Emerenc (E.) è la protagonista de “La porta” di Magda Szabo (S.). La S. ce la descrive a partire dal momento in cui E. fa il suo ingresso in casa sua, assunta come domestica, essendo E. anche portinaia e addetta ad altre varie attività nel quartiere in cui le due donne vivono. In quel quartiere la vecchia E. vive da innumerevoli anni e gode, presso tutti gli abitanti, di una stima e di un rispetto diffusi, rappresentando una vera e propria istituzione: riconosciuta, apprezzata e amata.
Nascerà, tra le due donne, un’intensa relazione che pur tra conflitti, scontri, incomprensioni, distanze, durerà fino alla morte di E. e si evolverà, con il passare del tempo, in un forte legame reciproco, al di là delle differenze che tra le due donne esistono. E. manifesta, infatti, un disinteresse totale verso il sapere e la cultura in tutte le sue forme, esprimendo ed accentuando volutamente tale disinteresse in modi plateali e irritanti, convinta com’ è dell’inutilità delle conoscenze, anche di quelle più elementari. La scrittrice e il marito, anch’ egli scrittore, sono invece espressione ed esponenti dell’intellettualità borghese colta e pienamente immersi nel loro ruolo di intellettuali e di scrittori.
In una situazione del genere, realisticamente, le possibilità di familiarizzare ed intendersi fra la domestica E. e la scrittrice S. dovrebbero essere veramente poche. Invece, in questo caso, nascerà una relazione ma basata su dinamiche a suo modo inverosimili. E. prenderà, infatti, progressivamente possesso della casa, poi di Viola il cane della scrittrice che sarà fedele a E. più che alla sua stessa padrona, poi della relazione vera e propria con la S., finendo per dettare i tempi, i contenuti, le modalità, i ruoli e, indirettamente, anche gli esiti di questa relazione, senza peraltro manifestare alcun complesso di inferiorità per la diversa estrazione sociale e culturale rispetto alla scrittrice, la quale, a sua volta, invece, subirà la fascinazione e le sottili dinamiche di E. Ma chi è questa E.?
Partendo da una sorta di profilo socioculturale la potremmo definire un’anarchica, un cane sciolto, una ribelle, ma anche una qualunquista, un’autocrate, una populista. E’ tutte queste cose e nel contempo non è nessuna di queste cose. Su un piano più personale e caratteriale E. è capace di assumere ora il ruolo di una fata, ora quello di una strega. Ora quello di un leader, ora quello di un’asceta. Ora quello di un santo, ora quello di un diavolo. Ora quello di un eroe, ora quello di un antieroe. E’ ora l’uno ora l’altro, un po’ questo un po’ quello, a seconda dei momenti, delle circostanze, del nostro punto di vista, ma sempre con una sua logica e mai in modo gratuito. Molte volte è tutte queste cose insieme nello stesso momento.
Sicuramente non sarà lei ad attribuirsi nessuna di queste definizioni, non gli verrebbe mai in mente, né gli piacerebbe che qualcuno gliele attribuisse. Gli sembrerebbe solo un’inutile perdita di tempo. Perché, per E., l’unica distinzione che conta per classificare il mondo e gli uomini è fra chi tiene in mano una scopa e chi no, tra chi fa e chi non fa, laddove, ovviamente, tutti i lavori dell’intelletto sono inclusi nel non fare e tutto ciò che è basato sull’ agire nel fare. Nel caso specifico di E. il fare si manifesta in un’ incessante, plurima, instancabile, multiforme congerie di attività di ordine pratico e materiale, ma anche, di presa in carico delle vite degli altri: sia vite umane, sia vite animali, poste entrambe, da E., sostanzialmente sullo stesso piano.
Perché E. è e sa essere nobile d’animo, onesta, generosa, anche quando ciò può andare a scapito del suo onore e della sua stessa vita:“ di persone così buone e pulite ne esistevano poche al mondo” diranno di lei.
E., infatti, ha salvato ebrei e figli di ebrei, tedeschi e russi, ungheresi filonazisti e ungheresi filocomunisti, senza distinzione di bandiere e ideologie, ma anche cani e moltissimi gatti, senza parlare delle diverse persone in difficoltà che ha assistito nel corso della sua vita. Ma così come sa essere molto buona, sa essere molto dura e scontrosa, irascibile e prepotente, se le cose non vanno come lei vuole che vadano. Perché, E, sa sempre qual è il modo giusto in cui devono andare le cose, anche quando gli altri non le capiscono o pensano cose orrende di lei, come quella volta che assecondò e aiutò la sua amica Polett a suicidarsi.
“Io amavo Polett”, dirà E. “Se non l’avessi amata l’avrei trattenuta… Come avrei potuto… non incoraggiarla, quando capii che non la potevo aiutare altrimenti, a pronunciare lei l’ultima parola, lei e nessun altro”. Perché, per E., il principio guida è che qualunque sistema è buono, se si tratta di ridurre le sofferenze degli altri, perché quello di ridurre le sofferenze degli altri è lo scopo della vita di E. Lei che, ancora bambina, ha causato, involontariamente, nello spazio di pochi minuti, la morte dei suoi due fratellini gemelli, lasciati inavvertitamente sotto un albero che, un fulmine improvviso, colpirà, carbonizzandoli, e subito dopo della madre che, alla vista di quella tragedia, si butterà nel pozzo di fronte a E., togliendosi la vita.
