Nella raccolta postuma di poesie in prosa di Charles Baudelaire, nota con il titolo “Lo spleen de Paris”, pubblicata per la prima volta nel 1869 e composta da cinquanta componimenti, ve ne è uno, il trentacinquesimo, che ha come titolo “Le finestre”, il cui incipit così recita: “Chi guarda dal di fuori attraverso una finestra aperta non vede mai tante cose quanto colui che guarda una finestra chiusa…Quanto si può vedere al sole è sempre meno interessante di quanto avviene dietro un vetro. In quel buco nero o luminoso vive la vita, sogna la vita, soffre la vita”. L’ “invisibile” racchiuso in una finestra chiusa, ci dice Baudelaire, può suscitare ed evocare in noi un tale surplus di “visibile” da renderlo assai più potente ed attraente di ciò che si può vedere da una finestra aperta. Le possibili “rappresentazioni” che si possono generare nell’osservare quella finestra chiusa non afferiscono ovviamente ai principi della logica e della ragione ma un insieme di impulsi, di proiezioni, di fantasie, di aspettative, di immagini, di idealizzazioni, di trasposizioni, di vissuti e di desideri che affondano nella nostra psiche e nella nostra mente. Ed è tale insieme che conduce al determinarsi di una superiore forza dell’ “invisibile” rispetto al “visibile”, con la conseguenza che la “visione” – che è il prodotto dell’ invisibile – finisce per essere più catturante della stessa vista che ci fa vedere il visibile.
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