D. “Serena Vitale, lei ha scritto che Bunin è stato “l’ultimo classico”; spesso la critica ne ha accostato il nome a quello dei grandi autori russi, Čechov su tutti. Ci potrebbe spiegare la sua definizione ed il rapporto dell’autore con quella grande tradizione letteraria?”
R. “Classici, secondo la famosa definizione di Italo Calvino, sono i libri che non finiscono mai di dire quel che hanno da dire… Di più: ostile al modernismo, Bunin era orgoglioso di scrivere nel solco della grande tradizione ottocentesca del suo paese – da Tolstoj a Čechov, appunto.”
(Da un’intervista a Serena Vitale apparsa sul sito “raicultura.it” nel luglio 2020)
In questa breve descrizione data da Serena Vitale è ben sintetizzato il valore dell’opera e lo spirito artistico di Ivan Bunin che è stato sicuramente l’ultimo grande interprete della tradizione classica della letteratura russa, capace, coerentemente a tale tradizione, di descrivere e di percorrere, nei suoi meandri più profondi, i sentimenti umani. Che Bunin fosse stato capace di mantenere viva quella grande tradizione, propria della letteratura russa dell’Ottocento, lo confermano altresì le motivazioni del premio Nobel conferitogli nel 1933, essendo stato tra l’altro Bunin il primo scrittore russo a ricevere tale riconoscimento, laddove, come si legge nelle motivazioni, il conferimento del Nobel era stato dettato dalla: “… precisione artistica con la quale egli ha trasposto le tradizioni classiche russe in prosa”.
Ma se è vero che Bunin è assimilabile in primo luogo a Čechov – tra le altre cose per l’analoga predilezione data da entrambi, nell’ambito della loro produzione, ai racconti – tuttavia egli se ne differenzia per la diversa contestualizzazione che, nelle sue narrazioni, vengono ad avere i suoi personaggi e per la più accentuata centralità che vi assumono i sentimenti. Come ha osservato Giovanna Spendel “…i racconti di Bunin fanno pensare a quel Čechov che giustamente Bunin considerava, insieme a Tolstoj, fra i suoi maestri. Ma mentre in Čechov il lettore trova quasi sempre anche una contestualità sociologica delle diverse storie, in Bunin…i singoli personaggi sono ridotti all’essenziale, colti sul momento, quasi senza un <<ieri>> o con un <<ieri>> remotissimo e quasi cancellato…La Russia di Bunin diventa sempre più una Russia senza <<tempo>>, ma anche senza più <<società>>…Vivi restano, ancor più che le individualità dei personaggi, i loro sentimenti e rimpianti…” (G. Spendel – “Introduzione. Ivan A. Bunin: architetto di destini” in Ivan A. Bunin – “Racconti d’ amore” – Rizzoli – 1987 – p.12)
E il sentimento di cui Bunin più si è “occupato” è indiscutibilmente il sentimento dell’ amore, tanto da essere considerato l’autore russo che ha maggiormente incentrato la sua opera sulle tematiche amorose e ciò per l’ ampiezza delle declinazioni che è riuscito a dare a tale tema e per la raffinatezza, delicatezza e intensità con cui è riuscito a trattarlo. In tal senso i racconti contenuti in “Racconti d’amore” – un’antologia di racconti d’amore di Bunin, pubblicata nel 1987 da Rizzoli nella collana BUR Classici, a cura di Giovanna Spendel – ne sono un’ampia e significativa dimostrazione. In questi racconti, scrive Giovanna Spendel: “… l’amore è il motivo propulsore che mette in movimento e talora letteralmente <<scatena>> trame in apparenza esilissime…[dove risalta] la tenuità della vicenda e la sensibilità da sismografo che li governa…” (G. Spendel – cit., p. 12).
