“Il levitatore” – Adrián Bravi

Winfried Sebald in quella sua bellissima raccolta di “profili” di alcuni autori a lui cari che ha per titolo “Soggiorno in una casa di campagna”, dedica uno di tali “profili” ad uno degli autori da lui più amati: Robert Walser del quale ne dà questa descrizione: “Robert Walser era nato, credo, per un viaggio silenzioso…un viaggio nell’aria. Sempre…egli vuole innalzarsi oltre la pesante vita terrena, vuole dileguarsi tacito e lieve in direzione di un mondo più libero.” (W. Sebald – “Le promeneur solitaire. In ricordo di Robert Walser” in W. Sebald – “Soggiorno in una casa di campagna” – Adelphi – 2012 – p. 135). Ebbene queste stesse parole che Sebald riferisce al modo di porsi di Walser nella sua vita e nelle sue opere potrebbero essere dette, ancor più appropriatamente, con riferimento al personaggio di Anteo Aldobrandi, il protagonista de “Il levitatore” di Adrián Bravi. In quanto Anteo non solo con lo spirito ma anche con il corpo tende a sollevarsi da terra giacché è dotato, in modo naturale, della capacità di levitare cioè di staccarsi dal terreno restando sospeso, in quella condizione di “sgravitato”, in modo stabile. Ad Anteo infatti non occorre sollevarsi di tanto; seduto sul suo cuscino preferito ed incrociate le gambe, per lui “…l’importante…è riuscire a staccarsi e a mantenere una propria stabilità.”

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“Da quando sono nato” – Maurizio Salabelle – Seconda parte

Patrizio Rhuggi, il protagonista di “Da quando sono nato”, nasce in un brutto momento, potremmo dire già nel segno della sfiga. Infatti il giorno in cui nasce il padre aveva appena dovuto chiudere definitivamente i suoi negozi di accessori a causa della perdita del portafogli. Che, detto così, sembra un bel po’ sproporzionato ma non ci si deve sorprendere perché qui le sproporzioni, le esagerazioni, le iperboli impazzano. Basti dire che veniamo messi pure al corrente che i Rhuggi, a quell’ epoca, abitavano a novecento chilometri dal capoluogo che, in effetti, è una distanza un bel po’ siderale da un capoluogo. Ma la perdita di quel portafogli fu davvero per il padre di Patrizio una disgrazia seria perché significò la perdita di quell’ “…affare fondamentale” che lo farà piombare di colpo nel fallimento. Il quale, cioè il fallimento, fin dall’ inizio della storia fa dunque la sua apparizione.

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“Da quando sono nato” – Maurizio Salabelle – Prima parte

Quando lo scorso mese di ottobre Marisa Salabelle, sorella di Maurizio Salabelle, ha annunciato, sul suo blog, l’ uscita, avvenuta il 18 ottobre, di un nuovo romanzo di Maurizio Salabelle dal titolo “Da quando sono nato”, ho provato un immediato moto di contentezza. Perché Maurizio Salabelle è un autore che ho amato e amo molto, di cui ho letto tre dei suoi precedenti romanzi e cioè: “Un assistente inaffidabile” e “La famiglia che perse tempo” – dei quali ho parlato qui nel mio blog – e “Il maestro Atomi”. La contentezza era ovviamente dovuta alla prospettiva di leggere un nuovo libro di Maurizio Salabelle ma, in essa, vi era anche la sorpresa per l’ inattesa notizia dell’ esistenza di questo nuovo libro. Perché, per coloro che non lo sapessero, Maurizio Salabelle è deceduto, prematuramente, nel 2003 a soli 43 anni e, da allora, era uscito un solo romanzo postumo: “La famiglia che perse tempo”, nel 2015, che ritenevo fosse anche l’unico e l’ ultimo rimasto da pubblicare dopo la sua morte. Scoprire a distanza di otto anni da quell’ uscita e a vent’anni dalla sua morte che c’era un altro suo romanzo rimasto inedito è stata più che una sorpresa, è stato come se avessi ricevuto un regalo insperato.

