“La passeggiata” – Robert Walser

E’ un vero piacere scrivere un commento per “La passeggiata” perché non potendo dire che cose graziose e gentili, giacché di queste cose parla “La passeggiata”, non si può che ricavarne un indubbio e piacevole sollievo.

“La passeggiata” è infatti un inno alla leggerezza e alla finezza, alla bellezza e all’ arte, ancor più in quanto Walser, per contrasto, ci mostra la prosaicità e pesantezza del mondo, del mondo reale, che ovviamente c’è e che anch’ esso viene incontro a Walser durante la sua passeggiata, di cui ci tratteggia le bruttezze rispetto a quella che è invece la soavità del suo mondo. Un mondo, quello walseriano, dominato dalla mitezza, dalla cortesia, dall’ eleganza dei modi e dei pensieri, ma anche dalla consapevolezza dell’infelicità senza necessariamente cadere nell’ infelicità, dall’ incontro con il diverso senza per questo viverlo come una minaccia, dall’ intrattenersi con gli altri, decantandone magari le qualità, senza per questo aspettarsi niente dagli altri.

Ogni cosa, ogni particolare che attira la sua attenzione e che gli evoca qualcosa, che lui incontra durante la sua passeggiata, prende anima, si trasforma ai suoi occhi in un piccolo incanto, in oasi di pace ora fisica ora interiore, in pensieri e riflessioni delicate e sapienti. E’ come un altro modo di esistere e di vedere le cose. Il mondo come non è e come vorremmo che fosse. Ed è qui che la narrazione si scioglie, si dilata nella poesia, perché Walser come un antico menestrello intesse laudi ed arabeschi verbali, che assumono ora la rotondità di una cantata barocca, ora diventano ironia mordace non disgiunta da un sarcastico candore. E nel dirci, alla fine, che purtroppo tutto è destinato a morire, ci fa vedere, per un’ultima volta, in una sorta di indice della vita, quel bello di cui Walser sapeva riempirsi gli occhi.

“E così la florida vita, tutti i bei colori allegri, ogni gioia di vivere e umano significato, l’amicizia, la famiglia e la donna amata, l’aria dolce e piena di lieti, felici pensieri, le case paterne e materne, le care strade note, la luna e il sole alto e gli occhi e i cuori degli uomini, tutto un giorno dovrà scomparire e morire”

 

4 risposte a "“La passeggiata” – Robert Walser"

  1. dietroleparole 27 aprile 2017 / 19:15

    “Dove sono finiti gli sprazzi di felicità che ci fulminavano da ragazzi? Bastava un nulla a provocarli: un volto di donna, una foglia, un sasso. Ci sentivamo, in quei momenti, grandi poeti. E ci illudevamo che fosse facile conservare quegli attimi mettendoli in carta. Più tardi ci dovemmo convincere che anche i veri e qualificati poeti non erano quasi mai riusciti a fissarli stabilmente. Con l’andar degli anni, quei momenti privilegiati si son fatti sempre più rari. Molti di noi li hanno dimenticati per sempre. Ma poi capita di prendere in mano un librettino come questo di Walser (“La passeggiata”, ed Adelphi) e si ha un soprassalto. Lo si inizia, gustando quell’incipit pacato, reso così bene dalla traduzione di Emilio Castellani: “Un mattino, preso dal desiderio di fare una passeggiata, mi misi il cappello in testa, lasciai il mio scrittoio o stanza degli spiriti, e discesi in fretta le scale, diretto in strada”. Il significato della frase è quello che è, d’un realismo piano e senza sorprese. Ma com’è che ci brilla dentro qualcosa che sembra una reminiscenza di paradisi lontani? Si prosegue la lettura con la scettica aspettazione che tutto si spegnerà ben presto. Ma la proposta di Walser persiste, delicatamente cocciuta. E’ la proposta – non trovo altra parola – della felicità, quella felicità limpida e improvvisa che dicevamo all’inizio. Si segue questo strano bighellone, incuriositi, lungo le sue bonarie peregrinazioni, e la felicità perdura. Non solo se s’incontra una bella signora che potrebbe aver fatto l’attrice, se si costeggia un boschetto o si ammira una vetrina di modista piena di cappellini multicolori, ma anche quando si entra a discutere in municipio una spinosa questione fiscale, quando s’imbuca una lettera di rottura con qualcuno o si battibecca, riportandone la peggio, con un sarto “perfido e ironico”, la temperie non muta: tutto quello che incontriamo, gradevole o no che sia oggettivamente, s’imbeve di una luce di felicità. Ci chiediamo, intrigati, che cosa stia succedendo. Walser non ci presenta fatti mirabolanti, non ci fa conoscere gente eccezionale né lavora con mezzi stilistici elaborati. Le stesse cose ch’egli ci racconta, dette da altri, ci apparirebbero futili, forse ci farebbero assopire. Invece, con un quid misterioso ch’egli ci sa mettere dentro, questa passeggiata è la rinascita delle nostre ore più belle, un fascio di buone notizie inaspettate. Non occorreva, per trasmetterci tanta gioia, calcare sul pedale di una comicità non sempre di finissima lega, almeno per noi latini. Ma è un piccolo neo in questo volto pulito e ridente, che solo alla fine (ma la felicità non cambia, anzi si fa più profonda) si vela in una tristezza piena di cose non dette, di inquietanti presagi. Povero Walser. Quando scrisse “La passeggiata” aveva trentotto anni. Era il 1916, la sua Svizzera era in pace, il resto dell’Europa si scannava nella guerra. Pochi anni dopo sarebbe entrato per sempre in una casa di cura per malattie mentali. Si chiudeva così la sua stagione creativa, a cui si devono romanzi (“I fratelli Tanner”, “L’assistente”, “Jakob von Gunten”) e piccole prose ora considerati tra i prodotti più squisiti della letteratura di lingua tedesca in questo secolo. Finì anche la sua felicità? O si rifugiò in una dimensione più segreta? Walser morì durante una passeggiata, il giorno di Natale del 1956. C’è da augurarsi che sia stata una passeggiata piena di luce e di canto come quella che ha saputo regalarci in questo libro”. (Italo Alighiero Chiusano, “La felicità conservata”, in “Literatur”)

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  2. ilcollezionistadiletture 28 aprile 2017 / 6:57

    “A quel tempo era nato il suo primo libro, I temi di Fritz Kocher, che l’ Insel -Verlag aveva pubblicato nel 1904 con undici disegni di suo fratello Karl. Per quest’opera non aveva ricevuto nessun onorario, e poiché rimaneva ferma sui tavoli delle librerie, era stata ben presto svenduta a prezzo di blocco. Lui non aveva mai voluto far parte delle chiesuole letterarie, e ciò lo aveva gravemente danneggiato sotto l’aspetto economico; ma il divismo, dappertutto così diffuso, gli dava semplicemente la nausea. Gli sembrava degradare lo scrittore a lustrascarpe. Si, si rendeva conto che il suo tempo era passato, ma la cosa non lo turbava: quando si va verso la sessantina, bisogna poter pensare ad un’altra esistenza. Aveva scritto i suoi libri allo stesso modo di un contadino che semina, falcia, innesta, dà da mangiare alle bestie, concima. “Per me è stato un lavoro come un altro”” (Carl Seelig – “Passeggiate con Robert Walser” – Adelphi – 1981 – pp.12,13)

    Un vero poeta nella vita e nell’opera.
    Grazie!!

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