“Verso la foce” – Gianni Celati

Se è vero che narrare è viaggiare, Celati, in Verso la foce, ci dà anche l’altra possibilità insita in questa affermazione e cioè fare del viaggiare un narrare. Un narrare che si forma e prende vita dentro lo sguardo che Celati posa sulle cose che egli, nel suo viaggio, vede ed incontra. Il viaggio fisico che si svolge in Verso la foce e che egli ci narra diventa così un viaggio visivo attraverso il quale Celati ci racconta le evocazioni che quelle cose gli destano, il senso o non senso che gli suscitano, le emozioni che gli provocano. Le descrizioni e riflessioni che ne derivano, e che si alternano di continuo, diventano perciò l’esito del procedere di Celati verso quella meta: la foce del Po, che egli raggiungerà, attraverso tappe distinte e distanti, seguendo il corso del fiume. Sarà quello di Celati un errare che lo porterà ad attraversare, per lo più a piedi, luoghi, spazi, ambienti di quella “valle padana” nella quale ad una natura sottomessa dall’uomo fa da corollario una presenza umana sempre più dissociata che a Celati si rivelerà come “…l’attraversamento d’ una specie di deserto di solitudine, che però è anche la vita normale di tutti i giorni”. Segnale di una deriva già incubata in quella realtà, che le “apparenze” materiali camuffano e riempiono. Epifanie di futuro che Celati già avverte ed anticipa.

Pubblicato nel 1989 Verso la foce raccoglie “quattro diari di viaggio” – come lui stesso li definirà – relativi a tragitti fatti da Celati lungo il Po, percorrendone rive e argini ed attraversando città e campagne ad esso vicine. I quattro tragitti, compiuti tra il 1983 e il 1986, furono effettuati, dal punto di vista geografico, non in sequenza tra loro. Per cui mentre l’ordine narrativo dei diari, scelto da Celati per la pubblicazione, rispecchia quello geografico e quindi, di fatto, Verso la foce si configura come la ricostruzione di un viaggio, se pure a tappe distanziate nel tempo, verso la foce del Po, seguendone il suo naturale asse spaziale, l’ordine cronologico dei tragitti resta indipendente e diverso da quello geografico.

Il primo tragitto narrato prende le mosse nelle campagne cremonesi, esso è quindi quello “di partenza”, pur non essendo cronologicamente il primo dei quattro. Celati lo compie tra il 9 e il 17 maggio 1986 e il relativo diario ha per titolo “Un paesaggio con centrale nucleare”. Esso – come scrive Celati nella “Notizia” con cui, a mo’ di prologo, egli apre Verso la foce – “…parla d’una camminata attraverso le campagne cremonesi, nei giorni immediatamente successivi allo scoppio nucleare di Cernobyl”.

Il secondo diario ha come titolo: “Esplorazioni sugli argini”. Celati compie il relativo tragitto tra il 20 e il 23 maggio 1983 e nella “Notizia” lo definisce “…un’esplorazione laboriosa degli argini del Po, con incontri che possono sembrare inverosimili”.

Il terzo tragitto viene compiuto nei giorni 9 maggio e 10 e 11 giugno 1984 ed è definito da Celati “…una visitazione delle zone della grande bonifica ferrarese”, il diario infatti ha per titolo: “Tre giorni nelle zone della grande bonifica”.

Infine, il quarto diario, quello conclusivo, ha come titolo “Verso la foce” e il relativo tragitto si svolge tra il 31 maggio e il 4 giugno 1983. Celati lo definirà “…un viaggio pieno di incertezze alle foci del Po…

Ora, va subito detto che questi “diari” sono assolutamente estranei all’idea e alla forma del tradizionale reportage di viaggio ma si configurano come un’insieme di impressioni, anche discontinue – in quanto tra loro varie e diverse – che Celati ricava da ciò che incontra ed osserva. La sua è un’attenzione per così dire antropologica che “guarda” lo stare al mondo che si svolge intorno a lui, in un luogo, il corso del grande fiume, in cui natura e paesaggio, sono irrimediabilmente cambiati, ed è proprio il suo inoltrarsi in quella natura e in quel paesaggio o quantomeno in ciò che ne resta che Celati ci racconta. Perché quell’inoltrarsi avviene all’interno di quel “deserto” che la valle del Po è divenuta, disseminata come essa è di cartelloni pubblicitari, insegne commerciali, villette geometrili dipinte con colori acrilici e con i giardini occupati dai nanetti di Biancaneve, mentre per contro ci sono case coloniche abbandonate e vecchie corti in rovina tra svincoli autostradali e “siderali distese d’ asfalto”.

