“Diario 1938” – Elsa Morante

Elsa Morante – “Diario 1938” – A cura di Alba Andreini – 1989 – Einaudi

Del diario inedito del 1938, qui messo a stampa integralmente per la prima volta, è stata data notizia nella Cronologia delle Opere di Elsa Morante (Mondadori, Milano 1988), dove compaiono anche, a cura di Carlo Cecchi e Cesare Garboli, alcuni suoi stralci (pp. xxx-x1).

Redatto su un ordinario quaderno di scuola a quadretti dalla copertina nera e di dimensioni cm 20,5 x I4,5, il manoscritto autografo occupa le prime 29 pagine delle 76 complessive (escluso il frontespizio), per un totale di 57 facciate non numerate. Il riquadro del frontespizio contiene nella parte superiore, in forma di epigrafe, i versi danteschi (Purg., XV, 3I-33) poi ripresi nel diario alla data 24 febbraio…; presenta inoltre, nel margine inferiore destro, la dicitura «Libro dei sogni», nel margine laterale sinistro, la massima «La vida es sueño». Sul recto della prima pagina figura in occhiello, al centro, il titolo «Lettere ad Antonio», mentre a partire dal recto della seconda ha inizio il diario, che riempie fittamente le pagine seguenti e si conclude sul recto della ventinovesima. Per quanto riguarda il titolo, si è preferito…un titolo di genere, Diario 1938, che trova la sua giustificazione nella scansione cronologica del quaderno [che va dal 19 Gennaio al 30 Luglio 1938.]” (Libera riduzione da “Note al testo” di Alba Andreini pgg.63-65)

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“Il levitatore” – Adrián Bravi

Winfried Sebald in quella sua bellissima raccolta di “profili” di alcuni autori a lui cari che ha per titolo “Soggiorno in una casa di campagna”, dedica uno di tali “profili” ad uno degli autori da lui più amati: Robert Walser del quale ne dà questa descrizione: “Robert Walser era nato, credo, per un viaggio silenzioso…un viaggio nell’aria. Sempre…egli vuole innalzarsi oltre la pesante vita terrena, vuole dileguarsi tacito e lieve in direzione di un mondo più libero.” (W. Sebald – “Le promeneur solitaire. In ricordo di Robert Walser” in W. Sebald – “Soggiorno in una casa di campagna” – Adelphi – 2012 – p. 135). Ebbene queste stesse parole che Sebald riferisce al modo di porsi di Walser nella sua vita e nelle sue opere potrebbero essere dette, ancor più appropriatamente, con riferimento al personaggio di Anteo Aldobrandi, il protagonista de “Il levitatore” di Adrián Bravi. In quanto Anteo non solo con lo spirito ma anche con il corpo tende a sollevarsi da terra giacché è dotato, in modo naturale, della capacità di levitare cioè di staccarsi dal terreno restando sospeso, in quella condizione di “sgravitato”, in modo stabile. Ad Anteo infatti non occorre sollevarsi di tanto; seduto sul suo cuscino preferito ed incrociate le gambe, per lui “…l’importante…è riuscire a staccarsi e a mantenere una propria stabilità.”

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“Da quando sono nato” – Maurizio Salabelle – Seconda parte

Patrizio Rhuggi, il protagonista di “Da quando sono nato”, nasce in un brutto momento, potremmo dire già nel segno della sfiga. Infatti il giorno in cui nasce il padre aveva appena dovuto chiudere definitivamente i suoi negozi di accessori a causa della perdita del portafogli. Che, detto così, sembra un bel po’ sproporzionato ma non ci si deve sorprendere perché qui le sproporzioni, le esagerazioni, le iperboli impazzano. Basti dire che veniamo messi pure al corrente che i Rhuggi, a quell’ epoca, abitavano a novecento chilometri dal capoluogo che, in effetti, è una distanza un bel po’ siderale da un capoluogo. Ma la perdita di quel portafogli fu davvero per il padre di Patrizio una disgrazia seria perché significò la perdita di quell’ “…affare fondamentale” che lo farà piombare di colpo nel fallimento. Il quale, cioè il fallimento, fin dall’ inizio della storia fa dunque la sua apparizione.

