“Romeo e Giulietta nel villaggio” – Gottfried Keller

“…e il suo viso, rivolto verso quello del povero ragazzo sgomento, era inondato di lacrime di dolore. “Vieni, baciami ancora una volta! No vattene, fuggi! E’ finita, è finita per sempre, noi non potremo mai essere uniti!” Lo mandò via ed egli…si allontanò disperato, rimanendo per tutta la notte a vagabondare nei boschi. L’indomani…tornò in città e si rintanò nella cupa miseria della sua casa.” In questa scena è descritta una delle dolorose manifestazioni di crudeltà contenute nella novella “Romeo e Giulietta nel villaggio”.

Perché in questa novella una crudeltà intrinseca e senza speranza permea e avvolge tutto quanto vi è in essa narrato. Tale crudeltà si genera per effetto di un “mostruoso” che come afferma Karl Wagner nella sua postfazione non è il risultato di una creazione fantastica ma “risiede…nel quotidiano”. In tal senso non solo “La novella non esclude il mostruoso…ma [ne] rivela il suo perturbante meccanismo”. E che il “mostruoso” a cui qui ci si riferisce sia nel mondo reale e sia prodotto dall’ uomo ce lo dice da subito lo stesso Keller nell’ incipit: “Raccontare questa storia sarebbe oziosa imitazione se essa non si fondasse su un avvenimento reale, quasi a dimostrare quanto profondamente sia radicata nella vita umana ognuna delle favole su cui sono costruite le grandi opere antiche”

Il perturbante meccanismo affrontato da Keller si presenta sotto forma di un comportamento duale sintetizzabile nello schema “fare del male/farsi del male” che contiene in sé e produrrà, come vedremo, l’attivazione di pulsioni di morte. Su questa dualità “fare/farsi male” si sviluppa tutta la storia che assume i connotati di un destino irrevocabile a cui le vittime nulla potranno opporre perché pur germinandolo esse stesse tuttavia di esso ne saranno “solo” implacabili e inconsapevoli esecutori. Questo, in una delle prime pagine, Keller lo dice chiaramente: “…le spole del destino si passano accanto e nessun tessitore sa quel che tesse.”, come, peraltro, aveva riscontrato Walter Benjamin che, a tale proposito, aveva osservato che “nell’ indimenticabile novella “Romeo e Giulietta nel villaggio” dall’ infrazione dei diritti di proprietà su un campo coltivato scaturisce un destino annientatore”.

Protagonisti iniziali della storia sono Marti e Manz due contadini “agiati ed esperti”, legati da una lunga e solida amicizia. Possiedono ciascuno un podere. Tali poderi sono tra loro vicini ma non confinanti. Tra i due poderi vi è infatti, incolto e abbandonato, un terzo campo di cui Marti e Manz non ignorano chi sia colui che avrebbe diritto ad ereditarne la proprietà. Ma i due contadini, animati dal desiderio di possesso, ne prescindono e vanno via via incorporando, un solco dietro l’altro, il campo intermedio, con un’evidente infrazione del diritto che, tacitamente e reciprocamente, fingono di non vedere: “ciascuno vide bene ciò che faceva l’altro, ma nessuno parve vederlo”.

Finché di quel campo ne resta solo una “striscia di terra” che le autorità decidono di mettere all’ asta. Manz se l’aggiudica. Marti però ne aveva precedentemente occupata una porzione che adesso Manz gli chiede di restituire ma Marti si rifiuta. All’ iniziale prevaricazione agita da entrambi, impossessandosi unilateralmente di parte del campo intermedio che si costituisce come colpa originaria e come prima apparizione dell’agire volto a generare il male: “aumentando la loro proprietà s’erano stoltamente appropriati dei beni d’una persona scomparsa, credendo di poterlo fare impunemente”, si introduce adesso la prevaricazione reciproca a cui l’antica amicizia non riesce a porsi come argine. Non venendo meno, nessuno dei due, alle rispettive pretese il patto di amicizia tra Manz e Marti si rompe.