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“I superflui” – Dante Arfelli – Seconda parte

“I superflui” ruota fondamentalmente intorno a un tema, il tema della mancanza. Che non è solo una mancanza di tipo materiale, che pure è fortemente presente e condiziona pesantemente le vite dei protagonisti, ma è, soprattutto, una mancanza di possibilità. Come se le risorse, sia quelle interne: del loro bagaglio personale ed esistenziale, sia quelle esterne provenienti dalla società, dal mondo, dagli altri, non fossero loro date, lasciandoli quindi, come detto, privi di possibilità. In altre parole come se i protagonisti del romanzo fossero costituzionalmente in una loro condizione di debolezza sia soggettiva che rispetto alle opportunità, che ne fa degli esclusi, degli emarginati, per l’ appunto dei “superflui”. Persone cioè la cui esistenza è segnata dall’ irrilevanza, dalla marginalità e i cui tentativi di uscire da quella loro condizione risultano inutili, perché quella loro condizione gli ritorna addosso, li accompagna sempre, ne segna la vita e il destino.

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“I superflui” – Dante Arfelli – Prima parte

“… questa era la città…era un essere immenso che lo premeva da tutti i lati, lo spingeva, gli gridava di muoversi, con la voce irosa di un facchino, con il clacson di un’automobile, con lo scampanellio di un tram. In cento modi gridava, in cento modi lo incalzava. Era la città che lui stesso si era scelta. Ma proprio lui se l’era scelta? Pensandoci bene, no. Anche qui era stata una serie di minimi avvenimenti, oggi uno domani un altro, poi un altro ancora che lentamente l’avevano staccato e portato via dal paese. Si accorse per la prima volta che sono le cose piccole quelle che contano, non le grandi. Le grandi sono il risultato di migliaia e migliaia di minuzie che ora per ora, giorno per giorno, lavorano tenaci, accanite e preparano il colpo finale.”

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“Ferragosto” – Daria Menicanti

Daria Menicanti – “Ferragosto” – Prefazione di Marco Marchi – Edizioni “Lunarionuovo” – 1986

«La poesia di Daria Menicanti, priva degli strombazzamenti critici di cui godono normalmente i poeti [alla moda], pare a me, nella sua nuda semplicità e sincerità, una delle più vive e schiette dei nostri giorni». Così scriveva Sergio Solmi, nel 1978, suggerendo di inserire l’opera poetica di questa poetessa nella tradizione della «poesia d’ogni tempo, dai primi lirici greci fino a Leopardi», che si articola sempre «nei suoi poli fondamentali di amore-morte»….Le radici più vitali di questo suo prezioso discorso lirico affondano nella Milano banfiana, dove un’eletta schiera di intellettuali, poeti, scrittori, filosofi, pedagogisti, artisti e musicologi (come Dino Formaggio, Remo Cantoni, Enzo Paci, Antonia Pozzi, Maria Corti, Vittorio Sereni, Giovanni Maria Bertin, Luigi Rognoni, Renato Birolli, etc. etc.) si è formata alla scuola di un razionalismo critico che ha saputo nutrirsi al dibattito europeo ed internazionale senza trascurare il confronto con la tradizione dei classici….Lo spessore critico di questa sua formazione feconda la sua biografia intellettuale,…in cui, per dirla con Sereni, il lettore penetra in «un limpido canzoniere, sempre leggibile come un canzoniere d’amore e sempre capace di ribaltarsi, con poco più di un docile fruscio, in un canzoniere di morte».

