“La finestra della biblioteca” – Margaret Oliphant

Nella raccolta postuma di poesie in prosa di Charles Baudelaire, nota con il titolo “Lo spleen de Paris”, pubblicata per la prima volta nel 1869 e composta da cinquanta componimenti, ve ne è uno, il trentacinquesimo, che ha come titolo “Le finestre”, il cui incipit così recita: “Chi guarda dal di fuori attraverso una finestra aperta non vede mai tante cose quanto colui che guarda una finestra chiusa…Quanto si può vedere al sole è sempre meno interessante di quanto avviene dietro un vetro. In quel buco nero o luminoso vive la vita, sogna la vita, soffre la vita”. L’ “invisibile” racchiuso in una finestra chiusa, ci dice Baudelaire, può suscitare ed evocare in noi un tale surplus di “visibile” da renderlo assai più potente ed attraente di ciò che si può vedere da una finestra aperta. Le possibili “rappresentazioni” che si possono generare nell’osservare quella finestra chiusa non afferiscono ovviamente ai principi della logica e della ragione ma un insieme di impulsi, di proiezioni, di fantasie, di aspettative, di immagini, di idealizzazioni, di trasposizioni, di vissuti e di desideri che affondano nella nostra psiche e nella nostra mente. Ed è tale insieme che conduce al determinarsi di una superiore forza dell’ “invisibile” rispetto al “visibile”, con la conseguenza che la “visione” – che è il prodotto dell’ invisibile – finisce per essere più catturante della stessa vista che ci fa vedere il visibile.

In altre parole è il generarsi di una linea di confine tra sogno e realtà, tra immaginato e osservato, tra apparire e scomparire, tra possibile e impossibile, tra vero e falso, nella quale inopinatamente ci si viene a trovare, che diventa tanto più difficile da comprendere, da decifrare e da accettare in quanto è a occhi aperti e nella pienezza delle proprie capacità cognitive che si svolge questa esperienza. Ed è proprio di questo tipo di esperienza che Margaret Oliphant ne ha fatto il centro, anzi, direi, il vero e proprio protagonista, del racconto “La finestra della biblioteca” che è uno dei suoi racconti “visionari” che fa capo alla raccolta “Storie del visibile e dell’invisibile”.

Questi racconti sebbene siano stati considerati, per molto tempo, secondari nell’insieme della produzione della Oliphant, sono diventati negli ultimi anni oggetto di riscoperta e di attenzione sia a livello di critica che editoriale. In particolare, per quanto riguarda “La finestra della biblioteca”, le sue qualità hanno indotto a collocarlo, nell’ambito della letteratura fantastica di lingua inglese, accanto a opere come “Il giro di vite” di Henry James, con il quale ha in comune lo stesso tema della “visione”, anche se non la stessa complessità e profondità, derivante dalle implicazioni in termini di bene e male presenti nel racconto di James. Ma di cui è precursore precedendolo cronologicamente, dato che “Il giro di vite” è del 1898 mentre “La finestra della biblioteca” fu pubblicato per la prima volta nel gennaio del 1896, giusto l’anno prima della morte della Oliphant, avvenuta a Wimbledon nel 1897, a 69 anni, essendo nata nel 1828 in Scozia.

Come sintetizza Silvio Raffo nella sua prefazione all’edizione de “La finestra della biblioteca” pubblicata dalla Elliot nel 2022, Magaret Oliphant, è stata “Una narratrice…definibile nella quasi totalità delle sue opere scrittrice “realistica” incline all’indagine dei comportamenti tipica del novel of manners ma disposta a concedersi, per così dire, una deviazione di percorso (analogamente alle sue più illustri colleghe Edith Warton, Louisa May Alcott ed Elizabeth Gaskell) nella no man’s land del genere fantastico-visionario con una serie di prodigiosi racconti intitolata per l’appunto Stories of the Seen and the Unseen….e nella sua deliziosa Finestra della biblioteca (un vero e proprio testo di “illustrazione” di un mondo alternativo) ci invita ad aguzzare la vista su qualcosa di “perturbante”, non propriamente awful ma di certo “straniante”, riuscendo a mantenere per tutte le cinque sezioni del racconto…quell’ambiguità in cui Todorov individua il carattere di maggiore fascinazione del genere fantastico”.

