“La guardia bianca” – Michail Bulgakov

Se il nome di Michail Bulgakov è comunemente associato a quello che è indiscutibilmente il suo romanzo più famoso e più importante – esito di un lavoro creativo imponente, non per niente durato dodici anni – che è “Il Maestro e Margherita”, vi è, all’interno dell’opera di Bulgakov, un altro grandissimo romanzo: “La guardia bianca” che sebbene abbia “subito” la fama universale de “Il Maestro e Margherita”, godendo di una notorietà inferiore, ha in realtà un’altrettanto altissima levatura, tale da poter essere considerato, insieme a “Il Maestro”, una vetta assoluta dell’opera di Bulgakov. Tale accostamento di giudizio ha riscontro nel fatto che in entrambi questi romanzi, pur avendo essi riferimenti e contenuti profondamente diversi, la “densità” della tensione e delle tensioni, nonché quella poetica, che li attraversa è così forte e profonda da porli, a livello di potenza e di originalità espressiva, su un analogo piano. E’ perciò, da questo punto di vista, condivisibile affermare che “Esiste un Bulgakov “maggiore”, ed è il Bulgakov della “Guardia bianca” e del “Maestro e Margherita”, ed un Bulgakov che possiamo convenzionalmente e con tutte le cautele del caso, definire “minore”, ed è il Bulgakov delle rimanenti opere” (1)

La guardia bianca” è il primo romanzo di Bulgakov la cui pubblicazione era iniziata nel 1924 sulla rivista “Rossija” e proseguita, sulla stessa rivista, l’anno successivo, rappresentando quel biennio per Bulgakov un periodo di particolare creatività espressiva avendo egli scritto, a cavallo di quei due anni, anche due dei suoi racconti più famosi e riusciti: “Uova fatali” (1924) e “Cuore di cane” (1925). Ma sarà proprio nel corso del 1925 che le cose per Bulgakov e per “La guardia bianca” prenderanno una piega sfavorevole. La rivista “Rossija” che aveva pubblicato la prima e la seconda parte del romanzo – e che avrebbe dovuto pubblicarne la terza ed ultima parte – nel corso di quell’ anno chiuse i battenti e il dattiloscritto non fu più restituito a Bulgakov, andando, di fatto, perduto. Da quel momento de “La guardia bianca” circolarono edizioni “monche” o con finali “aggiunti” senza l’autorizzazione dell’autore: “Nel 1927 le prime due parti del romanzo vennero pubblicate in volume a Parigi per la casa editrice Concorde…senza un finale, che venne invece aggiunto a opera dell’editore nella versione pubblicata quello stesso anno a Riga, finale costruito sulla base del testo del dramma teatrale…”(2) che Bulgakov aveva scritto nel 1926 con il titolo “I giorni dei Turbin”, che era la riduzione teatrale de “La guardia bianca”.

Ma nel 1929 fu lo stesso Bulgakov a riprendere in mano il romanzo “…e per una nuova edizione parigina aggiunse una conclusione che, da quel momento, è stata sempre considerata quella “ufficiale”” (3) che, infatti, è quella presente in tutte le edizioni de “La guardia bianca” e a cui anche in questo commento si farà riferimento. Tuttavia “Va anche detto che nell’archivio di Bulgakov non è mai stato rinvenuto il manoscritto originale della Guardia bianca: ma a partire dal 1986 hanno cominciato a venire alla luce frammenti sempre più completi di versioni precedenti al finale del 1929…raccolte per la prima volta in volume nel 1993. È stato in questo modo possibile ricostruire una versione del finale originario del testo”. (4) Tale versione è pubblicata nell’ edizione de “La guardia bianca” edita nel 2011 dalla Feltrinelli nell’ “Universale Economica” – I CLASSICI, con traduzione e cura di Serena Prina, nella quale è comunque presente anche la versione finale “ufficiale”.

La guardia bianca” è un romanzo attraversato da un insieme di lacerazioni dirompenti che, a partire da quelle che si verificano come conseguenza delle violenze prodotte dalla Storia, investono e invadono le vite dei protagonisti determinando esiti la cui intensità e vastità li travolgerà. Su tutto il romanzo incombe infatti, come un metatesto che lo avvolge e lo incalza, la dimensione della “tempesta” di una condizione cioè di sovvertimento generale delle cose e di loro totale non dominabilità, tale da creare un senso dilagante di rovina. La scelta di Bulgakov di porre in epigrafe al romanzo un passo tratto da “La figlia del capitano” di Puškin, in cui si evoca espressamente una tempesta è, in tal senso, emblematico:

Cominciò a cadere una neve minuta e ad un tratto si mutò in grandi fiocchi. Il vento ululò, cominciò la tempesta di neve. In un attimo il cielo buio si confuse col mare di neve. Tutto scomparve.

– Ah Signore, – esclamò il cocchiere: – sventura: la tempesta di neve!”.

Ma la descrizione di quella tempesta di neve, metafora della tempesta storica e umana che si svolge ne “La guardia bianca”, evoca e contiene, a sua volta, una dimensione ad essa contigua e cioè quella del turbinio in cui le cose si vengono a trovare all’interno della tempesta. Cioè del loro muoversi come schegge di cui non si riesce a capire e a stabilire la direzione, dando luogo ad uno stato di confusione simile a quello che suscita, nel brano di Puškin, il vorticare dei fiocchi di neve che, confondendosi con “il cielo buio”, fa scomparire ogni cosa. E di questo turbinio delle cose prodotto dalla tempesta che si è scatenata saranno vittime, in prima persona, i protagonisti del romanzo, i fratelli Turbin: Aleksej, il primogenito, di ventotto anni; la sorella Elena di ventiquattro anni e il fratello minore, Nikolaj, di diciassette anni.

