“La vita agra” è un romanzo che ha avuto un destino che, a tutt’oggi, non finisce di stupire. Pubblicato nel 1962 e ambientato e calato come esso è nella Milano anni ’60, quelli del boom economico, “La vita agra”, finiti quegli anni, sarebbe potuto presto risultare un romanzo datato, al più testimonianza retrospettiva di quel momento. E, invece, esso ha continuato e continua ad essere non solo attualissimo ma di una freschezza e di una forza espressiva tali da renderlo ancora assolutamente vivo e vitale come conferma anche il fatto che se ne continuano a fare nuove edizioni e ristampe.
Il merito di questa “eterna giovinezza” de “La vita agra” è stato in primo luogo attribuito all’incredibile capacità profetica di Bianciardi che è riuscito, raccontandoci quel periodo e quel mondo, non solo a darcene la fotografia ma a coglierne, in modo premonitore, le ricadute e gli sviluppi che avrebbe avuto e di cui oggi vediamo appieno le conseguenze. In questo senso potremmo sinteticamente dire che nel mettere a nudo quella vita integrata, propria della società di massa, che si stava instaurando in quegli anni, Bianciardi aveva visto già allora come essa desse luogo nient’altro che a una vita ingrata le cui amarezze la riducono infine a quella “vita agra” che il protagonista del romanzo, così come Bianciardi nella sua propria vita, sperimenteranno.
Ma la bellezza e l’ intatta capacità di coinvolgimento di questo romanzo, vanno, a mio modo di vedere, oltre questa sua dirompente carica di denuncia, vera allora come oggi, oltre quella preveggenza, in esso contenuta, dei mali della nostra contemporaneità, risiedendo ancor più in quella sorta di capovolgimento delle cose che in esso si realizza e che ne contraddistingue la sua originalità. Ne “La vita agra” accade infatti che la realtà, smascherata in tutto il suo non senso, ci appare talmente assurda da diventare grottescamente irreale e, per contro, la vita del protagonista-narratore, eternamente fuori dalla realtà, ci appare invece autenticamente vera e reale, assai più umanamente vera di quella realtà nella quale essa è costretta a stare e a svolgersi.
Questo sovvertimento di prospettiva dà luogo alla creazione di un microcosmo esistenziale che si fa mondo a sé. Quasi una favola, amara e spietata, che pur svolgendosi nel reale lo supera, essendo, come essa è, suscitata dalla vita e immersa, fino in fondo, nella vita del suo protagonista. Quello che come lettori ci appassiona e ci rende partecipi diventa infatti quella sorta di epopea che, per il protagonista-narratore, sarà il suo stare al mondo, quel suo mettersi a nudo tra illusioni e disillusioni, quel suo dover vivere tra le miserie della vita quotidiana avendo in animo invece rivoluzioni ed utopie, quel suo essere animato da slanci e ideali di cui constata che non gliene frega più niente a nessuno, quel suo guardarsi intorno e rendersi conto che il mondo va irrimediabilmente da un’altra parte e che tutti, prima o poi, ne veniamo risucchiati, salvo starne fuori subendone l’inevitabile solitudine e isolamento.
In questo senso “La vita agra” è attraversato da una vena esistenzialista vissuta ed espressa in modo provocatorio ed “arrabbiato”, la quale affonda nella biografia stessa di Bianciardi che si ispirò ampiamente proprio alla sua vita e, soprattutto, a quella sua sensibilità anarchica e libertaria che lo contraddistingueva. E, in virtù di quelle sue esperienze e di quella sua sensibilità, egli colse da subito e lucidamente l’anima nascosta del “miracolo italiano” che dietro il luccichio esteriore e materiale stava preparando e creando la disumanità dei rapporti e l’alienazione contemporanee. E a quello stato di cose il protagonista de “La vita agra” si contrappone con un perentorio “Io mi oppongo” che darà luogo a un flusso narrativo dissacrante e dissacratorio nei confronti del “sistema” in tutte le sue forme e in tutti i suoi aspetti. Evidenziandone, con spirito beffardo e sarcastico, le sue manifestazioni più bieche e ridicole, le sue grottesche assurdità, la sua propensione spersonalizzante. Con un misto di satira, di scherno e di rabbia, Bianciardi lancia attraverso il suo personaggio invettive feroci – rese in toni semiseri che le rendono ancor più acide – verso una realtà alla quale egli non si vuole adeguare, alla quale, come una sorta di “uomo in rivolta”, egli dice no, in una lotta che “non è contro la morte, ma contro la vita”.
