“A Klagenfurt si pubblica la Karntner Tageszeitung…”in genere veniva a Klagenfurt, dov’era nata e dove aveva trascorso l’infanzia e l’adolescenza, solo per brevi visite. Spesso sembrava come assente, ed evitava del tutto di avere rapporti””. Karntner Tageszeitung di giovedì 18 ottobre 1973, con riferimento a Ingeborg Bachmann a seguito della sua morte avvenuta a Roma il 17 ottobre 1973.
“Un viaggio a Klagenfurt” è un atto di “ammirazione e di amicizia” – così come lui stesso lo definì – di Uwe Johnson nei confronti di Ingeborg Bachmann. E’ un atto che nasce da un rimpianto: “rimpiango molto che…per la signora Bachmann non vi sia più possibilità di vivere”, disse Johnson riferendosi alla scomparsa di Ingeborg Bachmann, con implicita, in quelle parole, tutta l’assurda irrimediabilità che quella perdita portava con sé. Ingeborg Bachmann morì infatti all’età di 47 anni, in seguito alle ustioni riportate a causa di un incendio che divampò nella sua casa di Via Giulia a Roma, mentre dormiva, probabilmente per una sigaretta ancora accesa che aveva fra le dita quando si addormentò.
A chi cinicamente affermò “che nessuno si sarebbe potuto immaginare una Ingeborg Bachmann sessantenne, o che la sua morte era la logica conseguenza della sua scrittura e così via” (R. Svandrlik-”Ingeborg Bachmann i sentieri della scrittura” – Carocci), si possono opporre, nella loro limpida intransigenza, queste parole di Thomas Bernhard che rispecchiano una condizione a lui ben nota e che fu anche della Bachmann: “Quelli che credono al suicidio della scrittrice continuano a dire che si è distrutta da sé, mentre in realtà a distruggerla è stato, com’è naturale, solo il mondo che la circondava e, in sostanza, la meschinità del suo paese d’origine, dalla quale era stata perseguitata passo dopo passo anche all’estero, com’è accaduto a tanti altri”(T. Bernhard -”L’imitatore di voci” – Adelphi)
E Johnson che conosceva bene la Bachmann, con cui aveva condiviso un carteggio epistolare e, con la quale aveva in comune l’appartenenza al “Gruppo 47”, sentì, così come suggeriscono le parole di Bernhard, l’importanza e il rilievo di guardare e leggere il contesto del luogo da cui la Bachmann proveniva – il luogo della sua “Origine” per riprendere un’altra nota locuzione bernhardiana – come per condividere e ritrovare ciò che lì la Bachmann aveva vissuto. Un sentimento di affetto di cui darle concreta testimonianza e la necessità di dare valore al ricordo, un valore tutt’altro che celebrativo, ma profondamente etico e umano, porteranno quindi Uwe Johnson a intraprendere quel viaggio a Klagenfurt.
Quella città da cui la Bachmann era volutamente fuggita, sradicandosene deliberatamente e irresolubilmente, tanto che ancora nel 1970 in una sua lettera scrisse: “Si dovrebbe essere soltanto e unicamente uno straniero per riuscire a sopportare un luogo come Klagenfurt più a lungo di un’ora, o per vivere qui per sempre…”. Ma, in quella città, la Bachmann era cresciuta e vi aveva trascorso la sua giovinezza, soffrendone le ferite che quella realtà produrrà in lei e che ne incideranno la sua sensibilità, da cui quel rapporto di amara estraneità che così tante volte emerge e traspare nella sua opera e nelle sue parole.
Quell’atto che compie Johnson è quindi duplice in quanto si sostanzia nel viaggio in sé, inteso come un andare a vedere: “volevo sapere con esattezza da dove venisse…Per questo, dopo la sua morte, sono stato per quattro giorni in questa città e mi sono lasciato guidare da ciò che mi aveva detto e da ciò che aveva scritto” dirà Johnson; e, a sua volta, quell’atto si fa indagine e osservazione che motiva e fa luce su le “ragioni” della Bachmann, in una sorta di ricerca della verità la quale, per come Johnson la suffraga, rivela origini, natura e fondatezza di quelle “ragioni”.
“Un viaggio a Klagenfurt” è perciò l’esito di questa ricerca, il suo atto finale e manifesto che Johnson realizza in Memoria della Bachmann ma anche come suo personale lascito in nome di quei loro legami. Del tutto estraneo a qualsiasi impostazione o intento biografico, così come del tutto estraneo all’uso di soluzioni narrative di tipo sequenziale, Johnson si mantiene assolutamente coerente e fedele ai suoi canoni che sono programmaticamente, così come in tutto il resto della sua opera, antibiografici in quanto rinunciano all’idea di una possibile ricostruzione e descrizione unitaria della “vita” e ipernarrativi in quanto lavorano su un mix di informazioni e considerazioni a loro modo disordinate ed eterogenee che smontano la realtà e la riducono in frammenti, trasformando la narrazione in un vero e proprio flusso di annotazioni.
Johnson tende, in altre parole, a destrutturare il narrato in segmenti che si affiancano e si susseguono in modo non causale, come quadri che, pur sviluppando lo stesso tema, hanno ciascuno una loro autonomia e un loro soggetto. La sua prosa è dissonante, muta repentinamente toni e registri, richiede attenzione, induce il ragionamento, pur avendo alla fine, sempre, una sua connessione nella apparente sconnessione. Johnson, nello specifico della sua esplorazione, lavora in modo sia diacronico che sincronico. Egli segue la Bachmann nel tempo e nello spazio tra luoghi e percorsi che ella frequentò, come a ripercorrere i suoi passi e a riviverne la sua presenza.