Un “panorama” che Celati ci descrive con pacata ma inesorabile crudezza e, in questo senso, il suo merito è grande. In quanto, come ha affermato Marco Belpoliti in un’intervista rilasciata in occasione della recente uscita del suo libro “Pianura”, anch’esso incentrato sul “mondo” della pianura padana: “La scoperta fondamentale l’ha fatta Celati. Quando è andato in giro per scrivere Verso la foce ha scoperto che in quelle campagne c’era la periferia. Che la periferia non era solo intorno alle città, ma che queste campagne erano diventate delle periferie”. (“Il viaggio di Belpoliti nella Pianura” – Intervista a Marco Belpoliti pubblicata sul sito “RivistaStudio” l’11.2.2021)

E’ insomma l’esito delle “mutazioni” prodotte dal dominio della dimensione di tutto ciò che è materiale quello a cui Celati dà visibilità in Verso la foce, facendone una “sua” narrazione. E, nel coglierne lucidamente il suo affermarsi, egli gli oppone la sua sensibilità e la sua “visione” che svelano l’intrinseco non senso che vivere in quella dimensione trasmette. Ma, soprattutto, gli oppone il suo modo di suscitare la dimensione opposta cioè quella dell’ immateriale che, pur in quell’ assenza di senso, egli riesce ad evocare con il suo sguardo e con il suo narrare, creando una sorta di sottofondo poetico semplice e, al tempo stesso, malinconico. E questo sottofondo dona a Verso la foce un suo particolare fascino proprio perché trasmette una leggerezza insita in uno sguardo che sa liberarsi e sa superare la realtà così come essa è.

Verso la foce è pertanto fortemente centrato sull’esperienza del vedere, tanto che Celati stesso definirà i quattro diari “racconti d’osservazione”. E ciò non solo perché essi nacquero nel contesto di un progetto fotografico ideato da Luigi Ghirri, di cui Celati fu grande amico, progetto che Celati stesso richiama nell’incipit della “Notizia” : “Questi quattro diari di viaggio sono nati mettendomi a lavorare con un gruppo di fotografi, che si dedicavano ad una descrizione del nuovo paesaggio italiano, tra cui il mio amico Luigi Ghirri. Per come sono adesso, dopo essere stati riscritti e resi leggibili, li chiamerei racconti d’osservazione”. Ma anche perché Celati rivolge uno sguardo al paesaggio che egli attraversa che fa del vedere un’esperienza di interpretazione del mondo come gli “appare” lungo il suo cammino. Celati starà infatti in continuo dialogo con se stesso rispetto a ciò che incontra, cercando di stabilire delle “relazioni” con cose e persone in base all’ empatia che quelle cose e persone gli suscitano.

Lontano quindi sia dall’idea romantico-turistica del paesaggio, sia da quella dell’indagine sociologica indotta dall’osservazione del paesaggio, Celati si rivela del tutto estraneo a qualsiasi ricerca di oggettività e di razionalità, muovendosi invece nel flusso del disordine delle cose che incontra e che attraversa, assecondandolo. Il paesaggio che Celati vede e ci racconta è infatti dominato da quel disordine con tutto lo spaesamento e il senso di estraneità/diversità indotti in lui da quella dilagante “normalità” che gli si presenta lungo il suo cammino. Egli ci fa vedere quanto la pervasiva omologazione che quella “normalità” produce snatura il mondo, offusca la bellezza e genera un caos che è insieme spaziale, visivo ed esistenziale. Ciò che Celati vede e racconta si rivela al suo solo apparire impietoso, perché l’invasione degli spazi e la loro distruzione, prima attraverso la loro appropriazione, poi attraverso l’ insediarsi in essi, determina quell’espropriazione del naturale da parte del residenziale che espropria il paesaggio dal poter essere ancora un bene comune.