Esso non sarà più ripristinato e genererà una spirale ritorsivo/autodistruttiva che porterà allo sfacelo e alla miseria entrambi. La ragione sociale ed esistenziale di Marti e Manz diverrà da quel momento non più quella di stimati e probi agricoltori ma di accaniti e feroci nemici, dediti solo all’ annientamento dell’altro, il che avverrà ma sotto forma di autoannientamento. Giacché, determinandosi la spoliazione della loro funzione di agricoltori, funzione che essi abbandoneranno progressivamente occupati come saranno a lottare fra loro, si consumerà prima la loro emarginazione sociale e poi, soprattutto, si instaurerà in entrambi l’interiorizzazione di un sistema di riferimento basato sul rancore, su pulsioni aggressive e sull’automarginalizzazione che li condurrà ad una totale disumanizzazione. Cosicché all’ iniziale “fare del male” dell’uno nei confronti dell’altro si sostituirà ben presto un assai più tragico ed inesorabile “farsi del male” dato il progressivo abbrutimento in cui Marti e Manz scivoleranno e da cui non si risolleveranno più, che investirà le loro famiglie e di cui saranno vittime in particolare i loro figli: Sali (Romeo) il figlio di Manz e Vrenchen (Giulietta) la figlia di Marti.

Sali e Vrenchen si conoscono e si frequentano sin dalla più tenera età. Ancora bambini, tra di loro vi era sempre stato un istintivo e tenero affetto. Ma le sopravvenute discordie paterne adesso li tengono lontani l’uno dall’ altra e li riducono ad un’infelice esistenza: “Erano dunque ben sventurati i poveri figlioli, che non potevano nutrire feconde speranze per l’avvenire, né godere una serena giovinezza, non essendo circondati che dalla discordia e dai crucci”. Padri e relativi figli quindi non si vedono più. Senonché, con un effetto di tipo teatrale, Keller crea un abile e suggestivo incastro, giocato sul contrasto odio/amore, tra l’imprevisto vedersi dei padri e l’imprevisto vedersi dei figli. Laddove, in una scena a ruoli contrapposti, mentre i padri, vistisi su un sentiero, vengono “pietosamente” alle mani, i figli, presenti anch’ essi, rivedendosi provano, in quel loro rivedersi, un piacere che conferma il loro sentimento d’amore.

Si realizza qui l’affermazione di un principio di indissolubilità che legherà tanto i padri che i figli, ma in modo specularmente opposto, sancendo la forza dell’indissolubilità dell’amore così come di quella dell’odio. Ma la felicità dell’amore romantico si tramuterà, per Vrenchen e Sali, in un’esperienza nostalgica, in quanto desiderio di un tempo passato in cui vigevano le condizioni della libertà e della possibilità. Le colpe dei padri ricadranno infatti sugli incolpevoli figli che non potranno istituirsi nel mondo perché impossibilitati a ricostituire l’originario onore paterno di cui i loro stessi genitori li hanno defraudati. E l’inimicizia dei padri si impone sui figli al punto che si troveranno anch’ essi a mettere in pratica, se pur con tutt’ altra volontarietà, quell’ agire basato sul “fare del male” che aveva agito l’un contro l’altro i padri.

Sali infatti per difendere Vrenchen, aggredita da suo padre Marti, che l’ha scoperta mentre si intrattiene con Sali, colpisce Marti con una pietra e lo ferisce irrimediabilmente: diventerà pazzo e sarà internato in un “ricovero per simili idioti”. Da qui la crudele scena, descritta all’ inizio, in cui Vrenchen allontana unilateralmente Sali e istituisce la ferita che porterà Sali ad andare via in uno stato di disperazione, fissando quel principio di irrealizzabilità dell’amore: “noi non potremo mai essere uniti” che si configura come metafora dell’impossibilità di affermazione della poesia nel mondo a fronte della sua prosaicità. Principio ribadito da Vrenchen allorquando afferma: “non resisterò senza di te, eppure non potrò mai averti, non foss’altro perché hai colpito mio padre…Questo sarebbe sempre un cattivo fondamento per il nostro matrimonio e noi non potremo mai essere sereni” Riconfermandosi contestualmente il principio di irreversibilità degli eventi e delle loro conseguenze.