Insomma resta comunque che questa E., a suo modo, dispensa la vita e la morte, anche se, come nel caso di Polett, quella morte, da punto di vista di E., ha un valore salvifico. A questo punto, scavando ancora un po’ il personaggio, dobbiamo aggiungere che E. è carismatica, dotata di un potere di convincimento quasi ipnotico, eppure, nello stesso tempo, nella vita è stata vessata, derubata, offesa, abbandonata, ferita, segnata. Appare onnipotente ma anche inerme; pastore di anime ma anche giudice severo; sola eppure in relazione; potenzialmente aperta, ne ha l’intelligenza per esserlo, ma di fatto fedele solo a se stessa; rinchiusa nel suo particolare eppure partecipe degli avvenimenti della storia.
Ma questi tratti appena descritti nonché, molto di quanto sin qui detto, ci portano, inevitabilmente, a collocare E. in una dimensione che ha a che vedere con la dimensione del sacro. Nel testo i riferimenti a ricorrenze, figure, luoghi, riti, simboli della tradizione cristiana non solo ricorrono, ma sono usati talora dalla S., (che era profondamente credente), per rimarcare, attraverso l’iconografia ad essi connessa, eventi e personaggi del libro. La S. descrivendo E. e i suoi atti ci parla della penitenza, del perdono, del bene e del male, del sacrificio, della salvezza, della carità, dell’amore, dando vita a un sottotesto che porta inesorabilmente a reinterpretare le azioni di E. nel solco delle simbologie e dei significati propri del cristianesimo.
E letto dal punto di vista dei principi fondativi del cristianesimo il personaggio di E. funziona, perché E. è un personaggio della fede senza fede, in quanto E., coerente con se stessa, è dichiaratamente e puntigliosamente non credente, stante che è credente solo nella sua personale e tutta privata religione dell’agire a fin di bene, e quindi ancor più luminosa come simbolo di fede, in quanto assolutamente pura e disinteressata nelle sue azioni. Perché il personaggio di E. è in fondo e in ultima istanza una figura letteraria metafora del Salvatore. E’, altresì’, come se la S., attraverso la narrazione di E. e della sua vita ci volesse fare sfiorare il metafisico mistero di Dio. Ma qui nasce la critica al personaggio di E. e al romanzo della S.
E chi la fede non ce l’ha cosa fa? Che significati può dare a questo personaggio e al romanzo? Per un non credente lo spirito di sacrificio di E. e il suo impegno salvifico sono ammirevoli quanto si vuole ma non risolvono la questione del destino dell’uomo e della sua impotenza. Un credente direbbe che E. è una testimonianza del bene possibile, ma proprio in quanto tale risulta assolutamente impari di fronte al Male che l’uomo produce, anche quando esso è il prodotto di azioni nate con intenti benigni ma che, come accadrà proprio a E., sprigionano morte e disperazione. E. infatti morirà in un letto d’ospedale dopo una tragico epilogo causato dall’ allontanamento forzato dalla sua amata e misteriosa casa, dietro la cui porta essa nascondeva il suo mondo fatto di solitudine e gatti e nella quale, in condizioni di degrado, si era rinchiusa vittima di una emorragia cerebrale, rifiutando qualsiasi tipo di assistenza, intenta a lasciarsi morire, consapevole che per lei e per i suoi gatti non sarebbe potuto essere più come prima.
Ma la sua amica scrittrice e il quartiere intero la tireranno fuori di lì, dove ormai vive circondata di escrementi e liquami umani e animali per salvarla. Mettendo a nudo quel suo mondo nel quale gelosamente per anni si era nascosta ad occhi estranei per garantire la sopravvivenza dei suoi gatti, suoi unici veri fedeli amici e che adesso oltretutto non solo veniva svelato indiscriminatamente a tutti, ma anche rivelato in condizioni lorde e ributtanti, laddove E. lo aveva sempre tenuto, nonostante i suoi nove gatti, nel più assoluto lindore. Invece lei, che l’aveva capito che non ci sarebbe potuta essere una seconda vita diversa dalla prima, che non ci sarebbe potuta essere salvezza, morirà comunque in un ultimo tragico gesto disperato, intenzionata a ritornare là fuori nel suo quartiere a cercare i suoi poveri gatti dispersi nel mondo e questa volta sarà il suo cuore a non reggere e ad abbandonarla per sempre.
Insomma immolata sull’ altare dell’amore per la salvezza dei suoi animali. E chi, come la sua amica scrittrice, ha fatto di tutto per salvarla finirà per apparire agli occhi di E. un novello Giuda che ha tradito la certezza che E. nutriva in lei e cioè che avrebbe sempre assecondato la sua volontà, che in questo caso era quella di lasciarla in pace.
E. essere umano, ci conferma che per chi non crede nell’ al di là, la salvezza è una vana illusione, nessuno si salva e nessuno è in grado di salvarci, laddove non siamo nemmeno in grado di salvarci dalle nostre stesse azioni. L’immagine che ho più apprezzato di questo romanzo della S. è nel finale quando la scrittrice si reca nella casa di E., ormai vuota, per entrare in una stanza tenuta dalla stessa E. chiusa da anni e che custodiva un prezioso mobilio che E., nel suo testamento, aveva lasciato alla scrittrice.
E in un scena che la S. stessa definisce “un’allucinazione kafkiana”, l’intero prezioso mobilio, coperto da strati decennali di polvere, appena sfiorato dalla mano della scrittrice: “Iniziò a disfarsi lentamente, con grazia, finché si dissolse in un cumulo di segatura dorata, le figurine di porcellana e l’orologio caddero a terra, il tavolo, la cornice dello specchio, il cassetto, le gambe, tutto semplicemente scomparve nel nulla ogni cosa finì in polvere”. E’ questa per me l’unica vera grande metafora di questo libro, perché come ha scritto Emil Cioran in “Sommario di decomposizione”: “Polvere invaghita di fantasmi – questo è l’uomo”