Il ruolo dei Turbin all’interno del romanzo è fondamentale per più aspetti. In primo luogo perché è dal loro punto di vista che Bulgakov racconta le vicende così come esse si svolgono. Ed è un punto di vista ben preciso in quanto esso corrisponde a quello di coloro che alla fine risulteranno i vinti sulla scena della Storia, condannati ad una inesorabile decadenza, ma che, non necessariamente, come vedremo, risulteranno vinti sul piano morale. Laddove l’essere i perdenti non significherà per i Turbin incarnare figure negative. Ma tale loro ruolo è altresì rilevante perché essi impersonano quella che è la lacerazione di fondo che sta alla base del romanzo che è storica ma è anche valoriale, nonché umana ed esistenziale e cioè quella fra un mondo con i suoi valori etici e culturali, le sue convenzioni e convinzioni, il suo modo di stare al mondo, considerati quasi come fossero intrinseci alla stessa natura umana, di cui i Turbin sono espressione e un mondo completamente nuovo che travolgerà quello precedente. Qui però, sia chiaro, non è oggetto del romanzo l’instaurare una gerarchia in termini di giudizi di valore fra un mondo e un altro. Né tanto meno si può ascrivere “La guardia bianca” alla categoria del romanzo storico sebbene le vicende narrate siano incastonate in un ben preciso “momento” storico di cui Bulgakov ci dà ampiamente conto. In realtà qui egli rappresenta ben altro e cioè come quel “momento” si riverbera sulla vita e sull’ esistenza, come esso “entra” a sovvertire ciò che sembrava immutabile facendolo diventare tragicamente transeunte.

Ma come, soprattutto, un mondo fatto di affetti, sensibilità, regole, principi, si scopra annientato e si ripieghi dolorosamente e irreversibilmente su se stesso, segnando, per chi ne sarà vittima, il passaggio da una condizione di calore ad una di gelo, così come è simbolizzato dalla stufa di maiolica olandese, descritta all’inizio del romanzo, che, posta al centro della casa dei Turbin, irradia il suo calore benefico e confortante, a confronto con la discesa – magnificamente descritta alla fine del romanzo – nelle oscure e sinistre sale di quell’obitorio nelle quali, come una sorta di discesa agli inferi, si troverà a scendere Nikolaj: “E al centro della casa pulsa il cuore caldo della stufa olandese, testimone del tempo che è stato, polo positivo contrapposto al gelido cuore dell’obitorio, dove per contrasto ciò che è stato si decompone e marcisce. Nel capitolo 4 attorno a questa stufa vediamo raccogliersi i Turbin e i loro amici…rappresentanti della parte buona di una società sull’orlo del baratro.” (5)

Ed è questo passaggio distruttivo tra un passato inesorabilmente destinato a finire e un futuro inesorabilmente destinato a nascere che Bulgakov mette in scena, avendo per i protagonisti di quel passato, quali sono i Turbin, un atteggiamento di partecipe compassione e per il futuro un sentimento di segreta speranza. Ma questa duplicità di vissuti, già presente in questo primo romanzo, si rivelerà una costante di tutta la sua opera, laddove “La vita e l’opera di Bulgakov furono dominate da due tensioni di segno opposto: la nostalgia del passato, della <<tana>>, e un complesso atteggiamento fatto di ironia e di speranza per il <<futuro>>”. (6)

Questo contrasto di fondo tra passato e futuro assume, ne “La guardia bianca”, una simbolica declinazione. Esso diventa contrasto tra un’immobile armonia e una violenta disarmonia. Armonia del dentro che resiste ed esiste solo ormai all’interno delle pareti domestiche: quelle dei Turbin, ma anche quelle dell’ appartamento di quel tragicomico personaggio che è il loro padrone di casa Vasilj Ivanovic Lisovic: “Ciò che resta immutabile è racchiuso all’interno delle pareti domestiche, protetto dalle tende color crema, isolato dall’esterno da palizzate, cumuli di neve, porte e controporte” (7). E la disarmonia di un fuori che è il caos, la violenza, l’indeterminatezza degli avvenimenti nei quali è piombato il luogo dell’azione, quella Kiev (città natale di Bulgakov), che diventa, ne “La guardia bianca”, un tragico proscenio, la ribalta di eventi spietati o come, con sarcastica e gelida ironia, li definisce a un certo punto Bulgakov, “avvenimenti portentosi”: “…quel che emerge evidente è… l’estrema confusione di quel momento storico, i continui capovolgimenti di fronte, la minaccia costante della catastrofe, il susseguirsi dei tradimenti, degli abbandoni, dei voltafaccia. L’intento di Bulgakov fu appunto quello di fissare sulla carta questa atmosfera, di cogliere il punto di rottura di un equilibrio, e al tempo stesso di proiettarlo in una dimensione più ampia, cosmica.”(8)

E’ infatti questo il nucleo essenziale, l’anima di ciò che Bulgakov rappresenta e cioè come il sovvertimento di ogni ordine assuma i caratteri della follia e come, tale follia, diventi l’autentica misura del reale. Anarchia e caos non sono più solo conseguenza di circostanze storiche ma diventano, nel modo in cui Bulgakov le mette in scena, le forme essenziali del vero. In tal senso la trama, l’intreccio non fanno altro che dilatare continuamente quel senso di assurdo che pervade le cose e ne diventa la sua tragica e grottesca sostanza: “…in casa loro [dei Turbin] c’era un’atmosfera di calore e di intimità, in particolare erano bellissime le tendine color crema a ogni finestra che facevano sentire isolati dal mondo esterno…E bisognava convenirne…il mondo esterno era sporco, insanguinato e assurdo.”

