo pieno significato di oppressione dello spirito, di tormento, di ansia insopprimibile, quale essa appare nel contesto di quella frase con cui si chiude “Cemento”, non appare mai all’interno del testo.
Eppure è proprio l’angoscia, quell’angoscia intesa in quel suo pieno significato che ci viene narrata in “Cemento”, al punto da farsi tessuto connettivo del romanzo, accumulandosi senza soluzione e senza fine, laddove il suo esistere è conseguenza stessa dell’esistere. E quell’essere posta e detta a conclusione del romanzo la esplicita e al tempo stesso la riconosce, in tutta la sua inevitabilità e definitività, a prescindere dal contesto in cui essa è detta. A generare quest’angoscia – l’angoscia di Rudolf – è una perenne condizione di impossibilità a raggiungere lo scopo che ci si è prefissati pur nel continuo reiterarsi dei tentativi volti a raggiungere tale scopo, in un’ incessante spirale di fallimenti e di messe alla prova che producono nient’altro che fallimenti.
Il tema centrale di “Cemento” è infatti quello del compito, che deve essere eseguito ma che di fatto si rivela ineseguibile. Il compito che si autoimpone Rudolf, al punto da farne il compito della sua vita, è la stesura di un saggio sul compositore Mendelssohn Bartholdy (M.B.): “un lavoro progettato già da dieci anni e mai realizzato” così lo definisce Rudolf. Infatti ogni volta che si accinge a iniziare il suo lavoro si trova ad affrontare il problema della scrittura della prima frase e ogni volta si blocca sprofondando nella più assoluta disperazione: “mi tormentai per tutto il tempo…pensando alla prima frase da scrivere su M.B…continuavo a riflettere…disperato, alla prima frase del mio lavoro”, dice Rudolf, descrivendo il suo stato d’animo quella mattina, “esattamente il ventisette di gennaio” quando, – “dopo la partenza, stabilita per il ventisei, di mia sorella, la cui presenza di settimane a Peiskam aveva subito annientato sul nascere anche il più piccolo pensiero di un inizio del mio lavoro su Mendelssohn Bartholdy”, data la “sua morbosa tirannia” – si era prefisso di cominciare la stesura del suo saggio.
Ma, nonostante quelle sopraggiunte favorevoli condizioni, sopravviene quel blocco con i suoi relativi sintomi: “Continuai a dirmi mi calmerò e comincerò, ma quando l’ebbi detto per la centesima volta e proprio non riuscivo più a smettere, mi arresi. Il mio tentativo era fallito”. E così, ogni volta che Rudolf si appresta a mettere per iscritto “qualcosa su Mendelssohn Bartholdy” sorge un impedimento, come attesta esemplarmente la vicenda della sorella. Prima, tale impedimento, è attribuito alla sua presenza, ma poi insorge anche in sua assenza. Ma l’impossibilità del darsi di quella prima frase è, in realtà, l’impossibilità di mettere un punto fermo di fronte alle innumerevoli prime frasi che si presentano a Rudolf. Di stabilire cioè qual’è, tra le possibili prime frasi, l’unica possibile. Dice infatti a un certo punto Rudolf: “Non mi addormentai fino alle tre di mattina, pensavo al mio lavoro, rinviato di dieci anni, prorogato, pensavo, e come lo comincerò la mattina, con quale frase e di colpo avevo in mente una serie di cosiddette prime frasi”.
Eppure, come abbiamo visto nell’excipit, “Rudolf scrive” e, altrettanto, è detto da subito nell’incipit. Estremità del testo che ne racchiudono e ne designano l’azione, essendo “Cemento” il resoconto scritto da Rudolf di una sequenza di pensieri, riflessioni e fantasie che, a partire dalla questione della stesura del saggio su M.B, toccano e affrontano innumerevoli aspetti della sua vita e innumerevoli considerazioni, in un flusso monologante e ininterrotto.”Una situazione comunicativa simile a quella del monologo interiore” la definisce Luigi Reitani nella sua postfazione, “e come nel monologo interiore” – egli aggiunge – “il personaggio occupa tutta la scena, presentandosi al lettore senza alcun filtro”.
Ma, attestato che “Rudolf scrive”, ne deriva un paradosso tipicamente bernhardiano e cioè che l’azione di “Cemento” è lo scrivere di Rudolf sulla sua impossibilità di scrivere. Ma, soprattutto, è lo scrivere di Rudolf sulla impossibilità di mettere un punto fermo, di stabilire cioè tra le innumerevoli possibili prime frasi, l’unica possibile e, di conseguenza, lo scrivere di Rudolf diventa lo scrivere del fallimento di quella possibilità. Ma scrivendo sul suo non riuscire a scrivere, descrivendo cioè il suo fallimento Rudolf dà un senso a quel fallimento, lo mette in scacco. Non scrivendo il saggio su M.B. Rudolf – di fatto – ne rivela la sua intrinseca assenza di senso. Perché il senso inteso come totalità, come assoluto, come perfezione e compiutezza, come verità, – Rudolf infatti definisce il suo saggio “un’impresa quale la stesura di un vasto lavoro scientificamente inappuntabile” – non solo è impossibile da raggiungere: non se ne riesce a stabilire neanche la prima frase ma, proprio per queste sue pretese, rivela tutta la sua inautenticità.
