Vi è in “Austerlitz” il ricorrere di un errare che è un peregrinare fisico tra luoghi e spazi ma che, nel contempo, è un errare all’interno di uno spazio che è tutto interiore e mentale, in una circolarità reciproca di rimandi e di evocazioni tra l’una e l’altra di queste due condizioni tanto da rendere l’una necessaria all’altra, l’una prodotto dell’altra.
Questo errare è l’errare di Austerlitz, che diventerà per lui uno scoprire per potersi scoprire, per restituirsi un’identità, un origine, un passato. Per darsi un diritto alla memoria cancellata con la violenza e dalla violenza di un abbandono e di una perdita resesi necessarie per salvargli la vita ma la cui intrinseca sofferenza ha prodotto al riguardo solo amnesia. Un errare tra echi, nomi, accostamenti, tracce, oggetti, città, edifici, resti, suoni, immagini, persone, dentro e fuori di sé, per cercare di guardare e rendere dicibile quella ferita rimasta a lungo oscura, a cui solo il guardarla e il dirla può dare ad essa finalmente un senso. Ma che è anche l’unico modo per restituire senso ad una vita che ormai può esistere solo come eterno pellegrinaggio nella memoria, essendosi ed essendo ormai Austerlitz escluso dalla vita vissuta.
Un errare quindi tra passato e presente, tra storia privata e Storia collettiva, tra rimozioni e ricordi, tra l’esistere e il non esistere, tra i vivi e i morti. Un errare che si fa destino irrevocabile a cui sopravvivere per poterlo realizzare. Un errare in un ignoto la cui emersione darà luogo ad un immenso mosaico le cui tessere sono stazioni di un dolore che è individuale ma anche epocale, che appartiene ai singoli ma anche ai popoli a cui quei singoli appartenevano. “Austerlitz” è il romanzo di un lutto che coincide con la vita di Austerlitz e con la tragedia dell’Olocausto e che, in entrambi i casi, può essere reso sopportabile solo sottraendolo a quell’oblio annichilente che ha lasciato Austerlitz per anni e anni in balia di quel lutto, ignaro delle sue cause.
Il tema della scomparsa e dello scomparire è cruciale in “Austerlitz” e il lavoro di riesumazione su di sé e sul suo passato che fa Austerlitz diventa metafora di un’idea di memoria che si oppone al nulla in cui tutto finisce:”quante cose cadono incessantemente nell’oblio con ogni vita cancellata, di come il mondo si svuoti per così dire da solo, dal momento che le storie, legate a innumerevoli luoghi e oggetti di per sé incapaci di ricordo, non vengono udite, annotate o raccontate ad altri da nessuno” . Ma la condizione di Austerlitz di estraneo a se stesso, prima ancora che di estraneo al mondo e nel mondo, evoca quella condizione dell’ “oscurità in cui siamo immersi” e che ci sforziamo di penetrare come fanno quegli occhi dilatati e indagatori le cui foto, tra le tante che intercalano il testo, appaiono, non a caso, per prime.
Perché la natura profonda di “Austerlitz”, come di tutta l’opera di Sebald sta proprio in questo continuo scorrere tra ciò che appare e ciò che sfugge, tra l’appariscente e l’ inappariscente. Ma non nel senso di due realtà separate, ma di un’unica realtà, di un mondo le cui parti concrete e manifeste da un lato e quelle a noi nascoste e mai del tutto chiare dall’altra sono in una eterna e perenne osmosi. E, in questo senso, i bellissimi ed evocativi apparati di foto che usa Sebald, con quei loro chiaro/oscuri sospesi tra il reale e l’irreale, qui come negli altri suoi libri sono, ancor più potentemente delle parole, l’evidenza con cui egli ci fa percepire l’intangibile che si cela nel tangibile.