E così mentre al lettore sembra di essere messo di fronte a una lotta che si svolge tutta dentro la Storia, Bulgakov, in realtà, si spinge e ci spinge nei territori dell’irrazionalità e dell’insensatezza della vita umana, mostrandocene gli assurdi destini. Come quello terribile e crudele dell’ ebreo Fel’dman, intorno alla cui vicenda “…Bulgakov costruisce una vera e propria <<macchina del destino>>”. (8a) In apprensione per il fatto che la moglie sta per partorire Fel’dman esce per chiamare la levatrice. In giro non c’è anima viva ma all’improvviso appare una pattuglia a cavallo di una delle parti in conflitto, purtroppo per Fel’dman la parte più spietata. Richiestigli i documenti Fel’dman tira fuori un foglietto ma, per errore, non sono i documenti ma è un certificato dal quale risulta che egli procura certe forniture alla parte avversa. Fel’dman spera in un miracolo, ma invano.

Dio! Fa un miracolo! Undicimila rubli…Prendete tutto. Ma lasciatemi la vita!

Non gliela lasciarono.

Fu ancora una fortuna che Fel’dman morì d’una morte facile. Il comandante Galan’ba non aveva tempo da perdere. E perciò si limitò a spiccare con la sciabola la testa di Fel’dman”

Ma al di sopra di questo microcosmo disordinato che è il reale continua a esistere in assoluto silenzio la quiete cosmica, rappresentata dalle stelle, le stesse stelle che nessuno ha voglia di contemplare, “Ma perché?”, si chiederà Bulgakov in quella chiusa, posta alla fine del romanzo che, come un sigillo, ne afferma il suo senso più profondo: Tutto passerà. Le sofferenze, i tormenti, il sangue, la fame e la pestilenza. La spada sparirà, ma le stelle resteranno anche quando le ombre dei nostri corpi e delle nostre opere non saranno più sulla terra. Non c’è uomo che non lo sappia. Perché dunque non vogliamo rivolgere lo sguardo alle stelle? Perché?”

E in questa “metafisica” insita nel testo che trascende il reale e ne svela la sua natura effimera, piena di inutile dolore, è attratta Kiev che è luogo fisico, puntualmente e meticolosamente descritto da Bulgakov, ma anche luogo avvolto in un alone mitico ed irreale, non a caso non sarà mai nominata ma sempre denominata con l’appellativo de la “Città”, nel senso di “…Urbs in un accostamento non casuale a Roma nel momento del crollo dell’ impero, estremo baluardo di una civiltà e di un mondo colti nell’ora del disfacimento”. (9) Su Kiev incombe infatti un “mondo” che sta per invaderla, un “mondo” che proviene dalle lande e dalle foreste che la circondano, abitate da gente minacciosa e, più oltre, nelle “misteriose lontananze”, si apre la strada di un altro “mondo” che incombe anch’esso su di lei, la strada che conduce laddove “ era stesa la misteriosa Mosca”. E così Kiev, come fosse un vero e proprio personaggio, assisterà al destino di ciò che vi accade ma, al tempo stesso, rivelandosi quel destino ineluttabile, vi assisterà impotente.

La dimensione storica ne “La guardia bianca” è quindi funzionale non solo alla narrazione delle vicende interiori dei personaggi, alla rappresentazione della loro lotta per sopravvivere fisicamente ma, soprattutto, per sopravvivere alla disperazione per l’incombere della fine del senso stesso della loro vita, ma tale dimensione storica è avvolta in un alone epico che trasla i luoghi, gli avvenimenti, gli eventi dalla loro natura di meri “fatti” e li traspone su un piano di sospesa irrealtà, carico di simboli e di immagini, di figurazioni e di evocazioni, ma anche di ironia e di grottesco, di mistero e di ambiguità. Giacché la realtà nella quale le cose accadono e si svolgono appare agli stessi protagonisti sfuggente e inafferrabile, fatta di echi, di voci, di illazioni, di ordini e di contrordini. Si ha quindi, all’interno del romanzo, una direttrice, quale quella appena descritta, che possiamo definire storico-epica e poi quella connessa alle vicende dei protagonisti che assume valenze lirico-poetiche, nella misura in cui Bulgakov riesce a rendere tutta la profonda umanità dei loro vissuti, allorché assistiamo al travaglio del loro dibattersi, man mano che si troveranno coinvolti e trascinati nelle “turbinanti” vicende che li investiranno.

Il momento storico che fa da innesco delle vicende narrate ne “La guardia bianca” si colloca tra il dicembre 1918 e il febbraio 1919, allorquando Kiev diventa oggetto del contendere di entità politico-militari tra loro in lotta per il dominio sulla città e sull’intera Ucraina, determinando lo sprofondare del Paese in una situazione di guerra civile. Questa situazione aveva avuto degli antefatti che l’avevano prodotta dato che nel corso del 1918 si era avuto un susseguirsi convulso e sconcertante di avvicendamenti nel governo dell’ Ucraina che, di fatto, erano state delle occupazioni del potere da parte di chi era stato, nei diversi momenti, in grado di prenderlo quel potere in base ai rapporti di forza e alle “intese” che era stato capace di imporre. E, non a caso, Bulgakov inizia “La guardia bianca” con queste parole che focalizzano l’eccezionalità di quel 1918: “Fu grande e terribile l’anno 1918 dalla nascita di Cristo”. E poi lo motiva evidenziandone il suo procedere sempre più corrusco: “…di giorno in giorno il suo aspetto si fece sempre più minaccioso e irsuto.”