Quel requisito cioè – centrale per Todorov nelle narrazioni di tipo fantastico – che è l’ “esitazione” provata dal lettore nei confronti di ciò che sta leggendo e cioè se la natura degli eventi narrati attiene alla realtà o a una “visione” e finché il dubbio indotto da tale “esitazione” esiste, la tensione e la presenza del fantastico rimane viva. E infatti “La finestra della biblioteca” è percorso, sin dall’inizio, da una condizione di incertezza e di dubbio che incrina la stabilità della realtà e il potervi fare affidamento in modo inequivocabile. L’opinabilità su quella che è la reale natura delle cose, sulla consistenza o inconsistenza che esse hanno, fino ad arrivare ad una opinabilità sulla loro esistenza o non esistenza attraversa tutto il racconto e solleva una serie di domande sull’ idea di realtà sintetizzabile nell’interrogativo: quello che vediamo è la realtà delle cose o è quello che crediamo di vedere.

L’opinabilità si presenta, all’inizio, non solo come possibile ma come un dato di fatto con il quale si convive. Tale infatti sarà il modo in cui essa viene vissuta con riferimento alla effettiva natura di quella “finestra della biblioteca” che l’adolescente, protagonista del racconto, nonché io narrante, vede dalla finestra del salotto dell’ anziana zia presso la quale è ospite durante quelle sue vacanze estive. Ella amava infatti sedersi a quella finestra che aveva una profonda nicchia nella quale si rintanava per stare con se stessa ed estraniarsi dal resto della casa, rivolgendo lo sguardo all’esterno o immergendosi nella lettura. E, proprio di fronte ad essa, vi era quella biblioteca con quella sua strana finestra.

La Oliphant, tramite la narratrice, ci dice subito, già nell’ incipit, che su quella finestra – che diverrà così importante nell’economia del racconto – esistevano difformi attribuzioni riguardo la sua natura: “In origine non ero a conoscenza delle numerose discussioni che si erano tenute a proposito di quella finestra.” È infatti con queste parole, dette dalla protagonista-narratrice, che inizia il racconto e l’allusione insita in tali parole troverà riscontro quando ella riporterà il contenuto di quella conversazione tra sua zia e quelle sue vecchie amiche venute a trovarla, nel corso della quale viene fuori che su quella finestra aleggiava un “mistero” che si trascinava da tempo e che non aveva ancora avuto soluzione: “<<La domanda è>> disse mia zia <<se si tratti di una finestra vera, con il vetro, o se sia soltanto dipinta, o se un tempo fosse una finestra che in seguito è stata murata. E più la gente la guarda, meno riesce a decidersi.>>”

L’opinabilità è quindi introdotta ed ammessa come una possibilità insita nelle cose. E il dilemma vero/falso e cioè: una finestra vera, oppure una finestra dipinta o una ex finestra, si presenta sulla scena come una condizione palese, implicando una indefinibilità della realtà che la stessa protagonista rileva quando la zia e le sue amiche si affacceranno tutte insieme per rivedere quella finestra: “Erano tutti accalcati nella mia nicchia, accalcati addosso a me: una fila di vecchi volti che scrutavano qualcosa che non riuscivano a comprendere.” E ognuna di quelle persone vedrà, in relazione a quella finestra, cose diverse andando dal definirla “…soltanto un’illusione”, al considerarla finta perché “Se fosse una finestra vera, la biblioteca avrebbe più luce”, al percepirla come “…una finestra che non fa luce”, al vedervi “…dei bagliori sul vetro, quando nel pomeriggio vi si riflette il sole.”

Ma un attaccamento a quel “mistero”, una sorta di segreto timore verso di esso, finiranno per non far fare nulla affinché esso possa trovare una spiegazione: “<<…potreste soddisfare così facilmente la vostra curiosità se decideste di…>> <<Dare un penny a un ragazzino affinché scagli una pietra e vedere che succede>>…<<Non sono sicura, tuttavia, di avere il desiderio di soddisfare la mia curiosità>> disse zia Mary. Se dunque il rientro nella realtà, per gli altri, avrà il sopravvento così non sarà per la giovane protagonista che si troverà, ben presto, in relazione a quella finestra, coinvolta in un’ esperienza fatta di disorientamento e di turbamento, determinati dal “vedere”, a quella finestra, l’apparire di una presenza che le si manifesterà in modo sempre più vivido, laddove, per gli altri, non c’è che una non meglio precisata finestra sul muro della casa di fronte.