Ma quella realtà è inesorabile e finisce per assumere per il protagonista-narratore tratti persecutori e nevrotizzanti, “tafanato”, come egli usa dire, da una pletora di incombenze, richieste, assilli, compiti, ostacoli, scadenze e necessità che lo assediano e lo stringono da tutti i lati. Riportate come esse sono alla dimensione del quotidiano e perciò ancor più palpabili e immediate, le sue vicende diventano così delle continue peripezie per sopravvivere tra le trappole e gli sgambetti di quella “vita agra”, dove la derisione degli altri si mischia con un’ autoironica derisione di sé.
E, di fronte all’indifferenza dominante da una parte e alle contingenze del quotidiano dall’altra, si dovrà anche arrendere all’evidenza dell’irrealizzabilità di quell’ “esplosivo” progetto anarcoide che lo aveva portato dalla natia maremma a Milano per far saltare in aria quel “torracchione di vetro e cemento, con tutte le umane relazioni che ci stanno dentro”, sede della società proprietaria, lì dalle sue parti, di quella miniera il cui scoppio aveva provocato 43 morti, ai quali sognava, con quel gesto, di dare loro quella giustizia che non avevano avuto. Ma la Milano tentacolare cieca e sorda che ingloba tutto ingloberà anche lui, costringendolo a barcamenarsi tra lavori persi e trovati, traslochi da una casa all’altra, conteggi e riconteggi delle entrate e delle uscite, in un’incessante precarietà del vivere e dell’esistere a cui finirà per soccombere e che prosciugherà tutti i suoi umori, i suoi sogni, i suoi non conformismi.
In un mondo come “questo mondo moderno” in cui “bisogna coltivare le relazioni pubbliche, vedere gente, farsi conoscere, far girare il nome” egli invece, sempre di più, si terrà a largo da tutto e da tutti, rinchiudendosi in sé stesso e in casa, indefessamente dedito a quel suo lavoro di traduttore a cottimo che lo consuma e lo stordisce, oltre al quale gli rimane solo Anna, un’ irregolare come lui con cui condivide l’amore e il sesso, il lavoro e la casa, gli affanni e l’isolamento. Perché quell’amore riempie il loro isolamento non lo rompe, nell’illusione di trincerarsi dal mondo e chiuderlo fuori.
E in opposizione a quel mondo parossistico e folle dello sviluppo che avanza ne vagheggia un altro utopistico ed alternativo, libero e libertario che definisce “neocristianesimo copulatorio e antiproduttivo” assolutamente liberatorio per i singoli giacché: “Unico grande bisogno sarebbe quello di accoppiarsi, di scoprire le centosettantacinque possibilità di incastro realizzabili fra l’uomo e la donna, ed inventarne ancora.” e, al tempo stesso, massimamente eversivo in quanto questo si sarebbe il “massimo eversore della moderna civiltà”. Ma l’unica vera possibile liberazione che ci si può concedere sarà alla fine una e una sola, l’unica nella quale si può finalmente non esistere e rifugiarsi: il sonno nel quale “per sei ore io non ci sono più”
E in questo suo finale si racchiudono tutti i malesseri di questo libro e del suo autore, tutti i tormenti e la malinconia, tutta l’insofferenza e la solitudine, tutta la scontrosità e lo scetticismo che ci sono nel libro e che furono di Bianciardi. “La vita agra” è un romanzo necessario, importante, appassionato, uno specchio nel quale potersi osservare ma anche doversi osservare, aderente a se stesso anche per quella sua lingua, anzi per quella sua “parlata” che è colta e popolare, che mischia toni e registri, lingue e gerghi, l’invenzione con la tradizione, che muta di continuo e che ci dà l’impressione di un’incessante diretta sulle cose e sulla vita, rendendoci tutto, anche a noi, incredibilmente familiare e vicino.