Adam Zagajewski – ““Dalla vita degli oggetti” – Poesie 1983-2005” – A cura di Krystyna Jaworska – Postfazione di Krystyna Jaworska – Adelphi – 2012
L’emigrazione in senso stretto ha segnato indubbiamente la biografia di Adam Zagajewski, si può dire sin dalla più tenera età. La sua famiglia dovette lasciare Leopoli – città dove era nato – nel 1945, quand’egli aveva solo quattro mesi, a seguito degli spostamenti dei confini polacchi sanciti a Jalta; cresciuto in Slesia, in una Gliwice grigia e anonima, compì gli studi universitari a Cracovia…In quel periodo fu tra i protagonisti della corrente <<Nowa Fala>>, che raccoglieva giovani poeti, spesso definiti con il termine <<generazione del ’68>>, uniti da un senso di critica e di rivolta nei confronti delle aberrazioni del socialismo reale…Dal 1979 al 1981 è a Berlino Ovest grazie a una borsa di studio…Nel 1982, dopo l’introduzione della legge marziale, lasciò il suo paese e si stabilì a Parigi collaborando a periodici della vecchia emigrazione politica…La scelta di vivere all’estero rappresenta una cesura fondamentale che influisce anche sulla poetica. Non a caso assume allora un nuovo spessore la tematica del viaggio e la mitizzazione dei luoghi legati alla storia familiare (si pensi alla raccolta “Andare a Leopoli” del 1985).
Si è soliti individuare due distinti periodi nella produzione di Zagajewski: una prima fase connessa alla <<Nowa Fala>> caratterizzata da una poesia socialmente impegnata; poi,…una seconda fase <<estetizzante>>, in cui, pur permanendo le tensioni morali del periodo precedente, aumenta la valenza delle istanze metafisiche, cosicché la voce del poeta non è più espressione di un sentire comune, ma del soggetto singolo: l’io tende a sostituire il noi. A partire dal 1988 Zagajewski tiene ogni anno un corso semestrale di lezioni negli Stati Uniti; rientrato a Cracovia nel 2002, divide il suo tempo tra Europa e America. Il migrare di paese in paese si riflette fortemente nei suoi versi e nella sua prosa, dove riaffora il ricordo delle città che ha visitato e in cui ha vissuto…Adam Zagajewski ha ricevuto importanti riconoscimenti internazionali. Nel 2004 gli fu conferito il prestigioso Neustadt Literature Prize [conferito dall’università dell’ Oklahoma. Fu, tra l’altro, il secondo polacco, dopo Miłosz, a ricevere tale premio e, sempre in quell’anno]…il suo nome si trovava nella rosa dei candidati al Nobel per la letteratura. [Nel 2015 riceverà l’Heinrich Mann Prize e nel 2017 il Premio Principessa delle Asturie per la letteratura.]
Di che cosa ci parla la poesia di Zagajewski? Apparentemente di luoghi ben definiti, di brani di musica, e poi di filosofi, artisti, amici, familiari: tramite loro riflettiamo sul nostro essere al mondo. La vita, o i frammenti di vita dei suoi soggetti ci svelano qualcosa di noi…I suoi versi, tramite la descrizione di una situazione, di un fatto, vogliono comunicare un particolare stato d’animo. In questo senso il suo è il tentativo di cristallizzare per un attimo, e in un attimo, un frammento di eternità e cogliere in modo condensato una percezione più intensa dell’esistente…Sarebbe però errato vedere in Zagajewski semplicemente un esteta. L’anelito al bello non impedisce di scorgere l’abisso della caducità umana e della crudeltà del mondo.
Tuttavia etica ed estetica sono per lui collegate in modo diverso rispetto alla concezione di Milosz…Per Milosz il bello è un’ancora di salvezza per sfuggire al male del mondo. Per Zagajewski invece rappresenta un’altra dimensione che traspare dietro la materia, e ha quindi un valore conoscitivo …più che consolatorio , ha una funzione di bilanciamento del dolore.