Ora la logica della forza si riproporrà in modo ancor più brutale nel corso dei fatti avvenuti a Kiev tra la fine del ’18 e l’ inizio del ’19 alimentati da un vuoto di potere che renderà la città un campo di battaglia dominato dalla spietatezza e dalla violenza. Il vuoto di potere si era determinato perché a novembre del ’18 la Germania dichiarata la propria sconfitta nell’ambito della prima guerra mondiale si ritira dall’Ucraina che era sotto la sua protezione in base agli accordi sottoscritti con la Russia nel marzo del ’18 (pace di Brest-Litovsk), che avevano sancito l’indipendenza dell’ Ucraina. I russi infatti a seguito della rivoluzione bolscevica dell’ ottobre 1917 avevano avuto sotto il loro controllo l’Ucraina e ciò in quanto nel gennaio del ’18 al legittimo governo dell’ Ucraina, la quale si era proclamata indipendente l’anno prima “…si contrappose una Repubblica popolare di Ucraina, che diede vita all’insurrezione armata bolscevica che portò all’occupazione di Kiev e all’instaurazione di un governo sovietico.” (10)

Ma già a marzo questa situazione, per effetto del trattato di Brest-Litovsk, mutò in quanto i tedeschi, che a febbraio avevano occupato l’ Ucraina, instaurano un regime fantoccio a capo del quale mettono l’etmano Pavlo Skoropadskij, un aristocratico ucraino, di fatto un dittatore militare nazionalista “…che aveva trovato appoggi sia fra i nazionalisti, partigiani di uno stato ucraino indipendente, sia fra coloro (come i protagonisti de “La guardia bianca”) che speravano in un ritorno dello zarismo o, per lo meno, in una sconfitta del bolscevismo.” (11)

Quando il romanzo comincia siamo all’inizio di dicembre: “…nel forte gelo era giunto il bianco velloso dicembre”. Kiev, in quel momento, è ancora formalmente sotto il controllo dell’etmanato ma l’Etmano camuffato da tedesco, dagli stessi tedeschi, sta scappando dalla Città e dal Paese insieme a loro: “L’uomo fu rivestito di un’uniforme di maggiore tedesco e prese un aspetto non migliore, né peggiore di centinaia di altri maggiori”. In altre parole l’Etmano era fuggito “…come l’ultima carogna, come l’ultimo vigliacco”. E, oltre a lui, era fuggito, segretamente, tutto il suo Stato Maggiore lasciando di fatto Kiev sguarnita. Il fuggire, salvandosi la vita, ma abbandonando a se stessa la “Città”, o non fuggire e mettersi a difesa della “Città” per proteggerla e proteggersi da quei “mondi” che – come detto – incombevano su di lei, a rischio però della propria vita, sarà un altro tema chiave del romanzo, costituendo tale scelta per Bulgakov una scelta prima di tutto morale. In tal senso è impietosa la descrizione che egli fa di tutti coloro che già fuggiti da Mosca e da Pietroburgo per sfuggire ai bolscevichi, e rifugiatisi a Kiev, adesso ne fuggono con altrettanta spregiudicatezza e altrettanto opportunismo: “…fuggivano i brizzolati banchieri con le loro mogli, fuggivano gli affaristi geniali […] Fuggivano i giornalisti di Mosca e Pietroburgo, venduti, avidi, vili. Fuggivano le cocottes. Fuggivano le oneste dame dell’ aristocrazia, e le loro tenere figlie, pallide e dissolute fanciulle di Pietroburgo, con le labbra tinte di carminio. Fuggivano i segretari dei direttori di dipartimento, giovani pederasti passivi…”

Ora, in base agli accordi internazionali, i paesi dell’Intesa, l’alleanza che aveva vinto la guerra, avrebbero dovuto rimpiazzare le forze tedesche in Ucraina per contrastare l’avanzata dei bolscevichi, ma non lo fecero e, di fatto, la “Città” e, in generale, l’ Ucraina finirono completamente fuori controllo diffondendosi fra la popolazione, a Kiev, un disarmante senso di abbandono e di tradimento: “E’ finita. I tedeschi abbandonano l’Ucraina…Vuol dire che qualcuno dovrà morire.” I bolscevichi in quel momento sono lontani e chi, come i Turbin, li teme, per ora li considera una minaccia di là da venire. Perché prima dei bolscevichi c’è una minaccia già presente e, per molti aspetti, peggiore che incombe sulla “Città” ed è quella di Simon Petljura: “La porta d’ingresso si chiuse con gran fracasso ma si poté ancora sentire, come sulla scala buia una sonora voce di donna gridare: Viene Petljura. Petljura!

Petljura che era il leader del partito scialdemocratico ucraino in realtà era “…un avventuriero che aveva saputo trovare credito presso i contadini ucraini [cioè quel “mondo” delle lande e delle foreste prima descritto] e, facendo leva sui loro peggiori istinti (come l’antisemitismo), proponeva pure lui uno stato indipendente, di contadini-possidenti, dal quale fossero banditi gli ebrei, i bolscevichi, i moscoviti e la vecchia nobiltà terriera”. (12) Gli uomini di Petljura non si battono per un ideale, li animano l’ avidità e un odio feroce contro i proprietari terrieri che essi vogliono soppiantare nel possesso della ricchezza diventando, da sfruttati, a loro volta sfruttatori:

– Tutta la terra ai contadini.