Questo muoversi tra fisica delle cose e metafisica insita nelle cose ricorre costantemente in “Austerlitz” ed ha uno dei suoi fili conduttori nei discorsi sull’ evoluzione di certe architetture che Austerlitz, studioso di storia dell’architettura, fa all’io narrante, alter ego di Sebald. Quei discorsi sono centrati sul gigantismo surreale di quei manufatti e sul loro illusorio perfezionismo e le descrizioni di stazioni, fortificazioni, Palazzi di Giustizia, Biblioteche su cui si sofferma Austerlitz rivelano un parossismo monumentalistico che si ripete fino ai giorni nostri – si veda, in tal senso, la caustica descrizione della “nuova Biblioteca nazionale“ di Parigi – il cui fine è affermare una predisposizione al dominio e una “coazione all’ordine”, volte ad esasperare illusoriamente il controllo.
L’esito di tali realizzazioni infatti dà luogo, storicamente, a penose e sconcertanti inefficienze che rivelano il fallimento dell’ottimale perseguimento della funzione originaria e soprattutto la trasformazione di quei manufatti, così geometricamente e perentoriamente pensati e realizzati, in luoghi policentrici, nei cui meandri e nei cui camminamenti ci si smarrisce, alla mercé di un’ estraneazione e di una spersonalizzazione che ne fa, di fatto, dei non luoghi e che li circonda di un’aura di misteriosa e segreta inavvicinabilità e sfuggevolezza. L’immaginario che suscitano queste descrizioni evoca quello di un’implicita condizione di cattività in cui il singolo e l’individuo scompaiono, sottomessi dalla prepotenza delle forme e soggetti a un’autorità perentoria e senza volto.
Ma il riprodursi sistematico, nella Storia umana, di questa razionalità che si impone sull’uomo ci fa cogliere nelle sue evidenze metaforiche tutta l’essenza del procedere di Sebald nonché del contenuto di “Austerlitz”. Mi riferisco a quel suo trascenderla la Storia pur parlandoci di essa, con cui Sebald riesce ad evocare e suscitare una dimensione che va oltre gli eventi e i fatti, volta a cogliere quelle “tracce di sofferenza…che attraversano la storia con infinite linee sottili” e che dischiudono “una sorta di metafisica della storia”, come dice a un certo punto Austerlitz. E come accade per effetto di quelle architetture: “gli edifici sovradimensionati gettano già in anticipo l’ombra della loro distruzione e, sin dall’inizio, sono concepiti in vista della loro futura esistenza di rovine”, così accade nella Storia che nel lasciare dietro di sé una gigantesca produzione di orrori porta al suo massimo grado quel processo di distruzione dell’individuo di cui la vicenda di Austerlitz si fa esemplare ricostruzione narrativa.
Perché l’essere stato salvato dalla deportazione non ha salvato Austerlitz da un annientamento che ha leso alle radici la sua esistenza, facendone un apolide della vita a cui sarà dato e a cui sarà possibile esistere solo per riconnettere i fili di quella sua esistenza. Quella distruzione dell’individuo che ha segnato il ‘900 è iniziata sempre, per tutti coloro che ne sono stati vittime, con uno sradicamento e così sarà anche per Austerlitz, accomunato, nel suo destino di vivo, a quello dei morti. Nato a Praga in una famiglia di ebrei cechi, all’età di quattro anni viene messo dalla madre su un treno per l’ Inghilterra, poco prima che le truppe naziste facciano il loro ingresso in città e questo sradicamento, che spezzerà di colpo la sua vita, si tradurrà per lui nella perdita di qualsiasi ricordo.
Egli “dimenticherà” la sua infanzia, svaniranno in lui i volti e le figure dei genitori, “scorderà” tutto delle sue origini. Quando l’io narrante ce lo descrive in quel loro primo incontro avvenuto casualmente nella sala d’aspetto della stazione di Anversa nel ’67, quella Salle des pas perdus, il cui nome è già evocazione di un tempo perduto, Austerlitz “non racconterà quasi nulla della sua vita” perché egli ha fin lì vissuto non solo nell’ “assenza” del ricordo ma anche nella rimozione di quella assenza, di fatto come straniato da sè. E al narratore, per quel suo senso di straniamento, ricorderà Wittgenstein: ne ha la stessa “espressione sgomenta” dice e – aggiunge – “se guardo Austerlitz è come se vedessi in lui l’infelice filosofo, imprigionato nella chiarezza delle sue riflessioni logiche e nel disordine dei suoi sentimenti”.