E’ stato Josif Brodskij a rilevare una peculiarità della letteratura polacca contemporanea. La presenza in uno stesso, ristretto arco di tempo di molti poeti di altissima levatura. Brodskij menziona accanto a Milosz (Premio Nobel 1980), Zbigniew Herbert. Ma a Herbert si devono aggiungere Tadeusz Różewicz e Wislava Szymborska (Premio Nobel nel 1996)…e Zagajewski non si sottrae a questa tradizione. Tuttavia pochi poeti polacchi contemporanei pongono la questione dell’estraneità, seppure piena di meraviglia e di estasi, al centro della loro opera come fa Zagajewski. Egli si sente in certo qual modo straniero ovunque, in tutte le sue città: la natia Leopoli, la Gliwice dell’infanzia, la Cracovia degli anni universitari e giovanili, e i vari luoghi dell’emigrazione: Berlino, Parigi, Houston…Per Zagajewski l’esilio, l’estraneazione, è una condizione esistenziale, ancor prima che intellettuale, destinata a sfociare in una prospettiva ontologica, in un particolar modo di porsi del soggetto nei confronti del mondo per cercare di conoscerlo.
Lontano dalla patria si fa strada la nostalgia che si manifesta nell’evocazione…della città dei genitori, che, conosciuta solo tramite i loro ricordi, si volge in mito, diventa spazio fatato, è nostalgia potenziata dalla mediazione emotiva. Ma in Zagajewski vive anche un’altra specie di nostalgia: il desiderio di ricomporre l’immagine di un mondo ridotto in frammenti apparentemente privi di senso, recuperando nella percezione del presente la memoria del passato, facendo rivivire i morti, le opere d’arte, le conoscenze che abbiamo ereditato. Ma con la consapevolezza della fugacità del presente.
Come è stato più volte rilevato, Zagajewski trasforma il mondo in un’opera d’arte, pratica una poesia visuale che crea immagini simultanee. Il suo sguardo è come quello del pittore che cogliendo la realtà in un istante particolare, la sottrae al flusso del tempo fermandola, come fa l’amato Vermeer…Nell’immobilità della pittura, il poeta intravede il paradossale convivere di esistenza e annientamento, in quanto contrarre la vita in un istante richiama l’idea della morte…Allo stesso modo però ciò che è morto rivive, ciò che è statico diviene dinamico. I quadri si animano. In “La fanciulla di Vermeer”, la fanciulla ci osserva. In “Morandi”, la brocca, le bottiglie e gli altri oggetti dello studio del pittore pulsano di emozioni e sentimenti di rivolta nella notte, e animare gli oggetti è…uno dei topoi ricorrenti di Zagajewski.
L’obiettivo della poesia di Zagajewski è esprimere autenticamente il vissuto restando fedeli alla realtà, all’etica e all’estetica. Egli media questi elementi attraverso una scrittura riflessiva, concettuale, anche le sue metafore, in apparenza immediate, sono in realtà cerebrali e le associazioni mentali, i fili nascosti che collegano i versi dando loro organicità, operano non già per mezzo della melodia e dei giochi di parole, ma di immagini che si compenetrano in una costruzione sottile. Questo fa si che i suoi versi restino impressi, più che come suono, come visioni mentali, e incidano sul nostro pensiero non tanto emotivamente, quanto intellettualmente.
(Libera riduzione dalla Postfazione: “La poesia tra incanto e ironia” di Krystyna Jaworska)
Adam Zagajewski sì è spento il 21 marzo – giornata mondiale della poesia – del 2021.
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LA BANDIERA
La mattina mi sveglio e cerco di appurare
con l’aiuto di un binocolo da teatro
quale bandiera sventoli sulla mia città
nera, bianca o grigia come il terrore,
se la mia città è già stata conquistata
o ancora si difende, se implora
la clemenza dei vincitori oppure
porta il lutto per alcuni secondi
di oblio, o forse io stesso sono
la bandiera solo che non so
vederla, così come non vediamo
il nostro cuore.
VITALIZIO
Sono ormai cessate quelle sofferenze.
Tace il pianto. In un vecchio album
vedi il volto di un bambino ebreo
a un quarto d’ora dalla morte.
Hai gli occhi asciutti. Scaldi l’acqua
per il tè, mangi una mela. Vivrai.