– Cento desjatine a testa.

– Non vogliamo più sentire neanche la puzza dei padroni.

– E che per queste cento desjatine ci diano una carta da bollo sicura, con un timbro, che la terra sia sempre nostra, ereditaria, dal nonno al padre, dal padre al figlio, dal figlio al nipote e via di questo passo.

– Che nessun pelandrone venga dalla Città a chiedere pane. Il pane è dei contadini, non lo daremo a nessuno, quel che non mangiamo, lo mettiamo sotto terra.”

Nel frattempo, a Kiev, si erano andate formando milizie volontarie destinate a combattere contro Petljura e, a più lunga scadenza, contro i bolscevichi: “...perché adesso, – il colonnello sottolineò forte la parola <<adesso>>, – dico, adesso, il nostro compito diretto è la difesa della Città…contro le bande di Petljura e, probabilmente, anche contro i bolscevichi”, dirà infatti ad Aleksej Turbin il colonnello Malysev, comandante della milizia nella quale Aleksej si arruolerà. Ma tutto ormai si svolge in un caos tanto drammatico quanto grottesco. Il colonnello Malysev ha insediato il comando in un ex negozio di modista e così: “Le cataste di scatole di cartone azzurro con la scritta <<Madame Anjou. Cappelli per signora>> si innalzavano alle sue spalle, attenuando alquanto la luce che veniva dalla finestra impolverata coperta di tulle lavorato”. Insomma, sintetizza Bulgakov:”Intorno al colonnello regnava il caos del primo giorno della creazione.”

Ma, tradito e abbandonato dall’ esercito regolare e dall’Etmano, chi si è posto volontariamente a difesa della Città nulla potrà e Petljura, con il suo vasto e spietato esercito di contadini ucraini – di gente che aspirava alla “roba” – il 14 dicembre 1918 entrerà a Kiev. E ciò con la complicità e nell’indifferenza dei tedeschi, fa intendere Bulgakov: “…perchè i tozzi tedeschi sorridono con indifferenza sotto i loro baffetti alla tedesca, lì alla stazione di Fastov, mentre davanti a loro, un convoglio dietro l’altro, passano i reparti di Petljura?” Sta di fatto, scrive Bulgakov, che “…nessuno capirà mai quel che accadde nella Città il 14 dicembre”. Il trionfo di Petljura sarà, però, un trionfo effimero, non durerà a lungo: il 5 febbraio 1919 l’ Armata Rossa entrerà a sua volta a Kiev e la occuperà. Pertanto, puntualizzerà Bulgakov, “La sua permanenza nella città fu di quarantasette giorni”.

E’ quindi all’interno di questo arco di tempo e di avvenimenti che si svolge “La guardia bianca”. E, al centro di tale arco, si colloca, narrativamente, l’evento capitale, cioè quell’impadronirsi della città da parte dei petljurani che, come una sorta di orda barbarica proveniente da un mondo estraneo si abbatterà brutalmente su uomini e cose, incutendo terrore e orrore, e lasciando dietro di sé una scia di sangue:

– Meglio qualunque cosa piuttosto che vedere una cosa simile.

– Cosa? Cosa? Cosa? Che cosa è accaduto? Di chi sono questi funerali?

– Sono gli ufficiali assassinati a Popeljucha, – mormorò in fretta la voce di uno che soffocava dalla voglia di essere il primo a raccontare, – erano arrivati a Popeljucha, si erano messi a dormire e di notte sono stati accerchiati dai contadini e dai seguaci di Petljura e sono sttai ammazzati tutti. Proprio tutti…Gli hanno bucato gli occhi, e sulle spalle gli hanno tagliato le spalline nella carne. Li hanno sfigurati veramente.”

L’uscita di scena dei tedeschi significherà quindi, per chi resta, il ritrovarsi alla mercé delle “…bande di Petljura”, incarnazione dell’ “inciviltà” che, nella rappresentazione bulgakoviana, assumono sembianze inquietanti: “Attorno e all’interno della Città si muovono figure indistinte, esseri dalle movenze lupesche. [E tali esseri,] metà uomini metà animali, come se i confini tra i generi, a cui la cultura è in grado di conferire tratti precisi, si fossero fatti labili e indistinti” (13) sono sia i contadini di Petljura: “Si, la morte non indugiò a venire. Essa vagò per le vie autunnali e poi per quelle invernali dell’ Ucraina, insieme alla secca neve turbinante. Cominciò a tambureggiare con le mitragliatrici nelle boscaglie. Non la si vedeva, ma la precedeva la ben visibile ira sgraziata del contadino. Questi correva nella tormenta e nel freddo,nei suoi lapti consunti, con la paglia nei capelli arruffati, e ululava.”, che banditi e malviventi che approfittando della situazione si aggirano, come reietti, furtivamente di notte nella città: “Nella via nera e deserta, una figura stracciata, che aveva un che di lupo, scese senza far rumore dal ramo di acacia su cui era seduta da mezz’ora, tormentata dal gelo, ma intenta a spiare avidamente…La figura saltò elasticamente in un mucchio di neve, e risalì la via, scomparendo poi con un passo di lupo nei vicoli, e la tempesta, l’oscurità e la neve la inghiottirono e ne coprirono tutte le tracce.” Confondendosi gli uni con gli altri e alimentando ciò ulteriore paura e caos.