Tale visione troverà terreno fertile in due fattori uno interno ed uno esterno alla giovane protagonista. Quello interno è la sua spiccata sensibilità e acutezza percettivo/immaginativa che le consentiva di “… fare due, anzi, tre cose allo stesso tempo: leggere, ascoltare e vedere…in effetti udivo ciò che non potevo fare a meno di udire, persino leggendo il mio libro, e vedere ogni genere di cose, sebbene spesso non alzassi mai gli occhi per una buona mezz’ora.” A queste “capacità” che la Oliphant attribuisce alla protagonista rendendola quindi particolarmente predisposta a “sentire” e a ” vedere” in modo più intenso e ricettivo rispetto agli altri, si aggiunge l’ambiente esterno in cui – dato il luogo e il periodo dell’anno nei quali è ambientato il racconto – si verificava quel particolare contrasto luce/ombra che giocherà un suo ruolo nell’ alimentare quell’ambiguo effetto tra “il cosa si vede” e ” il cosa si sta credendo di vedere”: “…le sere di giugno in Scozia – quello è il momento giusto per vedere. Perché vi è una luce che è ancora del giorno e al tempo stesso non lo è, e ha una caratteristica che non saprei ben descrivere: è così trasparente, come se ogni oggetto fosse il riflesso di se stesso.” Un contrasto luce/ombra che da fisico, quale esso è, diverrà, nel corso del racconto – per così dire – sempre più metafisico, nella misura in cui contribuirà in modo inscindibile al formarsi o al dissolversi dell’ immagine di quello “sconosciuto” che la giovane protagonista dice di vedere.

A fronte dell’incapacità di penetrare con la vista in quella finestra, manifestata da “…quelle vecchie signore mezze cieche”, come le definirà, con non malcelata insofferenza, la giovane protagonista, quest’ultima, incuriosita da quelle discussioni, rivolgerà invece la sua attenzione a quella finestra e inizierà, in modo via via sempre più penetrante, a guardarci “dentro”. Appurando che – per lei – quella finestra esisteva: “… quanto fosse assurdo dire che non era una finestra, una finestra vera, una finestra da cui vedere fuori”, avendo ella avvertito, dietro ad essa, “… una sensazione di spazio…uno spazio che si spingeva indietro nel buio, come qualsiasi stanza quando la si guarda dall’altra parte della strada…e che fosse una stanza…lo era senza alcun dubbio”. Approfondendo ulteriormente le apparirà pure un “… oggetto grande, scuro e nero che si stagliava nel grigiore”, deducendo che doveva trattarsi di “…una grande libreria… visto che la stanza faceva parte della vecchia biblioteca”.

Ma tutte queste cose viste e affermate così perentoriamente non appena la luce era mutata di intensità erano scomparse ai suoi occhi, affondando nel nulla: “C’era ancora un po’ di luce, ma era cambiata così tanto che la stanza, con il suo spazio grigio e la grande libreria scura, si era spenta, e io non vedevo più né l’uno né l’altro.” Tuttavia, passati alcuni giorni, quell’ “apparizione” della stanza dietro quella finestra si ripresenterà “…ben più nitida di prima”. Questa volta, però , “…il grande mobile appoggiato al muro”, che le era sembrato una libreria, era diventato “…un grande “secretarie” antico” ma, soprattutto, tale “secretarie”, corrispondeva perfettamente a quello che si trovava nella biblioteca di suo padre: “Ne avevamo uno identico a casa, nella biblioteca di mio padre”. Ma, anche questa volta, ad un nuovo sguardo: ” Tutto era tornato vago e indistinto come in principio”.