Laddove il fallimento, in quanto unico esito possibile dell’irrealizzabilità del compito, esprime il massimo di autenticità. E Rudolf stesso, in un ennesimo paradosso, è proprio per la “geniale incompiutezza” di quell’opera di M.B.: “I commedianti girovaghi”, che motiva la sua attrazione per M., descrivendo quel brano come “…un brano e un’esecuzione che hanno avuto su di me un effetto basilare. Allora non avevo saputo perché questo brano fosse stato così penetrante, oggi lo so. Per la sua geniale incompiutezza”.
E pur tuttavia è all’interno di questa ricerca del senso irraggiungibile ma al tempo stesso inevitabile nel suo essere perseguito, che si muove Rudolf. E’ stando dentro questo meccanismo e al tempo stesso svelandone implicitamente l’inganno che egli agisce. L’opera quindi non può essere scritta eppure deve essere scritta. Rudolf persevera, non desiste, quasi andando contro se stesso. Ed è in questo contrasto, in questa opposizione che egli vive ed è solo in tale contrasto irrisolto e irresolubile che può vivere, “Giacché” – come scrive Reitani nella postfazione – “la conclusione, o forse solo l’inizio del lavoro su M.B. lo priverebbe dell’unica ragione d’esistere…I percorsi di Bernhard sono labirintici, necessariamente. L’impossibilità di scrivere è la ragione stessa dello scrivere” e, aggiungerei, anche dell’esistere.
Ma qui il confine tra opera e vita è sottilissimo. Sentire la necessità di scrivere esprime una pulsione vitale, significa cioè sentire la necessità di vivere, così come constatare il non senso di quello scrivere significa, in ultima istanza, decretare l’inutilità del vivere. E’, in altre parole, il non rinunciare a vivere pur conoscendone l’inutilità. Dice infatti Rudolf: “…mi chiedevo se avesse poi senso iniziare ancora un lavoro come quello su Mendelsshon Bartholdy. Da un lato mi dicevo che iniziare un lavoro del genere è assurdo, dall’ altro mi dicevo tu devi iniziare questo lavoro, costi quel che costi…Mi dicevo alternativamente, nulla giustifica un simile lavoro e tutto giustifica un simile lavoro. La cosa migliore era spostare più in là la domanda sul senso o nonsenso di un tale lavoro, lasciar perdere e la lasciai perdere e mi comportai come se fossi deciso a iniziare veramente il lavoro al più presto possibile”
E, di fatto, analogo ragionamento Rudolf fa sul senso dello stare al mondo: “Se conosciamo davvero il mondo, è un mondo ormai pieno solo di errori. Eppure ci separiamo malvolentieri da lui, perché nonostante tutto siamo rimasti abbastanza ingenui e infantili pensavo” Così come l’inesorabilità del fallimento non esclude il darsi delle aspirazioni: “Noi falliamo sempre anche perché abbiamo posto la misura di qualche centinaio di percentuali più alta rispetto a quanto ci si addice. E vediamo, se vediamo, ovunque e in qualsiasi direzione volgiamo lo sguardo, solo dei falliti che hanno posto la misura troppo in alto. Ma d’altronde, penso, dove arriveremmo se ponessimo costantemente la misura troppo in basso?” E, infine: “Per tutta la vita continuiamo a mettere un punto fermo, pur sapendo che non siamo in condizione di farlo”.
Il tema della scrittura e della sua irriducibilità al senso, ma anche della sua non riducibilità al non senso, si trasferisce nel contesto di “Cemento” sul terreno dell’esperienza, della vita vissuta, nella distanza che separa Rudolf sia dal personaggio della sorella che incarna nella sua compulsiva aspirazione al successo, al danaro e al potere un agire spaventosamente privo di senso eppure aderente al più bieco conformismo sociale e come tale ferocemente proteso all’espulsione dell’idea stessa di un non senso dell’esistenza, sia da Anna Hardtl, la giovane e disperata ragazza tedesca in relazione alla quale, alla fine del romanzo, Rudolf rievoca l’incontro avuto con lei a Palma di Maiorca, – luogo in cui si svolge anche la stesura del suo resoconto – durante una delle sue precedenti permanenze sull’isola e di cui racconta la allucinante vicenda di cui la ragazza è stata vittima e la scoperta che egli fa del suo suicidio, che si configura, di fatto, come uno scegliere la morte di fronte al non senso insito nella sua vicenda e di cui quella vicenda rivela tutto il dominio.