L’inquinamento materiale diventa così estrinsecazione di un inquinamento esistenziale che si manifesta in quell’indifferenziato e in quell’indifferenza in cui uomini e cose vivono. Sembra un mondo abitato sempre di più da esseri espropriati della loro anima così come case e cose che li circondano sembrano a loro volta senz’anima. Scrive a questo proposito Celati: “Viaggiando nelle campagne della valle padana è difficile non sentirsi stranieri. Più dell’inquinamento del Po, degli alberi malati, delle puzze industriali, dello stato di abbandono in cui volge tutto quanto non ha a che fare con il profitto, e infine d’una edilizia fatta per domiciliati intercambiabili, senza patria né destinazione – più di tutto questo, ciò che sorprende è questo nuovo genere di campagne dove si respira un’aria di solitudine urbana.

Ed è dentro questa solitudine che si genera l’isolamento e l’estraneità. Se infatti non c’è un interesse materiale e se non c’è il canone della “normalità” a regolare le cose, la volontà si atrofizza e il senso sparisce, come nel racconto fatto a Celati da quell’ “esperto della vita nella valle padana” che alla domanda di Celati: ”Gli ho chiesto cosa succederebbe se, mentre attraverso le campagne cremonesi, andassi a chiedere un bicchiere d’acqua in una casa”, così gli risponde: “Non gliela danno mica sa ? Quelli della casa si direbbero: ma perché questo viene qui a disturbarci noi che siamo in casa nostra? Se qui uno va a chiedere qualcosa senza che ci sia un commercio di mezzo, è considerato un miserabile. E quando la gente deve guardare in faccia un miserabile, non è contenta. Qui la gente sopporta qualsiasi cosa, ma non di dover guardare in faccia un miserabile”.

E così, qui come in altri suoi incontri, Celati si trova a registrare questa sensazione di un mondo sempre sul punto di perdere significato e di svanire implodendo in se stesso, dentro un vuoto e un silenzio che trasmettono un desolato e desolante senso di abbandono, come appaiono a Celati quegli anonimi luoghi e quelle anonime cose che incontra durante il suo viaggio: “I tagli di luce e ombra fanno apparire forme desolate su tutti i muri, pezzi d’asfalto, siepi o cartelli ai margini d’un movimento generale di traffici e vendite. Le cose che non indicano vendite o direzioni di marcia sono tutte in abbandono…In questo viaggio per le campagne abbiamo visto un abbandono generale del mondo esterno: aggregati di case in cemento con l’aria d’essere appena sorte e subito abbandonate, fattorie dove non si riconoscono forme di vita, cave di sabbia anch’esse deserte, recinti di roulottes in mezzo ai prati, tralicci dell’alta tensione con fili che pendono su lunghissime distanze. Il vuoto è riempito da nomi di località inesistenti, non luoghi ma solo nomi messi sui cartelli stradali da qualche amministrazione dello spazio esterno”.

Celati nel suo guardare si sofferma e si interroga di continuo sulle “apparenze” che le cose hanno, attratto assi più dall’inappariscenza delle cose che dal loro apparire, consapevole del mistero che si cela dietro la realtà e di quanto, la bellezza che le cose possono avere, sia racchiusa in tale mistero. Invece il mondo così com’è sembra fuggire e rifuggire di continuo da quel mistero, negandolo; occupato e preoccupato solo di affermare “…un’idea del mondo come evidenza senza misteri, frigida informazione sui fatti del giorno e basta”. Ed è il fascino di luoghi che ancora possiedono quel mistero che richiama l’attenzione di Celati, di cui ci trasferisce il loro incanto che diventa, nelle sue parole, narrazione favolistica.

