“La promessa” – Friedrich Dürrenmatt

Ne “La promessa” ci sono due livelli di realtà. Uno è quello della realtà che appare e uno è quello della realtà che non appare. Entrambe sono realtà concrete e “sensate”, tuttavia hanno una fondamentale differenza e cioè che la realtà che appare è Falsa e quella che non appare è Vera. A noi lettori Dürrenmatt ce le fa vedere tutte e due e nel farlo ci dice che in fondo c’è una verità nelle cose del mondo, la quale però al mondo può non apparire, apparendo invece la verità che deriva dalla realtà Falsa.

Affermare ciò incrina certezze fondamentali del nostro approccio alla realtà delle cose: perché mette in crisi l’idea che la Razionalità sia effettivamente capace di dare ordine al mondo; perché evidenzia la vulnerabilità del Bene nei confronti del Male; perché rivela che non vi è più Giustizia nel mondo, se la Giustizia accerta una verità Falsa e non riesce a giungere alla verità quella Vera. E tutto questo perché il caso o, se si vuole, invertendo le ultime due lettere, il caos è talmente forte e presente nel mondo che da esso, Razionalità, Bene e Giustizia ne possono essere fatalmente sovvertiti.

Ed è proprio su questo sistema di premesse che si basa non solo “La promessa” ma l’intera opera di Friedrich Dürrenmatt, sicuramente il più grande scrittore svizzero del secondo ‘900 e, in assoluto, uno dei più importanti del ‘900 europeo. Ora, da quanto sin qui detto, si evince come Dürrenmatt abbia perseguito un profondo e radicale intento demistificatorio volto a svelare e svuotare quei meccanismi, rassicuranti e conformistici, su cui si basa il senso comune, per evidenziare il peso che il non razionale e il non prevedibile hanno nel mondo, da cui quella cosiddetta “morale metafisica” che sovraintende al suo pensiero e alla sua opera. E, per farlo, ha utilizzato – non solo, ma anche – il romanzo “giallo”, scrivendo, tra il 1952 e il 1958, quattro romanzi a sfondo poliziesco: “Il giudice e il suo boia”; “Il sospetto”; “La panne” e appunto “La promessa”, uscito nel ’58 e considerato, sia in senso narrativo che per la nitida lucidità del suo sviluppo, il più esemplare fra questi. Dürrenmatt scelse di usare il genere del “giallo” proprio perché il romanzo “giallo” basa, per tradizione, la sua struttura sulle idee di Razionalità, di Bene e di Giustizia, in quanto, nel suo intreccio, esso ricostruisce e svela logicamente e in modo concatenato i fatti e quindi dà loro una veste Razionale, individua con certezza chi è il colpevole e quindi afferma la superiorità del Bene sul Male, e, infine, assicurando il colpevole alla Giustizia ne celebra il suo trionfo.

In tal senso il romanzo “giallo” rappresenta, a suo modo, l’archetipo di quella visione astratta e stereotipata che tende ad escludere l’accidentale, il fortuito, l’imponderabile. Perché, come dice “il dottor H., ex comandante della polizia cantonale di Zurigo” – protagonista narrante de “La promessa” – rivolto al suo interlocutore, che è giustappunto un autore di romanzi “gialli”:”…proprio noi della polizia siamo tenuti a procedere logicamente, scientificamente; d’accordo: ma i fattori di disturbo che si intrufolano nel gioco sono così frequenti che troppo spesso sono unicamente la fortuna professionale e il caso a decidere a nostro favore… E ciò che è casuale, incalcolabile, incommensurabile ha una parte troppo grande…Ma voi scrittori di questo non vi preoccupate. Non cercate di penetrare in una realtà che torna ogni volta a sfuggirci di mano, ma costruite un universo da dominare. Questo universo può essere perfetto, possibile, ma è una menzogna.” Per questo la scelta di quel sottotitolo che ha “La promessa” e cioè “Un requiem per il romanzo giallo”, in quanto Dürrenmatt costruisce una perfetta struttura narrativa tipica di un romanzo “giallo”, arrivando all’accertamento di una verità ritenuta quella Vera, in realtà non essendolo. Per cui si ha il paradosso che il caso poliziesco-giudiziario, agli occhi del mondo, sarà risolto restando invece, di fatto, del tutto irrisolto. Così come rivelerà la scoperta della Vera verità, la quale svelerà l’effetto del caso sullo svolgersi dei fatti, ma anche sulla possibilità stessa di dimostrare quella verità e di farla valere sull’effettivo colpevole, ristabilendo così la Vera giustizia.

In questo modo Dürrenmatt smonta dall’interno e destituisce di veridicità il canone e la logica dei romanzi “gialli”, evidenziandone la loro illusorietà e affermando in tal modo la sua poetica secondo cui è il caos a governare tutto, compreso l’uomo. Protagonista assoluto ne “La promessa” è il commissario Mätthai, un poliziotto di talento, ammirato per la sua intelligenza, razionale ma, al tempo stesso, geniale, il quale, proprio l’ultimo giorno di servizio, in procinto di essere trasferito ad un nuovo e prestigioso incarico, che lo porterà all’estero, si trova, per caso, a prendere quella telefonata che gli cambierà la vita, portandolo, come accadrà, ad occuparsi di quell’indagine che non gli sarebbe neanche dovuta competere e che, invece, lo “occuperà” per il resto dei suoi giorni, trasformando la sua esistenza in un vicolo cieco da cui non uscirà più.