I racconti contenuti in “Racconti d’amore” sono infatti racconti assai brevi, esili appunto, fatti di poche, talora pochissime pagine, nei quali Bunin riesce però a racchiudere e condensare istanti e situazioni che evocano, alludono, rimandano ad un’intera esistenza, ad un mondo interiore ben più complesso di quello che appare, dove la forza misteriosa e spesso distruttrice dell’amore avvolge e travolge gli eventi e chi ne è protagonista. Perché ben lungi dall’essere esperienze rassicuranti e confortanti le vicende d’ amore raccontate da Bunin hanno sempre in sé uno scarto, una distanza, e trasmettono ora una vibrazione che contiene un’ inquietudine, ora un riflesso che lascia turbati. Vi è infatti in queste storie un che di irrisolto e di irresolubile, di sfuggente e inafferrabile che le rende eteree e sospese, labili e come esposte ad un’ intrinseca dissolvenza. Dove i personaggi più che determinare, sono determinati dai loro sentimenti e dalle ricadute che essi hanno su di loro. Ed allora si comprende che l’amore per Bunin non è stato solamente l'”oggetto” sentimentale che esso è ma è stato assai di più e cioè “… luogo deputato e anzi metafora della nostra umana insufficienza.” (G. Spendel – cit., p. 13)
In tal senso forma e contenuto in Bunin vanno di pari passo. Perché se nella forma egli è elusivo e si sottrae, prevalendo nel suo stile il suggerire rispetto al dire, al punto che la sua prosa finisce per avere tratti e modalità lirico poetiche: “… l’autore segue nelle sue creazioni narrative criteri in gran parte analoghi e addirittura simili a quelli propri della scrittura poetica.” (G. Spendel – cit., p. 13), – peraltro Bunin fu un valente e apprezzatissimo poeta, si pensi che “…la sua prima importante raccolta di versi, “Listopad” (La caduta delle foglie) fu definita da Aleksandr Blok, maestro del simbolismo russo, uno dei migliori esempi di poesia contemporanea.” (G.Spendel – cit., p.6) – al contempo, nei contenuti, egli ci mostra tutta la volatilità, contraddittorietà, inspiegabilità e crudeltà che le umane cose possono avere e ciò attraverso quella lente di ingrandimento che è l’amore che diventa per Bunin la manifestazione più evidente dell’impossibilità di un dire che espliciti i nostri sentimenti.
L’amore non è quindi per Bunin un’esperienza attraverso cui realizzarsi, realizzando in tal modo la propria felicità, ma diventa la cartina di tornasole dello scarto fra il nostro desiderio e l’enigma e il mistero che sopravviene allorché si scopre che il desiderio è destinato a restare sospeso, inattuato o ad attuarsi in tutt’altro modo e ciò per quel che di imponderabile e imprevedibile accade. In Bunin vi è infatti, afferma Giovanna Spendel, “…una fatalistica sfiducia nella felicità umana e nell’amore che dovrebbe essere come un banco di prova, una sorta di quintessenza.” (G.Spendel – cit., p.8)
I racconti contenuti in “Racconti d’amore” sono in tutto 23. Di questi i primi quattro risalgono agli anni 1915 – 1916 mentre tutti gli altri sono ricompresi fra il 1920 e il 1949. Questa distinzione temporale coincide con due ben precisi momenti della vita di Ivan Bunin: quello prima della rivoluzione bolscevica e quello dopo la rivoluzione. Avendo egli, nel 1920, lasciato definitivamente la Russia, ormai in aperto conflitto con l’esperienza della rivoluzione, per vivere, da quel momento in poi, in esilio in Francia: “Se nella rivoluzione del febbraio 1917 Bunin aveva scorto una via d’uscita dal vicolo cieco dell’autocrazia zarista, nell’ottobre successivo l’avvento dei bolscevichi al potere sarà da lui vissuto come un episodio di inaccettabile violenza e la sua ostilità al nuovo regime sarà decisa e irrevocabile.” (G. Spendel – cit., p. 9)
Vi è quindi, nel complesso dell’opera di Bunin, una prima parte che è quella che egli realizza in Russia e una seconda, che inizia appunto nel 1920 – in corrispondenza peraltro con il compimento dei suoi cinquant’anni – che egli svilupperà nel periodo dell’emigrazione. Tuttavia l’anima russa, il paesaggio russo, e le ambientazioni russe resteranno assolutamente vive e presenti anche in questa seconda fase della sua produzione. Anzi, osserva Giovanna Spendel, “Degno di nota nella sua biografia è il fervore col quale nei lunghi anni dell’emigrazione continuò a sviluppare la sua opera letteraria, con risultati di sorprendente eccellenza: paradossalmente è proprio la sua condizione di émigré a nutrirne l’ispirazione, un’ispirazione costantemente volta al passato, a una Russia scomparsa e viva unicamente nella nostalgia, quasi come uno spazio ideale. Visioni, sogni, paesaggi incacellabili riportano lo scrittore alla patria perduta: russo, tipicamente russo, è lo sfondo naturale che fa da contrappunto musicale e psicologico alle vicende da lui narrate” (G. Spendel – cit., p. 9)