Rudolf quindi rifiuta sia il lasciarsi vivere nella menzogna di un senso che non c’è, come fa la sorella, dominata come essa è dalle false apparenze e dalla falsa coscienza, sia abdicare al non senso che è si la verità, ma a cui, rinunciando a vivere, si finirebbe per dargliela vinta, laddove il compito, il vero e unico compito possibile è ammetterlo e riconoscerlo e così facendo smascherarlo giacché come ci ricorda Reitani, “<<Ciò che conta>> scriveva Bernhard <<è il contenuto di verità della menzogna>>. Agire quindi “come se” la meta fosse raggiungibile, “come se” il senso potesse essere colto, nell’assoluta consapevolezza del fallimento di questo compito.
La scelta del lavoro intellettuale che diventa il lavoro della vita si configura quindi come l’unico ambito di autonomia di Rudolf, al cui interno Rudolf può esistere e, alimentandolo all’infinito ne può rivelare tutta l’impossibilità della sua definitività e quindi la sua vera verità. E quanto questo lavoro intellettuale tenga al mondo Rudolf egli stesso lo esplicita. Dice infatti Rudolf riflettendo su Anna Hardtl: “Quando incontriamo una persona come la Hardtl, così infelice, ci diciamo subito che noi non siamo così infelici come crediamo, dopotutto abbiamo un lavoro intellettuale”. Ma così facendo il prezzo da pagare è molto alto, decidere di opporre resistenza significa esporsi alla sofferenza per le conseguenze che quella scelta implica. Dice infatti Rudolf: “Come siamo fragili, ho pensato, ci riempiamo tutti la bocca di paroloni e ci vantiamo quotidianamente e costantemente della nostra durezza e del nostro intelletto e da un momento all’altro ecco il voltafaccia e dobbiamo soffocare il pianto che ci sale dentro”.
Perché darsi un compito infinito ed esclusivo, significa darsi un compito severo ed estenuante, logorante e ingrato che implica isolamento e solitudine e conduce fuori dal perimetro sociale, obbligando ad un continuo confronto ed accoppiamento con se stessi, come, a tal proposito constata Rudolf: “ormai vivo solo nell’autosservazione e nell’autocontemplazione e perciò naturalmente nell’autocondanna e nell’autodenigrazione e nell’autoderisione. Vivo da anni in questo stato di autocondanna, di autodenigrazione e di autoderisione…Io non voglio nient’altro che lo stato in cui mi trovo, che conduce direttamente fuori dal mondo, pensavo, cosa che però realmente non osavo dire a me stesso, trasferirsi, fuori, io gioco con questo stato e gioco con questo stato per tutto il tempo che voglio”.
In “Cemento” il compito dello scrivere si trasforma quindi nel compito dello scrivere su di sé, di una narrazione sugli ingranaggi dell’esistenza e della propria esistenza al suo interno. Il naufragio del tentativo della scrittura su M.B. diventa l’occasione e il mezzo per affrontare un’urgenza e una necessità superiori che invadono il campo narrativo e lo occupano e cioè il confronto con la propria esistenza che è quella di Rudolf ma che, palesemente, è, al tempo stesso, quella di Bernhard, essendo la specularità Rudolf – Benhard del tutto evidente. E ciò non solo perché, come osserva Reitani “Bernhard ha inserito nella figura di Rudolf non pochi particolari autenticamente autobiografici”, di cui, sempre Reitani ci fornisce un puntuale e articolato elenco, ma perché, assai più significativamente, “Cemento” si presenta come un romanzo confessione, un romanzo autobiografico in senso esistenziale.
Rudolf scrivendo su di sé, consente a Bernhard di scrivere su di sé e di dare il senso della sua esistenza, ma anche di poterne mettere a fuoco il suo non senso con tutta la sincerità, la spietatezza e l’umanità che questo implica. Fa egli infatti dire a Rudolf: “Io non sono certo la persona insensibile che taluni vedono così perché vogliono vedermi così, perché molto spesso mi mostro così, perché molto spesso non oso mostrarmi così come sono. Ma come sono? L’autoanalisi mi aveva nuovamente catturato”
Per cui, come afferma Reitani, “scrivendo il romanzo dell’autosservazione e dell’autoderisione, il romanzo della solitudine come difesa dal mondo, Bernhard scriveva il suo romanzo della maturità, il romanzo dello scrittore come “uomo che invecchia”, dell’artista che, ormai affermato, colpito dai primi sintomi di una malattia mortale, sente il bisogno di tracciare un quadro della propria situazione, dei propri rapporti con il mondo, calandosi nella maschera di una controfigura letteraria. Si ha quasi la sensazione che Beton [“Cemento”] abbia, nell’opera complessiva di Bernhard, la stessa funzione che ha un autoritratto negli anni della maturità: un momento di ridefinizione del proprio lavoro, la ricerca di nuovi strumenti creativi. E’ come se l’autore mescolando realtà e finzione, si fosse divertito a creare un gioco di specchi, di prospettive incrociate, che ritraggono sé e la realtà, la letteratura e il mondo, celando e mostrando al tempo stesso la verità dell’esistenza.”