Austerlitz vive infatti dedito ai suoi studi che lo hanno attratto sin dall’inizio per “un impulso, a lui stesso non perfettamente chiaro” verso luoghi e strutture reticolari come le stazioni e i sistemi ferroviari, ma la sua vita si svolge in modo del tutto ascetico e solitario, in un’ “angusta stanza” a Londra, privo di affetti e di amicizie. Ed è in quel suo non detto su di sé che vive nascosto Austerlitz ma, nello stesso tempo, mosso da quello stesso non detto verso reminescenze che lo portano a frequentare quelle stesse stazioni oggetto dei suoi studi. “Luoghi” – egli dice parlando di quelle stazioni – “[in cui] gli capitò di incorrere nelle più pericolose correnti del sentimento, a lui stesso affatto incomprensibili”. E quando vent’anni dopo il loro primo incontro Austerlitz reincontrerà il suo ascoltatore a cui racconterà, in un flusso monologante, “la sua storia, di cui era venuto a capo, solo negli ultimi anni”, echi ed immagini di stazioni emergeranno prepotentemente e dolorosamente dal suo passato.
La voce di Austerlitz diventa dolentissima. Il suo raccontare è uno scavo incessante e impietoso dentro i ricordi ma anche dentro il vissuto dei ricordi. E le cose così come sono raccontate sembrano svolgersi come in un altrove, quasi si smaterializzassero, pur senza perdere niente della loro durezza. Si viene afferrati da subito da un senso di buio, di freddo, di dolore che si accumula e si moltiplica senza sfogo. A partire da quella atmosfera di cupa morte che aleggia nella casa del predicatore calvinista Elias e di sua moglie, ai quali Austerlitz viene affidato giunto in Inghilterra. Gli sarà cambiato il nome e nulla gli sarà detto delle sue origini tanto da convincere Austerlitz di trovarsi non più a casa sua ma “molto lontano e in cattività”.
E quando molti anni dopo, ai tempi del college, gli verrà detto il suo vero nome, “alla parola Austerlitz io non associavo assolutamente nulla”, dirà al narratore, rievocando quel momento. La sua vita si svolgerà per anni come chiuso in una campana di vetro, il cui vuoto è un tempo sospeso come quello che si svolge ad Andromeda Lodge, la casa di campagna del suo fraterno amico e compagno di studi Gerald di cui sarà ospite e in cui appare ad Austerlitz “un altro mondo”, immerso in dissolvenze misteriose, fatto di apparizioni, con le cose che sembrano appartenere ad “un unico insieme indistinto” e dove, del mondo, se ne avverte, palpabile, la compresenza di quella sua “metà in ombra”.
Sono descrizioni bellissime di immagini che si incastrano in altre immagini e che, nel loro susseguirsi, danno un senso di fluire cosmico delle cose, di tempo sospeso perché eterno, senza confini, un tempo senza sponde. Ma questa esperienza del tempo coincide con la vita stessa di Austerlitz, egli stesso ne è parte: “per Austerlitz” – dirà il narratore riflettendo su di lui – “esistevano momenti senza nè inizio né fine e, d’altra parte’, l’intera sua vita, gli appariva talvolta come un punto cieco privo di durata”. Ma finché quella sospensione del tempo coinciderà con la sospensione dell’esistenza ed egli non giungerà “alla consapevolezza di essere sempre vissuto…in uno stato di assoluta disperazione”, la vita di Austerlitz sarà declino, chiusura in se stesso, fino ad avere “repulsione e disgusto” anche verso il “leggere e scrivere[ che pure] erano sempre state le sue occupazioni preferite”.
Un senso di orrore, un isolamento feroce, un’angoscia distruttiva lo pervaderà quasi egli fosse un morto fra i vivi e, come allucinazioni, gli appaiono immagini che gli evocano altre immagini, volti che gli ricordano altri volti, voci nelle quali sente altre voci, ma, a sua volta, egli percepisce l’avvicinarsi dei morti e nel contempo è come se trasmigrasse fra i morti: “…per me , disse Austerlitz, era come se i morti fossero tornati dalla loro assenza e riempissero la penombra che mi circondava con il loro caratteristico andirivieni, lento e senza posa”.