Come nell’evocativa descrizione di Pomponesco e della sua piazza, in cui la presenza del vuoto e del silenzio assumono tutto un altro significato rispetto a quello che la loro presenza emana nei luoghi invasi da quel senso di abbandono visti prima: “Qui voglio parlare di Pomponesco. Dopo Viadana, lasciando lo stradone provinciale e inoltrandosi per una strada in direzione del Po, quando si arriva in paese parrebbe d’essere in un’epoca tutta diversa. Pomponesco è fatto di strade dritte a intersezione ortogonale, come Guastalla e Ferrara, stradario rinascimentale che riprende il modello del campo fortificato romano. Pochi abitanti, e certe volte alla domenica mattina, in quelle strade dritte e silenziose, viene l’idea di essere in un lontano stanziamento di frontiera. Il paese si stende intorno a una meravigliosa piazza rettangolare, non umiliata dal cemento e dal nuovo. La prospettiva delimitata in fondo da due colonne a ridosso dell’argine, imbuto d’una strada silenziosa con belle case antiche, porta l’occhio verso l’aperto. Là in fondo l’aperto si presenta dietro un orizzonte, facendo sentire l’indistinta lontananza che dà un senso alla nostra collocazione spaziale. Piazza quasi sempre vuota, dove il vuoto si riconosce come l’accogliente, e noi accolti potevamo accorgerci degli altri accolti di passaggio, senza la solita sensazione di fastidio

O come quando descrive la magnifica ed enigmatica facciata della reggia di Colorno, a fronte della impersonale geometrica fissità delle villette sparse nelle campagne: “La facciata della reggia è in equilibrio tra due torrioni a campanile sui lati, e le statue dall’alto del cornicione guardano giù come dèi dal cielo. Mi colpisce che la distanza tra le finestre sia dovunque irregolare, non riconosco uno schema, però sento un ritmo che percorre tutta la facciata. Superbia di un’eleganza che non ti mostra mai i suoi schemi, perché sa che la perfezione non dev’essere appariscente, e che il ritmo è qualcosa che spunta al di là di una misura regolare. Niente di più lontano dalla necessità di squadrare tutto con schemi riconoscibili e misure fisse, che dà forma alle villette geometrili nelle campagne”.

Ma questo mistero riguarda anche la terra e il fiume e tutto ciò che vi si muove segretamente, nonostante noi. Come quando, immerso nella vastità del Delta, Celati si accorge che pure il linguaggio non è in grado di rendere quel mistero rivelando la sua impotenza di fronte a quel compito: “L’immobilità dell’acqua e il silenzio completo fanno immaginare un’infinità di movimenti invisibili che si ripetono senza sosta, sotto le alghe, dentro i cespugli, sotto i sassi, e anche sottoterra. Un pezzo di tronco mangiato dall’acqua ai miei piedi sembra la faccia di un vecchio, l’erba tra i sassi si direbbe butterata da un vaiolo portato dal vento, un pacchetto di sigarette scolorito sembra masticato da una bestia. Pretese delle parole; pretendono di regolare i conti con quello che succede là fuori, di descriverlo e di definirlo. Ma là fuori tutto si svolge non in questo o in quel modo, c’entra ben poco con ciò che dicono le parole. Il fiume qui sfocia in una distesa senza limiti, i colori si mescolano da tutte le parti: come descrivere?”

Ma questa impossibilità di distinguere e quindi di nominare a cui Celati si vede messo di fronte dall’ imperscrutabilità della natura, rimanda ad una sua consapevolezza profonda di cui ci fa partecipi e cioè di quanto sia vano organizzare il mondo e pretendere di impossessarsene, laddove invece, è assecondando e osservando il fluttuare delle cose nel loro apparire e scomparire che possiamo stabilire un rapporto esistenzialmente fervido con esse e con noi stessi: “Le cose sono là che navigano nella luce, escono dal vuoto per aver luogo ai nostri occhi. Noi siamo implicati nel loro apparire e scomparire, quasi che fossimo qui proprio per questo. Il mondo esterno ha bisogno che lo osserviamo e lo raccontiamo, per avere esistenza.”, ma senza la pretesa di poterlo “conoscere”, bensì predisponendosi allo stupore: “Ogni volta è una sorpresa, scopri di non saper niente di preciso sul mondo esterno”.