E sempre per chi resta significherà altresì considerarsi vinti, con tutta la terribilità che ciò comporta come – in modo drammaticamente suggestivo – viene rappresentato da Bulgakov con riferimento al vissuto di coloro che avevano compreso la situazione : “La stessa cosa compresero anche i cittadini. Oh, soltanto colui che è stato vinto sa che significhi questa parola! Essa assomiglia a una sera in una casa in cui si sia guastata la luce elettrica, assomiglia a una stanza sulle cui tappezzerie si diffonde una muffa verde piena di vita insana. Assomiglia a dei bambini rachitici indemoniati, all’olio marcio, a una bestemmia oscena pronunziata da voci femminili nell’oscurità. Insomma, assomiglia alla morte.”

Ma nel mettere a nudo la brama di possesso priva di umanità dei contadini petljurani, così come nel descrivere in modo corrosivo la penosa fuga dell’Etmano, Bulgakov crea una fondamentale distinzione che costituisce uno spartiacque tra i personaggi e cioè tra coloro che – come i Petljura e gli Skoropadskij – sono mossi da interessi, ambizioni, calcoli, brama di potere, rivelandosi privi di qualsiasi ideale e di qualsiasi senso morale, e coloro, invece, che – come i Turbin ma anche come altri personaggi appartenenti a sponde ideali opposte alla loro, per esempio soldati dell’ armata rossa che soccomberanno sul campo – possiedono una loro fede, degli ideali, una onestà interiore, in altre parole una loro morale che li guida, in nome della quale compiono scelte coraggiose, esponendosi e rischiando in prima persona, anche a costo di perdere la loro vita. In tal senso, è bene dirlo, “…Bulgakov non fa della morale, ma certe scelte morali sono messe in evidenza nei suoi personaggi.” (13a)

La “realizzazione morale” dei personaggi diventa quindi il discrimine attraverso cui distinguere il bene dal male. Altresì la mancanza di un mondo morale fa sì che per i Petljura e gli Skoropadskij la loro esistenza ed esperienza si esaurisca nei ristretti limiti della cronaca e delle contingenze. Non sono uomini del destino ma figure estemporanee al punto da venire descritte da Bulgakov come figure fantasmatiche prive di “connotati”, come nel caso di Petljura che finisce per risultare senza “volto” e dal nome imprecisato: “Nessuno, proprio nessuno sapeva che cosa di preciso questo Peturra volesse combinare in Ucraina, ma tutti, nessuno escluso, sapevano che era un essere misterioso e senza volto…che voleva conquistare l’Ucraina e, per conquistarla, veniva a prendere la Città.”

Si ha così, molte volte, all’interno della narrazione uno sdoppiamento tra l’entità materiale di un personaggio, il suo essere “realmente esistito”, la cui descrizione è assolutamente realistica e, nel contempo, l’essere quel personaggio collocato da Bulgakov in una dimensione fantastica e/o mitica, al fine di connotarne la sua consistenza o inconsistenza morale, la sua reale natura, la sua effettiva coscienza. E questo far convivere, anche all’interno della stessa “cosa”, piani di realtà con altrettanti piani di irrealtà si rivela già qui una peculiarità tipica di Bulgakov che attraverserà tutta la sua opera e troverà ne “Il Maestro e Margherita” la sua più ampia e completa realizzazione.

A loro volta la lealtà e l’onore – che contraddistingueranno i personaggi portatori di quell’onestà interiore di cui si è detto – saranno le manifestazioni e il tramite della “loro” umanità che si contrapporrà alla spietata e vigliacca disumanità di chi assale e uccide senza ritegno e di chi fugge senza dignità. E di questa umanità intesa come parte integrante delle proprie origini, elemento morale ed etico della propria esistenza e del proprio sentire sono espressione e portatori, in modo profondo, i Turbin.

Essi “…vivono in una casa che conserva tutti i ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza, la memoria della madre, di una famiglia unita, nel calore degli oggetti carichi di umanità, della “loro” umanità…I Turbin sono monarchici perché, più o meno consciamente, identificano il ritorno della situazione politica anteriore alla rivoluzione con il ritorno della loro infanzia e adolescenza, con l’integrità della loro casa. Di qui la loro scelta, il loro essere <<guardie bianche>>, il loro credere, assurdamente, nella restaurazione. C’è poi tutta la loro educazione e il codice dell’onore militare, assimilato da Aleksej e da Nikolka, la lealtà di soldati, di ufficiali…Ma questa loro <<fede>> assume anche un carattere infantile, di fuga dalla realtà. E finisce con l’essere un altro aspetto di una tensione di fondo, che si esprime nella nostalgia della tana, nell’ansia di ritornare nell’ <<utero>>, nella restaurazione e conservazione del passato. E’ l’angoscia del perduto giardino dei ciliegi. Il mutamento c’è stato, la realtà ha fatto irruzione e il loro partecipare all’azione delle milizie volontarie che, peraltro, non erano neanche filozariste, nella speranza di poter ricostruire il passato è illusorio perché il loro mondo è finito. Un agire quindi destinato al fallimento, Ma è questo il sentimento che domina i Turbin. Ed è questa una delle linee di tensione fondamentali del romanzo e cioè la tensione che nasce dal contrasto fra questa “nostalgia della conservazione”, fra questo desiderio del ritorno, incentrato sul calore della casa, sulla sua atmosfera e su ciò che al suo interno evoca ricordi ed affetti, e la coscienza del dovere morale di fare qualcosa, di non fuggire o nascondersi, ma di “uscire” da quella “tana” e “provare se stessi”. Ma non per mantenere ricchezze e privilegi: i Turbin non sono attaccati alla “roba”, ma per la conservazione dei propri valori spirituali e morali. Bulgakov esprime, nel romanzo, una situazione psicologica di tutti quelli che privi di una capacità politica vera e propria avevano paura del presente e del futuro, una paura fisica e una paura morale. I Turbin, inoltre, appartenevano alla cosiddetta intelligencija.” (14)

