Aleksiej Fjodorovic Laptiev conosciuta Giulia Sierghejevna – figlia del medico che ha in cura la sorella di Aleksiej, in quella piccola città di provincia dove ella vive e presso cui egli è in visita – era rimasto attratto dalla bellezza e dalla giovinezza di lei e, divenuto preda di quell’attrazione, se ne innamora, nonostante che quel suo amore sia, a suo modo, impossibile. Perché Aleksiej “…sapeva di non essere bello…Era piccolo di statura, magro, aveva le guance rosse e presto sarebbe rimasto calvo…In compagnia delle donne spesso appariva goffo, era troppo ciarliero e lezioso” Ma, soprattutto, egli vive quella sua scarsa attrattività in modo sofferto e negativo, investendo di quella negatività tutto se stesso, fino al punto di disprezzarsi come persona, non accettandosi così come è. Di fondo Aleksiej Fjodorovic Laptiev aveva sempre avuto una invincibile timidezza e non era certo un uomo forte, laddove l’essere buono, intelligente e serio, quale egli era, non compensava l’ apparire un debole, prima di tutto a se stesso e, di conseguenza, anche agli altri: “…se si tratta di agire, dimostrarsi uomo di carattere, affrontare un insolente ed uno sfacciato, egli si confonde e si perde d’animo…Gli individui come il vostro Aljoscia, sono delle persone eccellenti, non nego, ma sono incapaci di lottare e, in genere, buoni a nulla.” Così infatti, e cioè con spietata sincerità, dirà un giorno a Giulia uno degli stessi amici di Aleksiej.
Eppure il desiderio che Aleksiej prova per Giulia sarà così forte che, quasi senza sapere come, egli le rivelerà l’amore che nutre per lei e le chiederà di sposarlo: “…soggiunse piano, quasi senza rendersene conto e senza riconoscere la propria voce: – Se voi acconsentiste a divenire mia moglie, io sarò pronto a tutto. Darei tutto…Non esiste un prezzo, un sacrificio che io non voglia accettare pur di avervi per moglie”. Ma quella dichiarazione, del tutto inattesa per Giulia, la getterà in uno stato di confusione e di smarrimento e la sua prima e istintiva reazione sarà il diniego, non considerando ella Aleksiej un uomo “interessante”, conoscendolo poco, né avendola egli “preparata” con il sia pur minimo corteggiamento: “La ragazza trasalì e lo guardò meravigliata e spaurita. – Che dite?…Che dite?… – esclamò impallidendo. – Ciò è impossibile, ve lo assicuro. Scusatemi…- poi in fretta, facendo frusciare il vestito, salì su e scomparve dietro una porta”.
Quell’inaspettata proposta riduce “Giulia Sierghejevna alla disperazione” perché “Egli non le piaceva, aveva l’aspetto di un commesso, non la interessava, ed ella non avrebbe potuto rispondere altrimenti che con un rifiuto, però si sentiva a disagio come se avesse commesso una cattiva azione.” Giulia non prova quindi nulla del sentimento che invece Aleksiej prova per lei, non lo ama eppure è tormentata da paure e dubbi e sola con se stessa: “…non aveva nessuno per confidarsi”, si interroga se poi, in fondo, non sia uno sbaglio limitarsi a reagire alla proposta di Laptiev solo in base ai sentimenti: “Essa continuava a domandarsi se aveva agito bene rifiutando la proposta onesta di un uomo soltanto perché non le piaceva il suo fisico…essa si diceva, che non amando Laptiev e dovendolo sposare, avrebbe dovuto dare l’addio per sempre ai suoi sogni, alle sue idee sulla felicità e sulla vita coniugale, ma d’altra parte avrebbe potuto mai incontrare colui che sognava, avrebbe mai potuto amare?…Giulia aveva ormai ventun anni, questo lo sapeva e sapeva anche che in città scarseggiavano i pretendenti…Laptiev invece, comunque fosse, era nativo di Mosca, aveva studiato all’ Università, parlava francese, viveva nella capitale dove c’erano molte persone colte, nobili ed altolocate, dove ferveva la vita…Forse senza amore è impossibile la vita familiare?…Ma se si dice che l’amore cessa presto e rimane solo l’abitudine…E intanto pensava alle vecchie zitelle povere ed inutili incontrate spesso nella sua vita, ai loro amari pentimenti ed alla loro tristezza per avere un tempo rifiutato delle occasioni di matrimonio. Si impadroniva di lei il timore di doversi trovare nelle stesse condizioni…La ragazza aveva esaminato la propria coscienza e solo allora le era parso chiaro ed evidente che rifiutare la propria mano ad un uomo buono, per bene, innamorato, per la sola ragione che non le piaceva, considerando che questo matrimonio era l’unico mezzo che si presentava per mutare la sua esistenza triste, monotona ed oziosa, mentre la giovinezza sfioriva senza lasciar prevedere per il futuro nulla di più luminoso , sarebbe stata una pazzia, sarebbe stato un capriccio per il quale Iddio avrebbe potuto punirla.”