Ora questo riferimento alla casa paterna, ai suoi arredi e, soprattutto, alla figura paterna si ripresenterà anche nelle successive “visioni” che la protagonista avrà. Come se, in queste sue “visioni”, si ricostituisse il suo immaginario paterno. Infatti nei giorni successivi il contesto di quelle “visioni” si arricchisce di particolari: fogli di carta sullo scrittoio, pile di libri al suo fianco che rimandano ad analoghe immagini che la ragazza ha nella sua mente in relazione a suo padre: “Mi veniva spontaneo paragonare la stanza di fronte allo studiolo di papà… Talvolta vedevo i fogli sul tavolo, nitidi, proprio come spesso avevo visto quelli di mio papà”. Intanto, ad ogni dissolvenza, si sentirà sempre più combattuta tra il sentirsi in preda a un sogno e il credere che tutto ciò fosse reale: “Ero così irritata, vedendo che tutto si era dissolto come in un sogno: poiché non era affatto un sogno, era reale come…me stessa, o qualunque altra cosa avessi mai visto”

E così, riflettendo con se stessa, la protagonista osserverà che non solo quella finestra “… sembrava diversa..a persone diverse, ma anche allo stesso paio d’occhi in momenti diversi. Ovviamente mi ero detta che doveva trattarsi di un semplice effetto della luce. Eppure neanche quella spiegazione mi piaceva granché”. Insomma sembra, alla stessa protagonista, alla luce di quelle “visioni” che vanno e vengono, di trovarsi su quella linea di confine tra sogno e realtà, tra possibile e impossibile, tra immaginato e osservato, tra vero e falso di cui si è detto. Ma queste “visioni”- ci si può chiedere – arrivano alla protagonista da fuori, cioè si formano e a lei appaiono o è lei che se le crea. In altre parole c’è un mondo fantasmatico in quella stanza che a lei si materializza o è lei, la giovane visionaria, che con le sue proiezioni lo crea. E ciò assumerà una valenza ancora più forte allorquando arriverà quella “visione” fatale di quel giovane, chino sui libri, intento a scrivere: “Era seduto sulla sedia che lui stesso doveva aver piazzato lì, di fronte al secretarie,…e scriveva, dandomi le spalle…era impossibile scorgere qualsiasi dettaglio del suo volto.”

Rapita e catturata da quella “visione” la protagonista ne è preda, restandone ammaliata: “Mi trovavo in una sora di contemplazione, con il fiato sospeso, completamente assorta. Non avevo occhi per nient’altro, non avevo spazio per nessun altro pensiero.” Fino a sentirsi come in un nuovo mondo: ” Era tutto così interessante che mi sembrava di avere scoperto un nuovo mondo”, rendendola ciò sempre più convinta che il suo sguardo l’aveva messa di fronte ad una realtà effettiva: “…come se ciò che si vede con gli occhi fosse qualcosa di opinabile”. E, ancora una volta, a venirle in mente è l’ immagine paterna, in un confronto puntuale fra quello “sconosciuto” e suo padre: “Lui era del tutto assorto nella scrittura… né si alzava e passeggiava per la stanza come faceva mio padre. Papà era un grande scrittore, a detta di tutti: ma lui si sarebbe avvicinato alla finestra e avrebbe guardato fuori”

Tuttavia anche questa nuova apparizione, come le precedenti, svanirà e tutto tornerà nel vago, con la frustrazione che, come al solito, in quei momenti prenderà il sopravvento: “La luce era mutata in modo stupefacente in quei cinque minuti in cui ero via, e adesso non vi era nulla, proprio nulla: né un riflesso, né un bagliore. Sembrava proprio come dicevano tutti loro, una sagoma vuota di una finestra dipinta sul muro. Fu troppo: mi sedetti, in preda all’agitazione, e piansi come se mi si fosse spezzato il cuore.” Ma questa volta, a quella prima apparizione ne seguiranno altre, con un crescendo di particolari che avvicineranno, via via, i contorni di quella figura rendendola agli occhi della protagonista sempre più nitida. Ed esse saranno così frequenti da diventare praticamente quotidiane, producendole ciò uno stato di concentrazione tale da isolarla dal resto del mondo: “Ero… assorta a guardarlo ogni sera – poiché ormai non mancava neanche una sera, era sempre lì – che la gente cominciò a commentare che ero pallida e che di sicuro non stavo bene, poiché non prestavo alcuna attenzione quando parlavano, e non avevo voglia di uscire,… ne di fare qualsiasi altra cosa facessero gli altri”.