Per esempio nel caso dei “tracciati” che lo portano negli ambienti e nei luoghi del Liceo femminile delle Orsoline, la scuola della Bachmann, di cui ci descrive la toponomastica circostante, la storia della scuola, le sue regole di funzionamento, le sue vicende durante la guerra. O come in relazione agli eventi connessi all’annessione dell’Austria e all’avvento del nazismo, alla guerra e alle sue conseguenze, vissuti dalla Bachmann lì a Klagenfurt e di cui Johnson ripercorre con documenti e resoconti il loro svolgersi nella città, soprattutto con riferimento all’adesione incondizionata che lì si manifestò verso il nazismo.
E’ questo un un aspetto cruciale nella vita della Bachmann e del suo rapporto con Klagenfurt, come testimoniò ella stessa in una sua intervista: “C’è stato un momento determinato che ha distrutto la mia infanzia: l’ingresso delle truppe di Hitler a Klagenfurt. Fu qualcosa di così orribile che i miei ricordi iniziano con questo giorno: con un dolore troppo precoce, e con un’intensità che forse in seguito non ho mai più provato. Certo, io non compresi l’evento come avrebbe potuto comprenderlo un adulto. Ma quell’immane brutalità, che era percepibile, quel vociare, quel cantare e marciare – il sorgere della mia prima angoscia mortale”. Per inciso si tenga altresì presente un altro fatto rilevante nella vita della Bachmann in quel periodo, se pur da lei mai citato, connesso all’avvento del nazismo e cioè “l’adesione del padre, insegnante e poi direttore didattico, al partito nazista fin dagli inizi, quando era proibito e dunque clandestino in Austria… Il partito nazista clandestino era particolarmente forte proprio in Carinzia, e contava su moltissime adesioni fra gli insegnanti [per cui la Bachmann si trovò ad essere] figlia di un nazista convinto e allieva di insegnanti più o meno nazisti” (R. Svandrlik cit.).
Ma, tornando a Johnson, egli dal passato risale al presente e racconta anche la città che gli appare arrivandovi, ma in modo graffiante e caustico, come a volere scrostare quella immagine da cartolina che la città tende a dare di sé e dietro la quale trapela l’abbrutimento derivante dalla speculazione turistica di cui la stessa Bachmann si amareggiava: “Inoltre la nostra provincia è qui totalmente rovinata; ho già cancellato il lago dal mio programma, essendo ogni metro quadro invaso da Gente-del-reno-zona-della-Ruhr, che trascorre costose vacanze nella modica(!) <<Carinzia, la terra del sole>>; tutto è caro e di qualità cattiva e non saprei dire chi sia ad imbrogliare e chi ad essere imbrogliato”.
E nella sua persino meticolosa ricostruzione del passato e del presente di Klagenfurt Johnson si serve dei materiali più disparati: guide turistiche, stralci giornalistici, depliants di vario tipo, indicazioni stradali, dichiarazioni di personaggi pubblici e istituzionali, facendone un sapiente collage che senza dire dice di quella realtà le sue contraddizioni e i suoi retaggi. Ma tutto ciò è contestualmente e costantemente intercalato da citazioni della Bachmann attinte da sue lettere e dai suoi testi, in modo particolare dal primo dei racconti contenuti ne “Il trentesimo anno” e cioè “Giovinezza in una città austriaca”.
Così facendo Johnson crea una corrispondenza, una simultaneità, un sincronismo appunto fra i “vissuti” della Bachmann, con tutto il loro contenuto esistenziale e personale, portatore di uno sguardo precocemente disincantato e lucidamente vero e i suoi riscontri, rigorosi o ironici, a seconda dei casi, che descrivono fatti, riportano date e nomi, verificano e attestano quello che la Bachmann visse su di sé e intorno a sé e che catturò e simbolizzò lungo i sentieri della sua scrittura. Ma è la Bachmann a guidare Johnson, a portarlo lungo quei sentieri che Johnson percorre contrappuntando le esperienze e i ricordi narrati dalla Bachmann con le sue osservazioni e con i suoi sopralluoghi, riuscendo a far dialogare quei ricordi e quelle esperienze con la storia.
Ma, a sua volta, la propensione al canto vivo e dolente della Bachmann presente anche nelle sue prose, si alterna con le grossolanità e la retorica della realtà che Johnson fa rispecchiare, evidenziando tutto lo scarto, allora come oggi, tra la grande poetessa e quella realtà. Ed è proprio questo scarto che alla fine resta e impressiona, quasi che quel senso di estraneità che lì visse la Bachmann fosse non solo fondato ma persino inevitabile. E pur tuttavia è lì che la Bachmann riposa ed è lì che Johnson alla fine si condurrà prima di lasciare Klagenfurt, su quella “tomba numero 16, nella terza fila della prima classe del campo XXV”, del cimitero centrale di Annabichl.
“Un viaggio a Klagenfurt” non è una commemorazione ma un bellissimo esempio di letteratura, l’unico tipo di omaggio che la Bachmann avrebbe potuto accettare e riconoscere giacchè, come scrisse in a sua lettera del ’70, a suo modo premonitrice, con cui si apre “Un viaggio a Klagenfurt”:
“Inoltre ogni necrologio non può che essere un’indiscrezione”