A MAGGIO
Camminando nel bosco, in un’alba di maggio,
chiedevo, dove siete, anime
dei morti. Dove siete, giovani
scomparsi, dove siete, ormai del tutto
mutati.
Un grande silenzio regnava nel bosco
e udivo le foglie verdi sognare,
udivo i sogni della corteccia da cui nascono
barche, navi e vele.
Poi a poco a poco gli uccelli si fecero
sentire, cardellini, tordi e merli nascosti
nei balconi dei rami; ognuno parlava a suo modo,
con voce diversa, senza chiedere nulla, senza
amarezza o rimpianto.
E capivo che voi siete nel canto,
inafferrabili come la musica, indifferenti come
le note, lontani da noi quanto noi
da noi stessi.
NELLA BELLEZZA ALTRUI
Solo nella bellezza altrui
vi è consolazione, nella musica
altrui e in versi stranieri.
Solo negli altri vi è salvezza,
anche se la solitudine avesse sapore
d’oppio. Non sono un inferno gli altri,
a guardarli il mattino, quando
la fronte è pulita, lavata dai sogni.
Per questo a lungo penso quale
parola usare: se lui o tu.
Ogni lui tradisce un tu, ma
in cambio nella poesia di un altro
è in fedele attesa un dialogo pacato.
ALL’ALBA
All’alba dai finestrini del treno vedevo città
disabitate, spopolate dal sonno,
aperte e indifese come grandi
animali sdraiti sul dorso.
Per le vaste piazze camminavano
solo i miei pensieri e un vento freddo,
sulle torri perdevano i sensi bandiere di lino,
nelle chiome degli alberi si svegliavano gli uccelli,
nelle folte pellicce dei parchi scintillavano
occhi di gatti selvatici,
nelle vetrine dei negozi si specchiava
la timida luce del mattino, eterno debuttante,
le giostre, finalmente assorte,
pregavano il loro invisibile centro,
i giardini fumavano come le rovine di Varsavia,
e alle mura brune del macello
ancora non era arrivato il primo camion.
All’alba le città non sono di nessuno,
non hanno nomi
e neppure io ho un nome,
sul far del giorno, quando svaniscono le stelle
e il treno corre sempre più veloce.
MORANDI
Gli oggetti vegliavano anche di notte,
mentre lui dormiva sognando l’Africa;
la brocca di porcellana, due annaffiatoi,
le verdi bottiglie da vino, un coltello.
Quando dormiva sodo, come può dormire
solo un artista esausto, stremato,
gli oggetti ridevano, prossimi alla rivolta.
L’annaffiatoio, ficcanaso dal lungo becco,
sobillava gli altri, febbrile,
e il sangue pulsava selvaggio nella porcellana
ignara del tocco di labbra assetate,
solo occhi, sguardo, percezione.
Di giorno erano più docili e persino fieri:
tutta la ruvida esistenza del mondo
trovava rifugio in questi oggetti,
abbandonando per un attimo il ciliegio
in fiore e il cuore afflitto dei morenti.
NELLE CITTA’ STRANIERE
A Zbigniew Herbert
Nelle città straniere c’è una gioia sconosciuta,
la fredda felicità di un nuovo sguardo.
Gli intonaci gialli delle case, sui quali il sole
si arrampica come un agile ragno, esistono
ma non per me. Non per me furono costruiti
il municipio, il porto, il tribunale, la prigione.
Il mare scorre per la città con una marea
salata e allaga le verande e le cantine.
Al mercato i prismi delle mele, piramidi
che svettano per l’eternità di un pomeriggio.
E pure la sofferenza non è poi così
mia: il matto locale farfuglia
in una lingua straniera, e la disperazione
di una ragazza sola in un caffè è come
il frammento di una tela in un cupo museo.
Le grandi bandiere degli alberi si agiatano
al vento così come nei luoghi
a noi noti, e lo stesso piombo fu cucito
negli orli di lenzuola, di sogni,
dell’immaginazione folle e senza casa.
STORIA DELLA SOLITUDINE
Si smorzano le voci degli uccelli.
La luna si mette in posa per la foto.