Cioè quello strato intellettuale “…che Bulgakov definiva “uno strato sociale molto importante, seppur debole, del paese”…quell’ intelligencija che Bulgakov amava…della quale sempre parlò nelle sue opere. [Perché per Bulgakov]…La questione non era essere pro o contro la rivoluzione. La questione era riuscire a far sopravvivere alla violenza della storia il cuore vivo, pulsante, dell’essere umano.” (15), riaffermare, in altre parole, il diritto ai sentimenti e alla vita e il loro valore. E, in questo senso, i Turbin incarneranno questi vissuti che si manifestano nella loro sensibilità, nella loro moralità, nel loro altruismo, nella loro onestà. E, soprattutto, nel loro modo di vivere, intenso e tormentato, la sofferenza e le sofferenze derivanti dalle vicende che, sul piano umano e personale, li coinvolgeranno.

E saranno gesti pietosi e atti d’amore a far sopravvivere l’umano in una realtà dominata da morte, violenza, odio e tradimenti. Gesti e atti che salvano vite o permettono di dare un po’ di rispetto ai morti. Come il “sacrificio” che, come su un ideale altare, compirà Elena che “uccide” dentro di sé il marito, – il seducente capitano Sergej Tal’berg, rimasto, in realtà, sempre estraneo ai Turbin sia per le sue origini baltiche, sia per i suoi atteggiamenti, fuggito anche lui senza dignità su un convoglio tedesco – rinunciando, nelle sue preghiere, alla sua salvezza, in cambio della salvezza dell’amato fratello Aleksej che ferito agonizzerà per giorni, e solo dopo le convulse preghiere della sorella, come per miracolo, ritornerà alla vita.

O come nel caso di Nikolaj Turbin, il fratello adolescente, che combatte con eroismo e mette a repentaglio la sua vita a fianco del suo colonnello, il Colonnello Naj-Turs – comandante delle scuola militare di Kiev, di cui Nikolaj era allievo – caduto eroicamente per salvare i suoi allievi dalle cariche dei soldati di Petljura, e del quale Nikolaj recupererà il corpo, in quella “infernale” discesa all’obitorio, insieme alla sorella di Naj-Turs, restituendolo alla sua famiglia.

O ancora come la bella e misteriosa Julija Rejss, creatura romantica con un’ aura di “fatalità”, che salva Aleksej Turbin ferito, nascondendolo in casa e curandolo.

Ma per comprendere appieno come Bulgakov riesce ad alimentare, in relazione a tutto ciò, il fascino e l’assoluta originalità della narrazione – perchè “La guardia bianca” è un romanzo carico di fascino e di invenzioni – occorre tenere presente l’incredibile varietà e vorticosità delle soluzioni stilistiche che adotta, le quali esaltano quel senso di irrealtà di cui si è detto, pur nell’assoluta aderenza ai fatti e agli elementi di realtà di cui è oggetto il romanzo. “Abbiamo infatti parodie di prosa futurista, frammenti di citazioni letterarie, strofe di canti popolari, versi di opere liriche. Inoltre accanto allo sviluppo della trama narrativa si delinea uno straordinario ordito sonoro fatto di ticchettii d’orologi, di gavotte e rintocchi, di trilli di campanelli, di boati di cannoni, di colpi di mitraglia, di note musicali, marce, marcette, inni, possenti cori religiosi, do di petto e mi tenuti fino all’inverosimile.” (16) Questa ricchezza compositiva e questa modalità composita è altresì adoperata da Bulgakov anche per veicolare tutta l’intensità che, sul piano emotivo, il romanzo racchiude e trasmette. Come è stato infatti osservato: “L’avvicendarsi degli affetti, dei sentimenti, delle incertezze, delle angosce, è reso attraverso la grande varietà degli elementi del discorso, espressi secondo varie intonazioni stlistiche.” (17)

Ma quello che “lega” l’insieme degli elementi e delle soluzioni stilistiche adottate da Bulgakov è il tono narrativo che attraversa e percorre tutto il romanzo scandendo tutto ciò che vi accade. Un tono che trasmette un che di febbricitante, di concitato, di iperteso. Perché, in modo palpabile, si avverte, costante, un senso di tensione lancinante che incombe. E ciò per la capacità di Bulgakov di mantenere sempre viva quella tensione in quanto effetto della paura, del pericolo, dell’indeterminatezza, dell’ arbitrio in cui tutto si svolge. Bulgakov, inoltre, come abbiamo visto, procede ricorrendo sistematicamente alla creazione di contrasti che consentono di mettere a fuoco la svariata serie di conflitti che si svolgono all’interno del romanzo, determinando, anche in questo modo, quel prodursi del pathos e quel fuoriuscire della tensione che attraversano “La guardia bianca”.