Se questo è quindi lo sfondo e il contesto di questi racconti, il loro ambito è l’amore nei termini in cui lo definì una volta lo stesso Bunin: “Non c’è niente sulla terra o in cielo più terribile, più attraente, e più misterioso dell’amore”. Infatti quello che affascina e che cattura nel leggere questi racconti è scoprire come Bunin sia riuscito a raccontare questo mistero, tratteggiandone i risvolti e le forme, il suo pulsare e il suo spegnersi, il suo essere capace di farsi desiderio vitale e, al tempo stesso, di spezzare la vita e di indurre la morte: “La casistica che questo poeta in prosa dell’eros propone qui al suo lettore è delle più varie; ma si può senz’altro rilevare come, nonostante l’ estrema sobrietà di mezzi, la posta messa in gioco sia spesso decisiva, anzi tremenda: l’amore può diventare una questione di vita e/o di morte.” (G. Spendel – cit., pgg. 14,15)
E una prima faccia di questo mistero che Bunin ci mostra è quella delle palpitazioni, dei turbamenti, delle attese, dell’ambiguo gioco del non detto che trattiene dal darsi e dal dirsi come in “Meteora” dove due giovani reciprocamente attratti si “perdono” in una distesa di neve vivendo lo smarrimento di quell’esperienza così come li smarrisce ciò che essi provano o come in “Primo amore” in cui “tutti sapevano” eppure i due giovani protagonisti nulla si erano detti laddove lui “simulava tanta allegria, pur essendo sul punto, ad ogni momento, di prorompere in un pianto disperato” e lei “era orgogliosa, contenta. Ma guardava con indifferenza e distacco.” Un non detto, in questo caso, che lega come un invisibile filo sottile i due giovani protagonisti, con lui che vive con tutta la sua sensibilità quel “primo amore” e lei che sa di essere desiderata e ne gioisce dentro di sé pur non dandolo a vedere. Perché nell’esaltazione della gioventù e nel farsi del desiderio la lunghezza dell’attesa e i timori dell’incertezza sono parti integranti di ciò che l’amore promette.
In questi due racconti l’amore è nel suo stato nascente, è ancora tutto da scoprire e Bunin evita deliberatamente di mostrarci un futuro, lasciando agio al lettore di ricorrere all’immaginazione, interrompendosi su un momento effimero come il concitato giocare con il proprio cane del protagonista di “Primo amore“, o quasi magico come l’apparizione di una meteora alla fine dell’omonimo racconto. Ma carichi di attese per un futuro che suscita trepidazione sono anche le atmosfere che Bunin crea in racconti come “L’ altalena” e “In una notte come questa” dove sono protagoniste delle coppie colte in un momento di intimità mentre condividono l’attrazione e il trasporto reciproco, assaporandone fra loro la gioia. Ma in modo leggero e delicato quasi temendo di rompere l’incanto di quel momento la cui intensità si vorrebbe mantenere per sempre, non sapendo se così sarà. Ed è l’eloquenza del sussurrato e del taciuto che alla fine prevale.
Ma l’amore è anche quello che si riaffaccia imprevisto e inatteso e si fa rimpianto, sprigionando ricordi ancora vivi eppure, ancora una volta, rivelandosi impossibile a realizzarsi, ora come allora, lasciando un senso di tristezza e di amarezza per quella che era stata un’occasione mancata. Perché come confesserà Nikolaj Alekseevic – il protagonista del bellissimo “Viali oscuri” – a Nadezda, che aveva conosciuto e amato tanti anni prima e che reincontra quasi incredulo: “Penso che ho perduto la cosa più preziosa che ho avuto nella vita”. Ma quella possibile vita altra Nikolaj Alekseevic sa bene che non sarebbe stato in grado di viverla e non gli resta che la nostalgia per quelli che erano stati i suoi “… più bei momenti della vita… davvero incantevoli, magici!” . Ed egli non può fare nulla contro il fatto che quell’amore sia svanito come svanisce ogni cosa.