Ma un’imprevista visita all’interno delle sale di quella biblioteca creerà un nuovo e inatteso sgomento: la finestra della biblioteca, laddove sarebbe dovuta essere, non c’era. “Il luogo era la stanza che conoscevo io, quella…in cui si trovava il secretaire, quella dove lui sedeva con il viso rivolto alla luce. Ma dov’era la luce e dov’era la finestra da cui entrava? “ E, in effetti, quella finestra come tale non esisteva, era stata creata fittiziamente. Essa appariva all’esterno, ma non era una vera finestra, come le dirà uno dei presenti: <<Ah, siete caduta nel tranello di ciò che appare dall’esterno…Fu messa lì per creare un senso di uniformità con la finestra sopra la scala. Ma non è mai stata una vera finestra. Si trova proprio dietro quello scaffale. Molta gente ne è tratta in inganno>>.

Nonostante quella “rivelazione”, che fa di quella finestra il “disegno” di se stessa, l’effetto stordente che essa produrrà invece che indurla alla rinuncia, alimenteranno in lei ancora di più la “visione”, fino al punto di instaurarsi quella che lei vivrà come una vera e propria reciprocità di sguardi tra lei e il suo “sconosciuto”. Dopo essersi rivolta a lui e averlo incitato a parlarle in nome di una comune solitudine che ella gli attribuisce: “<<Parlami! Non so chi tu sia, o cosa tu sia: ma vedo che ti senti solo, e come te anch’io;…Dimmi qualcosa!>>”, le sembrerà che egli le si manifesti, aprendo la finestra e incrociando il suo sguardo: “Si avvicinò alla finestra e rimase in piedi a guardarmi. Ero sicura che mi stesse guardando. Mi aveva vista infine…Ero in uno stato di turbamento e di agitazione…Poi mise le mani sulla finestra per aprirla…e quando la aprì il rumore echeggiò per tutta la strada. Mi accorsi che la gente l’aveva sentito, e diverse persone avevano alzato lo sguardo…Poi si sporse e guardò fuori. Non potevano che averlo visto tutti, in strada…guardò verso di me e mi fece un piccolo cenno con la mano…il mio sguardo andava di pari passo con il suo, lo seguivo come un’ombra, finché all’improvviso lui sparì, e io non lo vidi più.”

Le aspettative, nutrite dalla protagonista, che quella “visione” non fosse più solo sua, resteranno “ovviamente” deluse e chi le sta intorno comincerà ad avere paura e apprensione per quella sua ostinata ricerca di conferme che si scontrerà con l’evidenza di sempre: “<<Ecco!>> esclamai, voltandomi e indicando la finestra con una sensazione di trionfo…Ma la luce era tutta grigia, era sbiadita, era cambiata. La finestra era com’era sempre stata, un cupo varco nel muro. Fui trattata come un’inferma per tutta la sera: mi portarono di sopra, a letto, e zia Mary rimase seduta nella mia stanza per tutta la notte.”

Non sapremo mai se e chi ella aveva visto. L’evanescenza e le ombreggiature di questa storia avranno alla fine il sopravvento e saranno l’unica vera realtà di essa, come sicuramente l’Oliphant voleva che fosse. Ma in questa ragnatela finissima, in questo tessuto che, come un prezioso pizzo, si distende e avvolge concentricamente il racconto restano al suo interno, come impigliati, degli interrogativi aperti. Era stato tutto un inganno o forse ella aveva visto qualcosa? Magari il “fantasma” di quell’ “…uomo…che teneva ai suoi libri più che all’amore”, di cui la zia, riportando un “Si dice”, le accennerà la storia che aveva avuto una protagonista che assomigliava a lei. Ma siccome “…l’immaginazione ordisce grandi inganni”, come lei stessa dirà – rievocando quei fatti, molti anni dopo – forse quelle sue visioni contenevano nient’altro che dei suoi desideri, delle sue fantasie: quella paterna, oppure quella di avere qualcuno con cui condividere la sua solitudine, oppure quella dell’amore giacché, come le dirà un’amica della zia, ” <<… non fidarti mai di ciò che vedi dalla finestra>>…<<Gli occhi ingannano, e lo stesso il cuore>>.

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