Ma questa tensione a cui sono sottoposti i protagonisti e l’intero romanzo ha dei momenti di distensione e ciò attraverso il ricorso al piano onirico. Costante infatti è la presenza di sogni che fungono da momenti di elaborazione e interpretazione della realtà, laddove questa appare sfuggente e oscura. In altre parole Bulgakov se ne serve per veicolare messaggi e significati. Infatti, come è stato osservato, “Il sogno è un artificio importante nella poetica di Bulgakov: ritorna in altre opere dello scrittore e indica, anche simbolicamente, lo <<smarrimento>> del personaggio, il quale non riesce a rendersi conto della realtà e si sente come sperduto di fronte agli avvenimenti.” (18)

La guardia bianca” si conclude sull’interrogativo del futuro che è prima di tutto un interrogativo per i Turbin, la cui storia resta come sospesa. Come “guardie bianche” la Storia-destino li ha già condannati. A fronte di ciò essi troveranno conforto negli affetti. Forse solo delle nuove “tane”, ma d’altronde necessarie per “sopravvivere”. Elena avrà l’amore che nutre per lei Servinskij uno dei loro amici che frequentavano la loro casa. Aleksej troverà una ragione di vita con Julija Reis che lo ha salvato. Anche Nikolaj troverà un compenso al crollo del suo mondo nella simpatia per la sorella del colonnello Naj-Turs. Il quale, con quel suo sacrificio e con la sua morte, incarna colui che coglie l’impossibilità di dare, qui e ora, una risposta a quell’interrogativo sul futuro e gli oppone la sua “posizione morale”: “Egli sa che il mondo nel quale è nato e cresciuto, che è lo stesso mondo dei Turbin, è perduto per sempre e che il nuovo mondo gli è ostile, estraneo. Ma sa anche che <<il paradiso>> apparterrà a coloro che avranno creduto, che saranno stati coerenti: bianchi o rossi non importa.” (19) Naj-Turs fa quindi della sua morte non solo un atto di generosità, ma soprattutto un’affermazione esistenziale, nello spirito della seconda citazione posta in epigrafe da Bulgakov e tratta dall’ Apocalisse: “E i morti furono giudicati in base a quanto stava scritto nei libri, secondo le loro opere…” E’ quindi l’integrità e il valore morale dei propri atti e comportamenti che fa fede. E’, in altre parole, quell’istanza che era fondamentale per Bulgakov, di cui si è detto e cioè: “…riuscire a far sopravvivere alla violenza della storia il cuore vivo, pulsante, dell’essere umano.” (15)

Ma, come detto, Bulgakov aveva anche “…un complesso atteggiamento fatto di ironia e di speranza per il <<futuro>>” (6) ed è sulle orme di questo atteggiamento che si conclude “La guardia bianca” e cioè col sogno di Pet’ka, il sogno di un bambino: “Il romanzo si conclude col sogno di un bambino, Pet’ka Sceglov, che abitava vicino ai Turbin. A Pet’ka pare di camminare in un grande prato verde dove si trova una sfera di diamante, tutta sfavillante di luce. Una sfera più grande di Pet’ka. Gli adulti, nel sogno, non riescono a correre: sembra che le loro gambe siano intrappolate, invischiate da un pantano. Ma i bambini hanno le gambe agili e svelte: così Pet’ka riesce a correre verso il globo, ad abbarcciarlo. La sfera di diamante lo avvolge tutto di spruzzi di luce. Pet’ka è felice: nella notte si mette a ridere per la gioia…Il sogno di Pet’ka è importante perché lascia il posto alla speranza e perché socchiude la porta all’utopia della gioia. La quale, forse, sarà raggiunta solo dai bambini, non legati, come gli adulti, a quel mondo che crolla.” (20)

E alla fine di tutto non si può non richiamare il terribile monito che ci lascia Bulgakov la cui verità risuona assordante allora come oggi:

Peturra…

Dunque, c’era stato…

Ma perché c’era stato? Nessuno lo dirà. Pagherà qualcuno per il sangue?

No. Nessuno.

Semplicemente la neve si scioglierà, spunterà la verde erba ucraina, coprirà la terra…germineranno le biade rigogliose…tremolerà l’aria torrida sui campi e del sangue non resterà traccia. Costa poco il sangue sui campi vermigli, e nessuno lo riscatterà.

Nessuno”


*****

(1) – Eridano Bazzarelli – “Invito alla lettura di Bulgakov” – Mursia – 1988 – pp. 54, 55

(2) – (3) – (4) – Serena Prina – “Introduzione” in M. Bulgakov – “La guardia bianca” – Feltrinelli – 2011 – p. 10

(5) – Serena Prina – cit. – p. 15

(6) – E. Bazzarelli – cit. – p. 26

(7) – S. Prina – cit. – p. 15

(8) – S. Prina – cit. – p. 13

(8a) – E. Bazzarelli – cit.- p. 73

(9) – S. Prina – cit. – p. 14

(10) – S. Prina – cit. – p. 13

(11) – (12) – E. Bazzarelli – cit. – p. 57

(13) – S. Prina – cit. – pp. 14, 15

(13a) – E. Bazzarelli – cit. – p. 65

(14) – E. Bazzarelli – cit. – pp. 57, 62, 63

(15) – S. Prina – cit. – pp. 15, 16

(16) – S. Prina – cit. – p. 16

(17) – E. Bazzarelli – cit. – p. 76

(18) – E. Bazzarelli – cit. – p. 61

(19) – E. Bazzarelli – cit. – p. 75

(20) – E. Bazzarelli – cit. – pp. 60, 61

2 risposte a "“La guardia bianca” – Michail Bulgakov"

  1. viducoli 3 gennaio 2023 / 20:37

    Innanzitutto buon anno. Sono contento di aver trovato un Tuo nuovo commento, e sopratutto ad un libro che ho in libreria ed attende di essere letto.
    Ora so che è un capolavoro, perché è proprio la stratificazione di livelli interpretativi di cui parli che per me connota il capolavoro.
    Tra qualche mese avrò più tempo per leggere (pensioneeee…) e forse in pochi anni arriverà anche per me il momento de La Guardia Bianca.

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