E nell’amore, come nella vita, può anche essere “Tutto sospeso a un filo, tutta la vita di un uomo (e di una donna) può dipendere da un minimo scarto del comportamento, da una parola, da una coincidenza colta o mancata: così sembra dirci nella sua impietosa impassibilità questo architetto di destini che è Ivan Bunin”. (G. Spendel – cit., pg. 16). E così un “niente” come una parola incauta può fulminare un delicato amore nel suo stesso nascere, così come accade in “Smeraldo”. O una scelta non condivisa può essere vissuta così male da distruggere non solo l’amore ma la vita stessa di colei che di quella scelta – per una superficiale mancanza di attenzione – non è stata fatta partecipe, portandola, come accade a Hala Hanska, la protagonista dell’omonimo racconto, a togliersi, di colpo, la vita. E colui che ne e’ stato la causa si chiederà smarrito: “Che cosa le potrà essere successo così di colpo? E’ un mistero.” Inconsapevole che le ferite provocate dalle sofferenze indotte dall’amore possono essere mortali.
Che la forza e le forze che sprigiona questo sentimento siano così potenti da diventare auto o etero distruttive ritorna in altri racconti come nel brevissimo quanto intenso “La cappella”, tutto giocato sul contrasto vita/morte, in cui alla domanda: <<Ma perché si era sparato?>>, la risposta è: <<Era molto innamorato, e quando uno è molto innamorato si spara sempre…>>. E, altrettanto estrema, sarà la reazione del protagonista di “Zojka e Valeria” che irretito dal provocante e, al tempo stesso, sfuggente gioco della seduzione messo in atto dalle due giovani, i cui nomi danno il titolo al racconto, si suiciderà vittima di un dolore insopportabile per il rifiuto provato. Perché “…anche la ragazza più ingenua può essere nell’arte d’ amore una consumatissima artista, anche la più superba inarrivabile bellezza può riversare la sua voglia adulta sull’ indifesa ingenuità di uno sgraziato giovanotto; ed entrambe, l’una sommata all’altra, possono ben scatenare in lui un furore di morte, di autodistruzione.” (G. Spendel – cit., pg.16)
Già nei racconti sin qui visti, e sarà così anche nei successivi, emerge un protagonismo femminile, laddove le figure femminili appaiono le interpreti elettive di quel mistero che è l’amore, risultando esse stesse sfuggenti e misteriose per come ne vivono e ne affrontano le dinamiche. “Bunin” – osserva Giovanna Spendel – “propone al lettore una <<centralità>> del femminile: e ciò anche quando a condurre il gioco sia, almeno in apparenza, l’uomo: femminile, precipuamente femminile, è infatti l’imprevedibilità, la sorpresa (comica o tragica) in cui sfociano le singole situazioni.” (G. Spendel – cit., pg. 15)
Ma, come detto, l’amore può essere anche etero distruttivo, come accade ne “L’assassina” dove il risentimento per l’odioso comportamento del cinico amante induce la protagonista, “l’assassina” appunto, ad ucciderlo senza pietà, piantandogli “il coltello nell’anima”: “<<Eh sì, cari miei l’ha ucciso! Una vedova giovane, di una ricca famiglia di commercianti. Lo amava, dicono, con tanta passione. Ma a lui facevano gola i suoi soldi e si divertiva con quelle che gli capitavano. Allora lo ha invitato per un addio, gli ha offerto da mangiare e da bere ripetendo: “Lascia che ti guardi ancora!”. Poi, a lui ubriaco, ha piantato il coltello nell’anima…>>” E persino la “scoperta” dell’amore può diventare distruttiva per chi, come l’adolescente protagonista del toccante racconto “Il respiro leggero”, subirà quella scoperta venendo brutalmente uccisa.
Tuttavia anche quando l’amore può esistere in tutta la sua pienezza esso può avere in sé un destino di morte che sembra già scritto, un amore insomma che c’è ma che non sarà dato viverlo. E così quell’amore, possibile gioia di un’intera esistenza, si interromperà, poco dopo essere nato, in quella sera di “un freddo autunno” come recita il titolo del racconto, l’ultima trascorsa insieme prima della sua partenza per la guerra, dalla quale – diversamente da ciò che essi speravano – egli non tornerà: “In settembre lui venne da noi per sole ventiquattro ore, a salutarci prima della partenza per il fronte (eravamo tutti convinti che la guerra sarebbe finita presto e che le nostre nozze fossero state semplicemente rinviate alla primavera). Ed ecco che era già la sera del nostro addio… L’uccisero – che parola strana! – un mese dopo in Galizia. E da quel giorno sono passati adesso trent’anni interi…E io credo, credo fermamente che lui, là, da qualche parte, mi aspetti, con lo stesso amore, con la stessa giovinezza di quella sera.”