(Libera riduzione dalla “Sinossi” di: Daria Menicanti – ““Il concerto del grillo” – L’opera poetica completa con tutte le poesie inedite” – a cura di: Brigida Bonghi, Fabio Minazzi e Silvio Raffo – Mimesis – 2013)

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“La vendetta” – Agota Kristof

“La vendetta” raccoglie 25 racconti brevi, anzi brevissimi, di Agota Kristof pubblicati nel 2005 prima in Francia poi da noi, presso Einaudi, che li ha riediti nel 2009 e nel 2017. Sebbene pubblicati molto dopo l’uscita dei tre libri che compongono la “Trilogia della città di K.” – il romanzo della consacrazione della Kristof, che l’ha resa famosa, leggendaria ed indimenticabile per tanti dei suoi lettori, libri usciti rispettivamente nel 1986: “Il grande quaderno”, nel 1988: ” La prova”, nel 1991: “La terza menzogna” e confluiti definitivamente nel 1998 ne la “Trilogia” – questi racconti, in realtà, risalgono agli anni settanta, a molto prima quindi dei libri della “Trilogia”, e furono le prime cose scritte dalla Kristof in francese. Da quando cioè, fuggita dall’Ungheria nel ’56, arrivò e si stabilì, dopo varie vicissitudini, a Neuchatel nella Svizzera francese, divenendo quello, da quel momento, il definitivo luogo di quel suo volontario esilio. E in cui, altresì, iniziò il suo apprendistato con il francese che diventerà la sua lingua “letteraria”, quella che utilizzerà, da allora in poi, per scrivere.

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“Racconti d’amore” – Ivan Bunin

D. “Serena Vitale, lei ha scritto che Bunin è stato “l’ultimo classico”; spesso la critica ne ha accostato il nome a quello dei grandi autori russi, Čechov su tutti. Ci potrebbe spiegare la sua definizione ed il rapporto dell’autore con quella grande tradizione letteraria?”

R. “Classici, secondo la famosa definizione di Italo Calvino, sono i libri che non finiscono mai di dire quel che hanno da dire… Di più: ostile al modernismo, Bunin era orgoglioso di scrivere nel solco della grande tradizione ottocentesca del suo paese – da Tolstoj a Čechov, appunto.”

(Da un’intervista a Serena Vitale apparsa sul sito “raicultura.it” nel luglio 2020)

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“L’uomo della sabbia e altri racconti” – E.T.A. Hoffmann

Hoffmann palesa un’arte inimitabile, originalissima nel presentare il vuoto dell’anima ed il vuoto del mondo come magicamente intercomunicabili e addirittura identici; e la loro commutazione ed identificazione avviene attraverso un gioco fantastico d’inesauribile complessità e di strabiliante rapidità, per cui in ogni attimo dobbiamo chiederci quasi storditi che cos’è ciò che in quell’attimo sta davanti ai nostri occhi.” (Ladislao Mittner)

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“La finestra della biblioteca” – Margaret Oliphant

Nella raccolta postuma di poesie in prosa di Charles Baudelaire, nota con il titolo “Lo spleen de Paris”, pubblicata per la prima volta nel 1869 e composta da cinquanta componimenti, ve ne è uno, il trentacinquesimo, che ha come titolo “Le finestre”, il cui incipit così recita: “Chi guarda dal di fuori attraverso una finestra aperta non vede mai tante cose quanto colui che guarda una finestra chiusa…Quanto si può vedere al sole è sempre meno interessante di quanto avviene dietro un vetro. In quel buco nero o luminoso vive la vita, sogna la vita, soffre la vita”. L’ “invisibile” racchiuso in una finestra chiusa, ci dice Baudelaire, può suscitare ed evocare in noi un tale surplus di “visibile” da renderlo assai più potente ed attraente di ciò che si può vedere da una finestra aperta. Le possibili “rappresentazioni” che si possono generare nell’osservare quella finestra chiusa non afferiscono ovviamente ai principi della logica e della ragione ma a un insieme di impulsi, di proiezioni, di fantasie, di aspettative, di immagini, di idealizzazioni, di trasposizioni, di vissuti e di desideri che affondano nella nostra psiche e nella nostra mente. Ed è tale insieme che conduce al determinarsi di una superiore forza dell’ “invisibile” rispetto al “visibile”, con la conseguenza che la “visione” – che è il prodotto dell’ invisibile – finisce per essere più catturante della stessa vista che ci fa vedere il visibile.

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