Una bambina di sette anni viene trovata barbaramente uccisa nelle vicinanze di un piccolo villaggio della Svizzera tedesca. A trovare il cadavere è un ambulante della zona il quale, sospettato di essere l’autore del delitto, viene talmente torchiato da un ambizioso e spregiudicato collega di Mätthai che, stremato e sfinito dal lungo interrogatorio, fa una confessione, di fatto estorta, ammettendo di essere l’autore del delitto. Il caso sembra quindi essere stato risolto, tanto più che, poco dopo, l’ambulante, autoaccusatosi dell’omicidio, viene trovato suicida nella sua cella, suffragando cosi ulteriormente, con quel gesto, agli occhi di tutti, la sua colpevolezza. Ma Mätthai che, sin dall’inizio, non ha creduto alla colpevolezza dell’ambulante continua a non credervi, nonostante le apparenti evidenze, mentre a quella colpevolezza crederà anche la madre della bambina uccisa, a cui Mätthai aveva fatto quella solenne promessa: “la promessa” che avrebbe scoperto il colpevole, assumendosi quindi una ben precisa responsabilità, prima di tutto con se stesso, responsabilità che, agli occhi della madre, appare, ormai, definitivamente assolta. Quella verità sarà quindi quella accertata e accettata, il caso risolto, e, pertanto, la Vera verità sarà ritenuta raggiunta. Ma non per Mätthai che inizia quella sua parabola solitaria che lo trasformerà e nella quale investirà tutte le proprie capacità ma anche la propria stessa vita.

Rinuncia al nuovo incarico, il che gli costerà la fuoriuscita dagli organici della polizia e si dedica “privatamente” alla ricerca dell’assassino. Riprende le indagini, raccoglie indizi, fa riscontri e arriva ad elaborare prima delle precise e compiute ipotesi e poi un concreto e geniale piano per attirare l’assassino in trappola. Ma quell’assassino in quella trappola non cadrà mai e non perché egli non esistesse, né perché le ipotesi di Mätthai non fossero fondate, né, ancora, perché la trappola non fosse quella giusta, ma perché una circostanza casuale e del tutto banale, toglierà l’assassino dalla circolazione, prima che egli cadesse nella trappola, proprio quando ciò stava per accadere. Mätthai, in altre parole, era arrivato alla Vera verità, andando oltre la verità accertata che si rivelerà, perciò, essere stata Falsa, ma, il caso, interponendosi tra lui e la Vera verità, gli impedirà di raggiungerla. E quando quella verità verrà a galla sarà ormai troppo tardi. Le condizioni per farla apparire al mondo non ci saranno, i suoi testimoni e protagonisti sono estinti o stanno per divenirlo e pertanto non sarà possibile farla valere. Ma, ciò che più conta, sarà troppo tardi per Mätthai che ha ormai consumato tutto se stesso nell’attendere il “suo” assassino, fermamente convinto che prima o poi sarebbe passato da quel luogo presso cui si era insediato ad attenderlo e da cui solo per un caso egli non passerà mai. Mätthai si trasformerà in un uomo spento e abbrutito da quell’attesa interminabile, divenuta la sua ragione di vita laddove la sua vita era ormai divenuta priva di ogni ragione.

Come in un tragico teatro dell’assurdo sarà Mätthai infatti a cadere vittima della sua trappola, non riuscendo ad accettare che la sua volontà di scoprire la verità non bastava. Perchè, come dice il dottor H. : “Niente è più crudele di un genio che inciampa in qualcosa di idiota. Tuttavia in circostanze simili tutto dipende dal modo in cui il genio affronta il ridicolo in cui è caduto, dal fatto che lo possa accettare oppure no. Mätthai non poteva accettarlo.” Ma prima che il poliziotto Mätthai è l’uomo Mätthai a uscirne sconfitto, perché la sua razionalità, per quanto acuta, e il perfetto meccanismo da lui congegnato per tradurla in realtà nulla hanno potuto contro l’irrazionalità degli eventi e quindi contro quell’irrazionalità che è del mondo e nel mondo. La vicenda assume così un risvolto tragico-grottesco evidenziando quanto la ragione umana nulla possa di fronte alle paradossalità insite nell’esistenza umana. Il dramma di Mätthai, che egli incarna in quella sua perenne attesa, della quale si è ridotto ad esserne un misero ed attonito spettatore, è che la sua “caduta” non solo sancisce il suo fallimento e lo relega ai confini della follia, ma sancisce anche una sua colpevolezza, in senso morale, nel momento in cui egli non è riuscito a mantenere realmente la sua promessa, venendo meno all’assunzione di responsabilità fatta prima di tutto con se stesso.

Non solo quindi il Bene e la Giustizia non si sono affermati ma il Male è penetrato anche in chi aveva il compito di sconfiggerlo, finendone anch’egli sconfitto. Il paradosso nel caso di Mätthai è dunque che il suo raziocinio portato al più alto grado si è ritorto contro di lui, fino ad ammutolirlo, ottenebrando la sua orgogliosa mente investigativa, la quale non è stata capace di salvarlo, bensì lo ha portato alla rovina. Perché, come ha scritto lo stesso Dürrenmatt: “Gli uomini che agiscono sistematicamente vogliono raggiungere un determinato obiettivo. Il caso li colpisce nel modo più grave, quando raggiungono grazie ad esso il contrario del loro obiettivo e cioè quel che temono e cercano d’evitare”

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