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“Da quando sono nato” – Maurizio Salabelle – Prima parte

Quando lo scorso mese di ottobre Marisa Salabelle, sorella di Maurizio Salabelle, ha annunciato, sul suo blog, l’ uscita, avvenuta il 18 ottobre, di un nuovo romanzo di Maurizio Salabelle dal titolo “Da quando sono nato”, ho provato un immediato moto di contentezza. Perché Maurizio Salabelle è un autore che ho amato e amo molto, di cui ho letto tre dei suoi precedenti romanzi e cioè: “Un assistente inaffidabile” e “La famiglia che perse tempo” – dei quali ho parlato qui nel mio blog – e “Il maestro Atomi”. La contentezza era ovviamente dovuta alla prospettiva di leggere un nuovo libro di Maurizio Salabelle ma, in essa, vi era anche la sorpresa per l’ inattesa notizia dell’ esistenza di questo nuovo libro. Perché, per coloro che non lo sapessero, Maurizio Salabelle è deceduto, prematuramente, nel 2003 a soli 43 anni e, da allora, era uscito un solo romanzo postumo: “La famiglia che perse tempo”, nel 2015, che ritenevo fosse anche l’unico e l’ ultimo rimasto da pubblicare dopo la sua morte. Scoprire a distanza di otto anni da quell’ uscita e a vent’anni dalla sua morte che c’era un altro suo romanzo rimasto inedito è stata più che una sorpresa, è stato come se avessi ricevuto un regalo insperato.

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“I superflui” – Dante Arfelli – Seconda parte

“I superflui” ruota fondamentalmente intorno a un tema, il tema della mancanza. Che non è solo una mancanza di tipo materiale, che pure è fortemente presente e condiziona pesantemente le vite dei protagonisti, ma è, soprattutto, una mancanza di possibilità. Come se le risorse, sia quelle interne: del loro bagaglio personale ed esistenziale, sia quelle esterne provenienti dalla società, dal mondo, dagli altri, non fossero loro date, lasciandoli quindi, come detto, privi di possibilità. In altre parole come se i protagonisti del romanzo fossero costituzionalmente in una loro condizione di debolezza sia soggettiva che rispetto alle opportunità, che ne fa degli esclusi, degli emarginati, per l’ appunto dei “superflui”. Persone cioè la cui esistenza è segnata dall’ irrilevanza, dalla marginalità e i cui tentativi di uscire da quella loro condizione risultano inutili, perché quella loro condizione gli ritorna addosso, li accompagna sempre, ne segna la vita e il destino.

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“I superflui” – Dante Arfelli – Prima parte

“… questa era la città…era un essere immenso che lo premeva da tutti i lati, lo spingeva, gli gridava di muoversi, con la voce irosa di un facchino, con il clacson di un’automobile, con lo scampanellio di un tram. In cento modi gridava, in cento modi lo incalzava. Era la città che lui stesso si era scelta. Ma proprio lui se l’era scelta? Pensandoci bene, no. Anche qui era stata una serie di minimi avvenimenti, oggi uno domani un altro, poi un altro ancora che lentamente l’avevano staccato e portato via dal paese. Si accorse per la prima volta che sono le cose piccole quelle che contano, non le grandi. Le grandi sono il risultato di migliaia e migliaia di minuzie che ora per ora, giorno per giorno, lavorano tenaci, accanite e preparano il colpo finale.”

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“Ferragosto” – Daria Menicanti

Daria Menicanti – “Ferragosto” – Prefazione di Marco Marchi – Edizioni “Lunarionuovo” – 1986

«La poesia di Daria Menicanti, priva degli strombazzamenti critici di cui godono normalmente i poeti [alla moda], pare a me, nella sua nuda semplicità e sincerità, una delle più vive e schiette dei nostri giorni». Così scriveva Sergio Solmi, nel 1978, suggerendo di inserire l’opera poetica di questa poetessa nella tradizione della «poesia d’ogni tempo, dai primi lirici greci fino a Leopardi», che si articola sempre «nei suoi poli fondamentali di amore-morte»….Le radici più vitali di questo suo prezioso discorso lirico affondano nella Milano banfiana, dove un’eletta schiera di intellettuali, poeti, scrittori, filosofi, pedagogisti, artisti e musicologi (come Dino Formaggio, Remo Cantoni, Enzo Paci, Antonia Pozzi, Maria Corti, Vittorio Sereni, Giovanni Maria Bertin, Luigi Rognoni, Renato Birolli, etc. etc.) si è formata alla scuola di un razionalismo critico che ha saputo nutrirsi al dibattito europeo ed internazionale senza trascurare il confronto con la tradizione dei classici….Lo spessore critico di questa sua formazione feconda la sua biografia intellettuale,…in cui, per dirla con Sereni, il lettore penetra in «un limpido canzoniere, sempre leggibile come un canzoniere d’amore e sempre capace di ribaltarsi, con poco più di un docile fruscio, in un canzoniere di morte».