Luccicano le umide guance delle vie.
Il vento porta il profumo di campi verdi.
Lontano, in alto, un piccolo eereoplano
gioca come un delfino.
DALLA VITA DEGLI OGGETTI
La pelle levigata degli oggetti è tesa
come la tenda di un circo.
Sopraggiunge la sera.
Benvenuta, oscurità.
Addio, luce del giorno.
Siamo come palpebre, dicono le cose,
sfioriamo l’occhio e l’aria, l’oscurità
e la luce, l’India e l’Europa.
E all’improvviso sono io a parlare: sapete,
cose, cos’è la sofferenza?
Siete mai state affamate, sole, sperdute?
Avete pianto? E conoscete la paura?
La vergogna? Sapete cosa sono invidia e gelosia,
i peccati veniali non inclusi nel perdono?
Avete mai amato? Vi siete mai sentite morire
quando di notte il vento spalanca le finestre e penetra
nel cuore raggelato? Avete conosciuto la vecchiaia,
il lutto, il trascorrere del tempo?
Cala il silenzio.
Sulla parete danza l’ago del barometro.
LA FANCIULLA DI VERMEER
La fanciulla di Vermeer, ora famosa,
mi guarda. La perla mi guarda.
La fanciulla di Vermeer ha labbra
rosse, umide, lucenti.
Fanciulla di Vermeer, perla,
turbante azzurro: tu sei luce,
e io sono fatto d’ombra.
La luce guarda l’ombra dall’alto,
con indulgenza, forse con rimpianto.
L’ATTIMO
Un attimo di chiarezza dura così poco.
L’oscurità resta più a lungo. Vi sono
più oceani che terraferma. Più
ombra che forma.
LA STANZA
A Derek Walcott
La stanza in cui lavoro è un esaedro
che assomiglia a un dado da gioco.
Là dentro un tavolo di legno
dal duro profilo contadino,
una pigra poltrona e una teiera
dal labbro absburgico sporgente.
Alla finestra vedo qualche albero stentato,
esili nuvole e bimbi dell’asilo,
vocianti, sempre allegri.
A volte in lontananza scintilla un parabrezza
o, più in alto, la squama argentea di un aereo.
E’ evidente, gli altri non perdono tempo
mentre io lavoro, cercano avvventure
sulla terra o nell’aria.
La stanza in cui lavoro è una camera oscura.
Ma cos’è il mio lavoro –
lunghe attese, immobile,
pagine sfogliate, riflessione paziente,
una passività poco gradita
a un giudice dal cupido sguardo.
Scrivo lentamente, come se potessi vivere duecent’anni.
Cerco immagini che non ci sono,
e se ci sono, sono ripiegate e riposte
come gli abiti estivi durante l’inverno,
quando il gelo screpola le labbra.
Sogno la concentrazione totale; se la trovassi
certamente smetterei di respirare.
Forse è bene che non riesca a fare molto.
Eppure sento il sibilare della prima neve,
la delicata melodia della luce del giorno
e il cupo brontolio della metropoli.
Bevo da una piccola fonte,
la mia sete è più grande dell’oceano.
LA’, DOVE IL RESPIRO
Sta sulla scena
senza alcuno strumento.
Appoggia le mani sul petto,
là dove nasce il respiro
e dove si spegne.
Non sono le mani a cantare
e nemmeno il petto.
Canta ciò che tace.
Apparentemente niente di eccezionale, poi si viene travolti.
un saluto t.
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Si, è proprio così.
Un saluto anche da parte mia.
r
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Mi ha particolarmente colpita la poesia dedicata a Morandi, forse perché sono di Bologna…belle tutte, molto profonde.
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In queste poesie c’è un’ immobilità che ha una sua vita, come avviene nei quadri di Morandi, ma in questa immobilità si cela un mistero che resta tale, cioè impenetrabile, giacché: “Vi sono più oceani che terraferma. Più ombra che forma.” (L’ ATTIMO) Ed è in questa capacità di vedere e di farci vedere il mistero di quest’ ombra che si cela dietro le forme che sta la bellezza e la profondità di queste poesie.
Grazie della visita e della condivisione.
Raffaele
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