Ma l’amore è fatto anche di avventure, di episodi, di passioni improvvise, di incontri che si consumano passeggeri non destinati a durare. Come ne “La comare” – racconto a suo modo comico – dove un amico del marito della protagonista che è appunto la comare del titolo, presso cui egli è ospite, rievocando un loro precedente incontro, le rivela l’amore che da tempo egli nutre per lei: “Proprio allora si stabilì tra di noi qualcosa di misterioso, una specie di peccaminosa vicinanza, una nostra quasi parentela e di qui un particolare desiderio…”. Ed ella, che di ciò non si era per nulla avveduta ed era li per lì ritrosa, dopo una notte di passione con quell’ amante improvviso architetterà per fare in modo di trascorrere le imminenti vacanze con lui, all’oscuro “ovviamente” del marito. O come in “Aprile” nel quale il protagonista, alla ricerca ossessiva di una ragazza con cui avere una storia, placherà la sua voglia d’amore ormai divenuta frustrata con quella Maska che, “…alta e ossuta…dal volto duro e asciutto”, da lui non era stata granché considerata, la quale, però, alla fine, sarà l’unica che gli si concederà, decidendo lei in tal senso, diversamente da quelle che erano le iniziali intenzioni di lui.
E l’estemporaneità di un amore può anche lasciare dietro di sé una scia felice e indelebile. Come succede in “I biglietti da visita” dove un occasionale incontro su un battello porterà i due protagonisti a vivere un’esperienza eccitante e, al tempo stesso, piena di tenerezza. C’è qui, come in quasi tutti questi racconti, quel mistero dell’attrazione e del desiderio che è condizione necessaria dell’ amore in quanto suo fattore “scatenante”. L’ amore, ci dice Bunin, ha nell’eros la sua origine e questa componente istintiva e pulsionale, sulla cui natura e sulle cui motivazioni giocano fattori per ognuno diversi, consci e inconsci, legati alla propria storia e alla propria esistenza, Bunin non esita mai a sottacerla nei suoi personaggi. Il protagonista di “I biglietti da visita” si invaghisce infatti di quella donna, incontrata su quel battello, perché ella gli ispirava “…la tenerezza e il desiderio sensuale di approfittare della sua ingenuità e di quella tardiva inesperienza che, come già presentiva, si sarebbe trasformata in un’estrema arditezza”, essendo lei, a sua volta, tesa ad “… approfittare fino in fondo di tutta l’inaspettata felicità che improvvisamente le era toccata in sorte con quell’uomo bello, forte e celebre.. Docilmente e rapida lei sgusciò fuori dalla biancheria ora sparsa sul pavimento restando nuda…Con aria di ebbro trionfo guardò luì tenendosi i capelli mentre li liberava dalle forcine. Lui l’osservava esterrefatto… Prima di sera, mentre il piroscafo arrivava alla destinazione dove lei era diretta, stava vicino a lui silenziosa…Lui baciò la sua piccola mano infreddolita con quell’amore che rimane nel cuore per tutta la vita, e lei, senza guardarsi indietro, corse giù per gli scalini e scomparve tra la folla anonima sul pontile d’approdo.” Quell’amore che aveva avuto appena lo spazio di una notte, vissuto – come esso era stato – nell’angusta cabina di un battello era in realtà diventato uno di quegli amori destinati a rimanere “nel cuore per tutta la vita.”