All’irrazionalità dell’amore che agisce in Laptiev, Giulia oppone quindi un’altra irrazionalità: quella delle sue paure che la proiettano in un futuro di solitudine e di isolamento. Ed è su queste basi che matura in lei la decisione di accettare la proposta di Laptiev e di sposarlo pur non amandolo. E, presa quella decisione, gliela comunica in modo laconico ed asettico, senza motivarla in alcun modo, contenendo ciò il primo apparire della mancanza, tra loro, di comunicazione: “- Ieri ho riflettuto a lungo, Aleksiej Fjodorovic…accetto la vostra proposta…- Vi prometto che sarò una moglie fedele…devota”.
Laptiev, sensibile qual’ è, capisce subito che in quella decisione di Giulia a mancare è proprio l’amore, ma egli di fronte alla prospettiva di poterla avere con sé accetta l’umiliazione di quella dichiarazione priva d’amore: “Egli si chinò e le baciò la mano, ella lo baciò sulla testa, impacciata e con le labbra fredde, e Laptiev comprese in quell’istante che in quella dichiarazione amorosa mancava l’essenziale: l’amore di lei, mentre c’era in compenso molto di superfluo ed egli avrebbe voluto gridarle questa verità, fuggire, partire subito per Mosca, ma Giulia gli stava vicino, gli pareva tanto bella e la passione si impadronì all’improvviso di lui… Aleksiej Fjodorovic…sentì un profondo senso di vergogna per avere accettato in cambio del suo puro e sconfinato sentimento la semplice affermazione che Giulia sarebbe stata una <<fedele e devota moglie>>”
Due irrazionalità quella del sentimento di Laptiev e quella delle paure di Giulia, entrambe frustrate dall’assenza di un comune sentire e di uno slancio reciproco, faranno perciò da levatrici della loro relazione e del loro matrimonio. E il sospetto che Giulia, nel decidere di sposarlo, avesse fatto un calcolo, “magari non del tutto cosciente”, dato che egli era figlio di un ricco commerciante moscovita, si fa strada nella mente e nell’animo di Laptiev, ampliando, tale sospetto, quella lacerazione che la mancanza d’amore e di intimità tra di loro già di per sé produceva.
Celebrato il matrimonio, lì stesso dove si sono conosciuti, e trasferitisi a Mosca, da subito, si genererà e si instaurerà, all’interno di quel loro matrimonio, una sostanziale estraneità, rendendo quanto mai fosco il vissuto di entrambi: “ …Giulia Sierghejevna, dopo due notti passate nella casa del marito, considerava già il suo matrimonio come un errore ed una sventura e se avesse dovuto vivere con suo marito non a Mosca, ma in una città qualsiasi, sentiva che non avrebbe potuto sopportare questo martirio. La capitale la distraeva…”
A sua volta Laptiev – messo di fronte alla sua realtà coniugale dalla sua ex amante Polina, donna colta e interessante, ma “…piuttosto brutta…”, che gli rinfaccia la scelta che ha fatto avendole preferito Giulia: “Con chi vi siete sposato? Eravate pazzo…dove avete gli occhi? Che cosa avete trovato di attraente in questa stupida ed insignificante ragazza? – ammette senza reticenze la sua infelicità e riconosce apertamente di vivere anch’egli, quel suo matrimonio, come un errore: “Lasciate andare…- disse egli con voce supplichevole. – Io stesso mi sono già detto mille volte tutto quello che voi potete dirmi riguardo al mio matrimonio…Non cagionatemi dunque un dolore superfluo.” Pur ribadendo, alla domanda di Polina: “E voi l’amate?”, di amare Giulia Sierghejevna e di amarla “Pazzamente”.