Ma se l’amore di Vrenchen e Sali è irrealizzabile è anche, come abbiamo detto, indissolubile e agendo come tale, cioè come potentissima calamita, farà si che Vrenchen e Sali si cerchino e si riincontrino attratti come non mai. E qui si introdurrà tra Vrenchen e Sali un patto tanto crudele quanto gioioso: trascorrere insieme un giorno, uno e uno solo, in cui godere delle gioie e delle tenerezze dell’amore, conducendosi per villaggi e feste campestri, per vivere, come in un concentrato, quel piacere di stare insieme sempre sognato. Perché dopo quest’unico giorno Vrenchen e Sali si sarebbero definitivamente lasciati e separati, abdicando per sempre da quell’ amore impossibile ormai irrimediabilmente inficiato.

Con lirismo e toni toccanti, con elegante e vibrante intensità, Keller descrive il vagabondare di Vrenchen e Sali fra i diversi luoghi da essi attraversati, la loro amorevole intimità, il loro intrattenersi nei ristori in cui trovano rifugio, le danze e i balli a cui, per una volta, si lasciano andare, le attenzioni premuroso di Sali e i trasporti affettuosi, incrinati dal dolore, ma anche premonitori, di Vrenchen: “…lo strinse fra le braccia, premendo il suo corpo snello contro di lui, appoggiando al suo volto la propria guancia ardente, umida di lacrime cocenti, e disse fra i singhiozzi: “Noi non possiamo essere uniti, ma io non mi posso staccare da te, neppure per un minuto, neppure per un istante!”” . Ma Keller riporta anche il nascondersi di Vrenchen e Sali agli occhi di chi li conosce e il loro offrirsi a quelli di chi non li conosce. Perché solo nell’ oblio del mondo, tra chi ignora il loro status, possono ancora esistere puri e immacolati come un tempo, giacché, nell’ attualità della percezione sociale, che li smaschera pubblicamente, sono inesorabilmente additati come “i figli di Manz e Marti”.

Vrenchen e Sali non hanno e non avranno infatti il coraggio di scardinare l’ordine borghese, opportunità che pure è offerta loro da quella figura dionisiaca e a suo modo luciferina del violinista nero che è poi, come in una sorta di contrappasso, l’erede di quel terreno da cui tutto è nato e che i genitori di Vrenchen e Sali hanno bellamente espropriato. In quel luogo bacchico che è “Il Giardinetto del Paradiso” in cui Vrenchen e Sali giungono a sera, al termine del loro peregrinare, il violinista nero lì festosamente intento a suonare e danzare, offre senza alcuna acrimonia, pur configurandosi, di fatto, come una vendetta nei confronti dei genitori dei due ragazzi, la chance a Vrenchen e Sali di potersi incarnare nel loro amore e trovare un loro posto nel mondo, invitandoli a seguirlo tra quei “senza patria” con cui egli vive, che rappresentano una versione “libertaria” dell’esistenza, i quali predicano e praticano una vita emancipata e libera nella natura e una sostanziale promiscuità, stando ai margini del consesso sociale.

Ma ciò comporterebbe per Vrenchen e Sali la definitiva fuoriuscita dal sistema e la riaffermazione del principio di emarginazione a cui i loro padri li hanno condotti. In altre parole non vi è possibilità di instaurare la felicità se non reinstaurando la primitiva condizione originaria ormai andata perduta. Giunto quindi il fatidico momento della separazione, Vrenchen e Sali impreparati e smarriti, in preda ad un’inestinguibile dolorosità, si rivelano incapaci di darvi seguito e la loro vicenda si evolverà in una vicenda di Amore e Morte.

Laddove l’unica possibilità che resta loro per non separarsi nel mondo, spezzando il legame d’amore, è quella di separarsi dal mondo, restando uniti fino alla morte e nella morte. Vrenchen e Sali agiranno il loro ultimo e assoluto atto d’amore congiungendosi e celebrando idealmente le loro nozze su un barcone, alla deriva sul fiume, nel cuore della notte, lasciandosi poi scivolare, “nel gelo del mattino autunnale…nei freddi flussi della corrente” strettamente abbracciati. In cui, il “farsi del male”, intrinsecamente contenuto in tale atto e che assume qui valenze estreme, chiuderà il cerchio di quel “mostruoso” che pende su tutta la storia.

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