Con un impulso altrettanto incomprensibile a quello che l’aveva spinto a occuparsi di stazioni, un giorno Austerlitz entrerà in quella Ladie’s Waiting Room della stazione di Liverpool Street e lì fra quei “lacerti di memoria che cominciavano a vagare alla periferia della coscienza” verrà alla luce il ricordo “che proprio lì, in quella sala d’aspetto, ero giunto in Inghilterra oltre mezzo secolo addietro”. Da qui ha inizio inesorabile il percorso a ritroso di Austerlitz con tutta la spaventosa consapevolezza, come egli dirà “di non essere mai stato veramente in vita o di essere venuto al mondo solo allora, per così dire alla viglia della morte”. Scoprire quanto egli avesse rimosso, al punto da non sapere “niente della conquista dell’Europa da parte dei Tedeschi” sarà per Austerlitz un’ esperienza devastante finché un giorno sentirà di un traghetto con a bordo delle bambine mandate in Inghilterra durante la guerra il cui nome PRAGUE porterà Austerlitz “alla conclusione che…solo sentire menzionare in tale contesto il nome di quella città bastava a convincermi che dovevo farvi subito ritorno”.
E lì a Praga avverrà la rivelazione del suo passato. Con tenace e solitaria ostinazione egli troverà la casa della sua infanzia dove incontra Vera, la sua balia rimasta a vivere lì quasi fosse una custode della sua memoria. La quale in quel loro commovente incontro gli racconterà della sua infanzia, dei suoi genitori, della sua partenza. Saprà che il padre si era rifugiato a Parigi senza che se ne sapesse più nulla e lì alla fine del romanzo Austerlitz andrà a cercarne le tracce e che la madre era stata deportata nel lager di Terezin dove era morta. Egli si recherà in quel luogo e ne ritroverà come sospeso e incancellabile quell’opprimente senso di morte. Come se quei morti fossero indissolubilmente ancora lì: “sentii con inequivocabile certezza che quelle persone non erano state condotte via, ma vivevano ancora, stipate nelle case, nei sotterranei e nei solai, salivano e scendevano senza posa le scale, guardavano fuori dalle finestre, si muovevano in gran numero per le strade e i vicoli e, in silenziosa adunata, occupavano addirittura l’intero spazio fra cielo e terra”.
Ormai per Austerlitz il presente e il passato sono uniti nella morte, in un tempo fuori dal tempo, quel tempo sospeso e dilatato in cui Austerlitz ha sempre vissuto e che adesso si fa cosciente in lui e gli permette di ricongiungersi con quei morti e con se stesso: “A mio giudizio, disse Austerlitz noi non comprendiamo le leggi che regolano il ritorno del passato, e tuttavia ho sempre più l’impressione che il tempo non esista affatto, ma esistano soltanto spazi differenti, incastrati gli uni negli altri, in base a una superiore stereometria, fra i quali i vivi e i morti possono entrare e uscire a seconda della loro disposizione d’animo, e quanto più ci penso, tanto più mi sembra che noi, noi che siamo ancora in vita, assumiamo agli occhi dei morti l’aspetto di esseri irreali e visibili solo in particolari condizioni atmosferiche e di luce. Per quanto mi è dato di risalire indietro col pensiero, disse Austerlitz, mi sono sempre sentito come privo di un posto nella realtà, come se non esistessi affatto”.
E questa resterà la sua condizione. Per Austerlitz il tempo non sarà un tempo ritrovato, né un tempo che ha fine ma, come il colonnello Chabert, protagonista dell’omonimo racconto di Balzac, evocatogli da Vera, il quale, caduto nella battaglia di Eylau e creduto morto invece, “simile a un fantasma ricompare davanti a noi”, egli potrebbe pronunciare quelle stesse parole pronunciate dal colonnello Chabert al suo riapparire: “Je suis le colonel Chabert, celui qui est mort a Eylau”.