Giulia per reazione all’insofferenza che prova per quella situazione assume nei confronti di Aleksiej un’indifferenza che rasenta talvolta l’ostilità e, per non condividerne la presenza, comincia a frequentare gli amici di Aleksiej, preferendo le “distrazioni” che gli procura l’allegra vita notturna della città. Di fatto finiscono entrambi per rinchiudersi in due mondi separati, segnati dall’incomunicabilità: “Ella scriveva delle lunghe lettere di cinque pagine alle sue compagne di collegio e al padre e non le mancavano mai gli argomenti, ma con lui parlava solo del tempo, dell’ora di pranzo o di cena” E quindi, per paradosso, se della vita non ne condividono la felicità, tuttavia ne condividono entrambi l’infelicità.
E di ciò ne è un amaro riscontro quell’assenza della condivisione non solo degli affetti ma anche della complicità, come Laptiev constata e rimarca, soffrendone profondamente: “Tutto per lui nella sua vita coniugale era un continuo tormento: quando la moglie, seduta accanto a lui a teatro, sospirava o rideva di cuore, egli provava un senso di amarezza per l’egoismo di lei che gli impediva di condividere con lui il suo entusiasmo.”
Aleksiej è tanto più tormentato da quelle lacerazioni perché comprende che esse risiedono nell’ “incompatibilità affettiva” che è alla base di quell’unione, riconoscendo la fondamentale onestà di Giulia, che lo ha sposato non per “soldi”, come dirà a Polina, che invece aveva gettato su Giulia proprio quell’ombra: “Però i denari li prende da voi”, bensì – per l’idea che lui se ne era fatta – “...perché voleva vivere lontano dal padre”, come in effetti era stato, essendo stato per Giulia quel matrimonio anche il mezzo per emanciparsi dalla casa paterna e dalla vita di provincia, da lei vissute come ormai prive di prospettive. Ciò non toglie tuttavia che l’oggettivo “scambio” insito in quel matrimonio lo rendeva, di fatto, soggetto ad apparire una merce: “E mentalmente ingiuriava lei e se stesso, pensando che ciascun contatto carnale con la moglie, non era in sostanza che un atto volgare: uno che paga e l’altra che vende” Pensiero questo coltivato da Aleksiej solo con se stesso all’interno di quella sorta di monologo interiore con cui convive. E quel pensiero è per Aleksiej ancor più doloroso in quanto sa che Giulia ha un animo limpido e, per questo, quella situazione lo avvilisce ancor più: “Questo pensiero lo agghiacciava di spavento accresciuto dalla persuasione che non si trattava di una donna vissuta, corrotta ed audace, ma di una giovane, religiosa, mite, dagli occhi innocenti e puri…”
Nel racconto di questa impossibilità di vivere e provare amore reciproco tra due persone che in realtà hanno entrambe una natura e uno spirito semplice e puro e quindi affine, Čechov rivela quanto imponderabile e sfuggente sia il sentimento dell’amore e quanto la sua forza possa essere aleatoria. “Tre anni” diventa così anche un racconto sull’amarezza e sulla disillusione nei confronti dell’amore e della sua possibilità di essere vissuto pienamente, restando le sue dinamiche imperscrutabili: “E se non mi si ama, non posso costringere ad amarmi, anche spendendo cento milioni”, dirà rassegnato Laptiev ad evidenziare quanto la ricchezza fosse vana ed inutile per quello scopo. E poi, ancora più amaramente: ““E questo si chiama felicità coniugale…” pensò con scherno deridendo se stesso. “Questo è l’amore!…””. Così, a fronte della “necessità” che quel sentimento ha per gli uomini, la sua espressione e la sua realizzazione si rivelano assai precarie, come Čechov ci mostra e come farà dire a uno degli amici di Laptiev: “…vivere senza amore si vive male…Noi siamo capaci di parlare e di leggere intorno all’amore, ma il male sta nel fatto che, in realtà, amiamo poco”.