(Libera riduzione dalla “Sinossi” di: Daria Menicanti – ““Il concerto del grillo” – L’opera poetica completa con tutte le poesie inedite” – a cura di: Brigida Bonghi, Fabio Minazzi e Silvio Raffo – Mimesis – 2013)

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“La Piazzetta” – Massimo Cecconi

Massimo Cecconi per me è, prima di tutto, un amico. A lui devo la collaborazione, ormai pluriennale, che ho con la rivista on-line “z3xmi”, il cui slogan: “Milano informata e attiva” ne indica finalità e contesto; rivista di cui Cecconi è stato uno dei fondatori e di cui dirige la pagina culturale, sulla quale pubblico, dal 2013, cicli di recensioni a tema all’interno della rubrica di libri: “Andar per libri”.

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“L’isola riflessa” – Fabrizia Ramondino

Fabrizia Ramondino – a fronte di una notorietà, presso il grande pubblico dei lettori, tutt’ora relativa – è in realtà, da tempo, ampiamente riconosciuta come una delle massime scrittrici del nostro Novecento, avendo ricevuto, da critici autorevoli ma anche da chi si è avvicinato come lettore alla sua opera, una considerazione tale da collocarla a livello di autrici come Elsa Morante e Anna Maria Ortese che, a loro volta, furono lettrici partecipi della Ramondino oltre che sue sostenitrici ed ispiratrici. Come afferma infatti Franco Sepe nella sua monografia su Fabrizia Ramondino, “…le sue ascendenze letterarie [sono] rintracciabili, per parte italiana, nell’opera di Elsa Morante e Anna Maria Ortese.” (F. Sepe – “Fabrizia Ramondino. Rimemorazione e viaggio” – Liguori – 2010 – p. 24). E, con riferimento in particolare ai rapporti tra la Morante e la Ramondino, sempre Sepe afferma come sia “…risaputo che la scrittrice romana era stata per la Ramondino un’importante amica e uno dei suoi numi tutelari.” (F. Sepe, cit. p.27), mentre, con riferimento alla Ortese, rileva come: “Il tipo di sguardo della Ramondino sulla realtà in generale (e, segnatamente, su quella polimorfa napoletana) è affine a quello della Ortese – altro suo nume tutelare…” (F. Sepe, cit. p.64).

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“Verso la foce” – Gianni Celati

Se è vero che narrare è viaggiare, Celati, in Verso la foce, ci dà anche l’altra possibilità insita in questa affermazione e cioè fare del viaggiare un narrare. Un narrare che si forma e prende vita dentro lo sguardo che Celati posa sulle cose che egli, nel suo viaggio, vede ed incontra. Il viaggio fisico che si svolge in Verso la foce e che egli ci narra diventa così un viaggio visivo attraverso il quale Celati ci racconta le evocazioni che quelle cose gli destano, il senso o non senso che gli suscitano, le emozioni che gli provocano. Le descrizioni e riflessioni che ne derivano, e che si alternano di continuo, diventano perciò l’esito del procedere di Celati verso quella meta: la foce del Po, che egli raggiungerà, attraverso tappe distinte e distanti, seguendo il corso del fiume. Sarà quello di Celati un errare che lo porterà ad attraversare, per lo più a piedi, luoghi, spazi, ambienti di quella “valle padana” nella quale ad una natura sottomessa dall’uomo fa da corollario una presenza umana sempre più dissociata che a Celati si rivelerà come “…l’attraversamento d’ una specie di deserto di solitudine, che però è anche la vita normale di tutti i giorni”. Segnale di una deriva già incubata in quella realtà, che le “apparenze” materiali camuffano e riempiono. Epifanie di futuro che Celati già avverte ed anticipa.

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