E, nell’alveo di questa sensibilità, vi è l’ altra consapevolezza, quella di non pensare il mondo come qualcosa di permanente, laddove proprio il Delta con i suoi frastagliamenti e la “mobilità” delle sue sponde diventa metafora dell’impermanenza del mondo, di come cioè tutto sia predestinato a eclissarsi “ridiventando detriti”: “Quei frastagliamenti sono terreni incerti, e quanto si vede oggi l’anno prossimo sarà diverso, per alluvioni o mareggiate o bradisismi; quanto si vede oggi è un’apparizione di grazia, in mezzo a centomila sprofondamenti…con un grande fiume che arriva a destinazione aprendosi a ventaglio in sei bracci: come se questa fosse la tendenza di tutto qui, aprirsi andando alla deriva verso il mare, raggiungere una foce dove tutte le apparizioni si eclissano ridiventando detriti.

E’ quella di Celati una cognizione del mondo dove tutto è sempre sul punto di svanire, rivelandone, del mondo, la finitezza e facendo dello smarrimento una scelta esistenziale verso cui walserianamente disporsi, accogliendola: “Stamattina in volo nel cielo, altostrati un po’ bluastri che ora si diradano…C’è quel vento che a tratti scuote gli arbusti sul ciglio della strada, arriva lì e disperde dei lucherini che volano via. Come la dimenticanza quando arriva con la sua onda, spazza la pianura in ogni angolo, e ti lascia lì dismemorato e intontito per le troppe cose che passano viaGli unici paesaggi a cui si va incontro sono andamenti di abitudini, circostanze secondo le ore, luci e colori e rumori che cambiano. Tutto questo svanire da cui nascono i racconti, la nostra piccolezza dispersa vicino a un fiume.”

Così i “diari” di Celati si distendono e si dilatano come fossero dei diari personali nel senso che in essi si avverte la presenza di una intimità: “Anche l’intimità che portiamo con noi fa parte del paesaggio”, e gli itinerari diventano non più solo quelli geografici ma anche quelli dentro se stessi e con se stessi. Celati ci conduce dentro una sorta di peregrinazione comune, aprendo percorsi all’interno di uno spazio che è più ampio di quello narrato, corrispondendo esso a ciò che egli riteneva “necessario” che, quel suo viaggiare, lo dovesse portare: “Ogni osservazione ha bisogno di liberarsi dei codici familiari che porta con sé, ha bisogno di andare alla deriva in mezzo a tutto ciò che non capisce, per poter arrivare ad una foce, dove dovrà sentirsi smarrita. Come una tendenza naturale che ci assorbe, ogni osservazione intensa del mondo esterno forse ci porta più vicino alla nostra morte; ossia, ci porta ad essere meno separati da noi stessi.”

Il carattere del “viaggio” compiuto da Celati è quindi quello di un pellegrinaggio al contrario, il cui fine non è il raggiungimento di una certezza e la conquista di una verità, anzi ne costituisce la definitiva perdita. Solo in apparenza c’è quindi una destinazione se non quella dello smarrirsi e perdersi in un indistinto che è come un vagare al limitare dell’ignoto. Perché al fondo c’è un indicibile che resiste ad ogni scrittura e il narratore che cammina verso la foce non può che lasciarsi andare all’indifferenza di quel silenzio che alla fine lo accoglie e che egli, a sua volta, può accogliere sereno, libero da qualsiasi residuo osservare, da qualsiasi attesa o ricerca. Disponendosi solo a ricevere le apparenze del mondo, come nel verso di Hölderlin posto da Celati in epigrafe: L’aperto giorno riluce per l’uomo di immagini.

E l’ invocazione con cui Celati chiude Verso la foce è a quelle immagini che si rivolge perché possano accorrere e restarci vicine quando le parole non ne saranno più capaci. Vicino a due Mercedes bianche parcheggiate sulla massicciata, uomini con camicie militari e calzoni da paracadutista. Hanno con sé binocoli, macchine fotografiche, un treppiede col lungo cannocchiale da bird watching; sono tedeschi, forse etologi, e guardano il mare. Ore 20.30. Continuiamo a guardare il mare come se dovesse succedere qualcosa da un momento all’altro; si direbbe che aspettino la fine del mondo gli etologi tedeschi, qui al limite estremo della pianura…Noi aspettiamo ma niente ci aspetta, né un astronave, né un destino….Ogni fenomeno è in sé sereno. Chiama le cose perché restino con te fino all’ ultimo.

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