Di fatto quindi la vita fra Aleksiej Fjodorovic e Giulia Sierghejevna si svolge, per entrambi, come in un prigione senza sbarre, in un crescendo di tensione e di malessere che giorno dopo giorno si accumula e che sfocerà in un drammatico faccia a faccia nel quale mettendo a nudo il loro dolore, daranno finalmente voce a quel non detto tenuto, da sempre, taciuto: “- Tu sei mia moglie da sei mesi, ma nella tua anima non c’è neppure una scintilla d’amore, non una speranza…Perché mi hai sposato?…- continuò Laptiev con disperazione. – Perché?…Ella lo guardava con terrore quasi temendo che egli volesse ucciderla.- Io ti piacevo? Mi hai voluto bene? – proseguì Laptiev ansando. No! E perché allora non mi hai respinto? Perché?…
…mi è sembrato che dicendoti di no avrei agito male. Temevo di guastare la tua vita e la mia. Ed ora soffro e pago con la mia sofferenza atroce l’errore commesso. – Ciò dicendo essa singhiozzo più forte ed egli comprese tutta la sua sofferenza…
Quel momento di “dialogo” nel confermare i moventi di quel matrimonio e cioè: le paure e i sensi di colpa di Giulia da una parte e la tensione amorosa, istintiva e pulsionale, di Aleksiej dall’altra, non schiuderà però tra loro una nuova era basata su una comune e reciproca passione capace di far vivere loro la pienezza dell’amore. Né sarà, per contro, l’inizio di una definitiva ed irreversibile lacerazione.
Esso sarà invece l’inizio di una nuova fase della loro relazione segnata da una accettazione delle cose divenuta, per così dire, “inevitabile”, marcata, cioè, dal sentirsi parte di un legame che ormai, per tanti motivi, è tale, e che troverà, tra tali motivi, quello indiscutibilmente più importante, nella nascita di una bimba, Ola, a cui Giulia destinerà quell’affetto e quell’amore che fino ad allora non aveva mai realmente provato, come ella stessa dice, rispondendo ad uno degli amici di Aleksiej che, un giorno, le chiede: “- Diteci un po’ chi amate di più, il marito o la bimba?
Giulia si strinse nelle spalle e disse:
– Non lo so. Non ho mai amato troppo follemente mio marito ed Ola in sostanza è il mio primo vero affetto. Voi lo sapete io non ho sposato Aleksiej per amore. I primi tempi del matrimonio ero stupida e soffrivo, pensando che avevo rovinato la sua e la mia vita, ma ora vedo che non c’è bisogno di nessun amore e che sono tutte sciocchezze quelle che si dicono su questo tema”
E quindi le chiederà il suo interlocutore: “…quale sentimento vi lega a vostro marito se, come dite, non lo amate? Perché vivete con lui?
– Non so… Forse per abitudine. Lo stimo, mi annoio quando sta lontano per molto tempo, ma questo non è amore. Trovo che egli è un uomo intelligente ed onesto e ciò basta per la mia felicità. Egli è anche molto buono, semplice…”
In queste pacate ma malinconiche e rassegnate parole di Giulia vi è un acquietarsi dell’anima ma anche della passione. Una consapevolezza e, al tempo stesso, un disincanto. Un’accettazione del fatto che non vi sarà altro sbocco possibile e che questa, e non più di questa, può essere la felicità concessa. E in questa rassegnazione è ravvisabile “…quella poesia del minimo e del fuggevole, del marginale e del sottaciuto che ha trovato [uno] dei suoi maestri in Čechov…” (Claudio Magris – “L’anello di Clarisse” – Einaudi – 1999 – p.79). In tal senso, come è stato osservato, “Qualche critico ha rimproverato ai personaggi di Čechov, di non lottare per la propria felicità, di rassegnarsi e trovare pace nella propria impotenza. Ma in Čechov il conflitto nasce senza soluzione di continuità, il dolore non ha perché, la vita è mistero che tale rimane e come tale si ripete, e niente la riscatta e la giustifica…”. (Caterina Maria Fiannacca – “Postfazione” in Čechov – “Oci ciornie-Storie di matrimonio” – Passigli – 1987 – p.232).
