Manes Sperber, nato nel 1905 in Galizia da una famiglia ebraica, è stato scrittore e saggista, ma volendo darne una definizione sintetica lo possiamo sicuramente definire come un importante figura intellettuale del ‘900, giacché, nella sua vita, ha avuto vasti e rilevanti interessi culturali e disciplinari, nonché politici ed istituzionali. Si è occupato di psicologia (è stato allievo e collaboratore di Adler, il fondatore della psicologia individuale comparata), ma si è occupato anche di sociologia, di filosofia, e di letteratura.
Ha militato nel Partito Comunista all’ epoca del nazismo, uscendone poi nel ’37. Stabilitosi in Francia allo scoppio della guerra, lavorò, successivamente alla sua conclusione, al Ministero dell’Informazione francese con Andrè Malraux e fu anche direttore letterario della casa editrice Calmann – Levy. Non a caso C. Magris che ne “L’anello di Clarisse” gli dedica un capitolo: “Un ritorno da nessun luogo. La totalità perduta di Manes Sperber”, analizzandone la personalità e l’opera afferma: “Il rapporto fra vita, autobiografia e letteratura si configura come una sfaccettata unità” ( C. Magris – “L’anello di Clarisse” – Einaudi Tascabili – 1999 – pg.322) a sottolineare la ricchezza e varietà di esperienze intellettuali e personali vissute da Manes Sperber, nonché i loro intimi legami.
Tra il ’49 e il ’53 Sperber pubblicò, in francese, tre romanzi che erano parte di una trilogia, nel primo dei quali, “Il roveto in cenere”, si fa accenno a “Il tallone d’Achille” che, a sua volta, non è un romanzo ma una raccolta di saggi evidenziando ciò la duplice natura di Sperber: scrittore e saggista. In tal senso, il primo aspetto che conta rilevare dello Sperber saggista è il suo eclettismo coerente, peraltro, con la sua biografia intellettuale.
I saggi contenuti ne “Il tallone d’Achille” spaziano, infatti, in ambiti assai diversi, che fanno sostanzialmente capo ai vari filoni di interesse e di lavoro di Sperber. Si va da quelli a contenuto storico-politico che affrontano i temi: della crisi della sinistra, dell’uso politico della Giustizia, del razzismo antisemita, a quelli a contenuto più dissacratorio, come quello su Freud intitolato, non a caso, “Miseria della psicologia” e quello su Lawrence d’Arabia che destituisce di fondamento molti aspetti della sua leggenda, per finire con quello su “Il pubblico e la sua anima” in cui Sperber riflette sul rapporto tra le arti e la loro fruizione.
Ebbene, già da questa prima rassegna di titoli si può notare “l’attualità” dei temi trattati da Sperber. E’ questo un aspetto, a mio modo di vedere, di particolare rilevanza, laddove si consideri che questi saggi sono stati scritti tra il 1953 e il 1956 e, tuttavia, contengono intuizioni, anticipazioni e chiavi di lettura su temi su cui siamo tutt’ ora nel pieno del dibattito, anzi, in alcuni casi, su temi in relazione ai quali la presa di coscienza e il relativo dibattito si è sviluppato solo in anni recenti. Ciò ad evidenziare l’intelligenza di Sperber e il suo essere stato un precursore nel coglierli ed affrontarli. Peraltro le sue considerazioni, per esempio in ambito storico-politico, si attestano su posizioni né ideologiche, né vetero conservatrici, nel senso cioè del conformismo di sinistra, stante le posizioni di arroccamento esistenti allora, basti pensare che nel ’56 eravamo in piena invasione dell’Ungheria da parte dell’URSS. In questo senso si potrebbe definire Sperber uno dei primi dissidenti militanti. In sostanza, allora, egli era già “aperto” a quel rinnovamento teorico e culturale che arriverà nella sinistra europea e in generale nella cultura europea molti decenni dopo.