Ma in questo racconto, come emerge dalla sua conclusione, vi è anche il tema del dileguarsi del femminile, del suo scomparire e restare come puro ricordo, come un’essenza destinata a lasciare dietro di sé una scia del tutto priva di materia. E questo femminile così impalpabile diventa, in altri racconti, l’ombra di sé stesso, in quanto è della sua assenza, del suo non esserci più che ci parlano le evocazioni e le rievocazioni, i ricordi e i rimpianti di quegli uomini che con quell’assenza continuano o hanno continuato a vivere. Ed è su questo “inesistente” – come tale inafferrabile – che ruotano racconti come “Notte sul mare”, nel quale due uomini rievocano fra di loro quella donna morta dei quali ella è stata o che, forse, hanno solo creduto di avere avuto. O come “La grammatica dell’amore” e “Kazimir Stanislavovic” – entrambi racconti tra i più belli dell’intera raccolta – nei quali due misteriose creature femminili, senza che prendano parola e senza che esse siano presenti ne sono le protagoniste-ombra. Così in “La grammatica dell’amore”, l’amore nutrito per tutta la vita dal protagonista per quella giovane contadina Luska, morta prematuramente, era stato “…un amore incomprensibile che aveva trasformato in una specie di esistenza estatica tutta una vita umana che forse sarebbe stata normalissima se non fosse apparsa una certa Luska, dal fascino misterioso…”
Se, in conclusione, come Bunin fa dire al personaggio protagonista del racconto “Ballata”:
“Non per nulla, dell’amore si canta che:
La fiamma della passione in ognuno arde, Tutto il mondo esala amore…>>.
tuttavia questa passione che chiamiamo amore è – ci mostra Bunin – quanto di più difficile da definire e quanto di più fragile e “pericoloso” da gestire. E ben lungi dal rivelarsi “eterno” l’amore narrato da Bunin è un’incognita che tutto può confondere e tutto può cancellare. Ma soprattutto, e dolentemente, invece che predisporre alla vicinanza, finisce per essere assai spesso segnato dalla separazione e dall’indifferenza come, con queste disincantate parole, dice il protagonista del racconto “In un tempo lontano”: “… noi che viviamo per un determinato periodo sulla terra con le stesse gioie e tristezze della vita, che guardiamo lo stesso cielo, che amiamo e odiamo in fin dei conti le stesse cose, tutti condannati a una stessa pena, a una stessa cancellazione dalla superficie della terra, dovremmo provare l’uno per l’altro un’ enorme tenerezza, un commovente sentimento di vicinanza…Ma, come si sa, sentimenti del genere ci sono del tutto estranei e spesso ci separiamo persino dalle persone più care con la massima indifferenza.”
Grazie per avermi ricondotto a Bunin! Ho letto i suoi racconti tempo fa e ne ho subito il fascino. Peccato che di suo si trovi molto poco in Italia!
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Ciao Giacinta.
Grazie per la visita e per la condivisione.
Bunin è un grande scrittore purtroppo poco conosciuto e letto, sebbene in questi ultimi anni qualcosa di suo sia stato pubblicato.
Penso a quell’altra raccolta di racconti edita da Adelphi nel 2020, ” Il signore di San Francisco e altri racconti” e a quell’ altro suo libro”Giorni maledetti” edito da Voland nel 2021, cronaca della guerra civile in Russia tra il 1918 e il 1919.
In passato un altro suo bel racconto”L’affare dell’alfiere Elaghin” era stato edito da Sellerio, ma ormai lo si trova solo nell’usato.
Eppure la sua è una sensibilità così raffinata ed elegante e, soprattutto, per niente retorica e così piena di riserbo da renderlo tutt’ora attuale e vero nonché bello da leggere. Sull’ amore poi è un assoluto “esperto”.
Grazie ancora e un carissimo saluto.
Raffaele
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Si, ho tutto ciò che hai ricordato, tranne li scritto pubblicato da Voland ( grazie, mi era sfuggito). Nel signore di San Francisco ho intravisto una vena più oscura e amara. Hai avuto anche tu questa sensazione?
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“Il signore di San Francisco” non l’ho letto ma Giovanna Spendel nella prefazione di “Racconti d’amore” dice proprio quello che dici tu. Te lo riporto: “”Il signore di San Francisco”, una storia che esprime, con intensità sempre più forte, il suo pessimismo apocalittico, il senso della vanità della vita e una fatalistica sfiducia nella felicità umana e nell’amore”.
Il che conferma quell’impronta cechoviana presente nell’opera di Bunin, che egli considerava un suo maestro, e non a caso gli aveva dedicato quel suo scritto, che penso conosci, da noi edito da Adelphi: “A proposito di Cechov”.
Un saluto
Raffaele
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