Le cose in Čechov si trasformano quindi inesorabilmente in nostalgia di se stesse, come avverrà anche in “Tre anni”, allorquando anche quell’ unica felicità raggiunta, rappresentata da Ola, svanirà giacché la bambina, ammalatasi, morrà e quindi non solo l’amore ma anche ogni speranza di vita nuova, di gioia possibile che si schiude, appare destinato a perire. Ma questo perché “Per Čechov, la morte non è elemento estraneo all’esistere, un episodio drammatico circoscritto alla fine della vita, ma la pervade tutta, la invade, come una realtà ineludibile senza la quale è semplicemente assurdo pensare la propria avventura.”(C.M. Fiannacca, cit. pp.233-234).
E anche da Laptiev il definitivo disincanto per ogni possibile futura felicità sarà affermato come una inesorabile certezza: “- In ogni modo bisogna abbandonare ogni speranza di felicità. Essa non esiste. Per me non è mai esistita e probabilmente non esiste per nessuno. No, m’inganno. Veramente sono stato felice una volta nella mia triste esistenza, quella notte passata insonne sotto il tuo ombrellino aperto. Ti ricordi che avevi dimenticato il tuo ombrellino da mia sorella Nina? – chiese rivolgendosi alla moglie. – Allora io ero innamorato di te e ricordo che tutta la notte rimasi sotto quell’ombrellino provando un senso stranissimo di beatitudine…Aprì un cassetto, prese l’ombrellino e lo porse alla moglie, dicendo: – Eccolo!
Giulia lo guardò un attimo, lo riconobbe e sorrise tristemente.
– Mi ricordo. Si…Quando mi facesti la dichiarazione d’amore lo tenevi fra le mani – ed accorgendosi che egli si disponeva ad uscire soggiunse: – Mi farai un particolare favore, se è possibile, tornando presto. Senza di te sto male. Poi andò nella sua stanza e guardò a lungo l’ombrellino”
L’affettuoso e tenero ricordo di quel lontano momento è forse l’unico pegno d’amore che lega e legherà per la vita Aleksiej e Giulia. Ma alla fine, pur nel distacco di quell’esistenza segnata da un amore mai realizzatosi – e adesso svanito pure per Laptiev – tuttavia un legame umanissimo si è generato, nonostante tutto, tra loro. Un legame che può riscaldare il gelo di quelle loro sofferte esistenze, salvandoli dal grigiore, dalla finzione, dalla volgarità. E alla fine pure la voglia di parlarsi e di raccontarsi farà la sua apparizione, sciogliendo tenerezze e slanci inattesi e lasciando aperta una porta al fluire imprevedibile della vita: “ – Ella si alzò e gli passò la mano sui capelli guardando con curiosità il suo viso, le sue spalle e il suo cappello. – Lo sai, io ti amo! – proseguì arrossendo. – Tu mi sei tanto caro. Non ti saprei dire quanto sono felice che tu sia arrivato e che io ti possa vedere. Su parliamo. Raccontami qualche cosa.
Aleksiej Fjdorovic ascoltò questa inattesa dichiarazione d’amore di sua moglie con indifferenza , perché aveva la sensazione di essere sposato con lei da almeno una decina anni…
…pensò. “Quanti cambiamenti sono avvenuti in questi tre anni…Ma forse avremo ancora da vivere tredici oppure trent’anni…e nessuno può sapere che cosa ci attende nell’avvenire. Se vivremo, sapremo…”