Sono in tal senso illuminanti queste affermazioni che egli fa a proposito della sinistra, scritte nel ’53: “La Grande Guerra avrebbe dovuto concludersi con l’unificazione dell’ Europa; l’ultima avrebbe dovuto imporla. Mobilitare i popoli per l’unità europea, ecco quale avrebbe dovuto essere la politica della sinistra. Ma questa ha accettato la politica della spartizione delle sfere di influenza, lo scandalo del diritto di veto dei Grandi, e, infedele alla sua tradizione, non si è opposta alle annessioni, alle deportazioni di popoli, come a tante altre esazioni. La sinistra ha commesso questi terribili errori perché pensava di dover essere in tutto solidale con i vincitori, solidale anche con quel paese totalitario che soltanto l’aggressione del suo alleato fascista ha spinto nel campo degli antifascisti. La sinistra ha condiviso tutte le illusioni e ha passato sotto silenzio quasi tutte le bassezze di una vittoria divenuta immediatamente prigioniera e ostaggio nelle mani di un alleato tirannico”
Un altro aspetto di ordine generale connesso, in un certo senso, a quanto appena detto, è quella sorta di tendenza iconoclastica e demistificatoria presente nel pensiero di Sperber, che è anche un suo elemento, per così dire, stilistico, parte integrante cioè del suo modo di esprimersi. Questa propensione a destituire certi luoghi comuni, nonché gli aspetti più convenzionali che si hanno o che si avevano su certe questioni evidenzia da una parte l’impegno militante di Sperber, la sua personale ricerca della verità, anche se dolorosa e controcorrente e, dall’ altro, l’afferire di Sperber a quel grande filone di pensiero novecentesco che va sotto il nome di nichilismo. Anche se, nel nichilismo di Sperber, si percepisce sempre un elemento di “forza della ragione”, che non fa mai diventare il suo nichilismo una forma di ripiegamento distruttivo, ma lo rende parte di un lavoro di scavo e di comprensione volto alla ricerca di un senso più profondo e veritiero.
Insomma distruggere per capire e cercare di far capire meglio le cose, una sorta di disincanto costruttivo, come peraltro osserva C. Magris a proposito dell’autobiografia di Sperber, quando dice: “Egli non s’abbandona alla frammentarietà e alla dispersione ma lavora, disilluso eppure tenace, alla formazione ed alla comprensione della propria personalità, come se quest’ultima costituisse una classica unità” (In “L’anello di Clarisse” cit. pg. 315)
Alla luce della lettura di questi saggi, stilisticamente Sperber lo si può definire un polemista. Mosso da un forte senso etico-morale e da uno spiccato rigore ideale egli si batte attraverso il suo argomentare contro le persecuzioni, gli abusi, i soprusi perpetrati dai detentori del potere nei confronti di coloro che a questo potere non soggiacciono. Il suo impeto intellettuale, peraltro documentato e raffinato, muove in primo luogo contro i grandi totalitarismi sia quelli storici: nazismo e comunismo, soprattutto nella versione dello stalinismo, ma anche contro quelli che lo diventano nel momento in cui si impongono come ideologia: il cristianesimo, laddove Sperber lo individua come sorgente dell’antisemitismo e come origine storica dell’odio contro gli ebrei, piuttosto che la psicanalisi che, per una sua certa intransigenza dogmatica Sperber assimila al marxismo: “..lo psicoterapeuta, seguace eterodosso e scomunicato di Adler, si fa storico della psicanalisi per denunciare anche nella storia di quest’ultima il prevalere del principio totalitario” (in “L’anello di Clarisse” cit. pg. 324)
Ma nei suoi attacchi contro i poteri non sono esonerate neanche le forme persecutorie poliziesche come quelle che portarono all’ uccisione negli Stai Uniti dei due anarchici italiani Sacco e Vanzetti, assunti da Sperber come esempio di lotta per un ideale di libertà, dove il non appartenere a nessun “partito”, l’essere un singolo, un cane sciolto, diventa fatale per il destino di chi voglia combattere per questo tipo di ideale, scontrandosi con i detentori dell’ordine costituito.
Tuttavia se, molte volte, le sue argomentazioni sono brillanti e originali e non prive di una loro ironia, tanto che anche C. Magris parlando della produzione saggistica di Sperber afferma che: “Sperber comunica, soprattutto nei saggi che continua scrivere con prodigiosa freschezza, una classicità di sentire e una paterna forza, che aiutano ad affrontare la disgregazione e a non cedere alle sue lusinghe” (In “L’anello di Clarisse” cit. pg.332), altre volte esse appaiono “di parte”. La sua indubbia onestà intellettuale e morale nel voler difendere i principi del suo umanesimo lo porta infatti ad assumere talora un tono militante che lo fa apparire altrettanto intransigente di coloro che sono oggetto dei suoi strali.Ma le pagine e i passaggi più belli di questi suoi saggi sono quelli in cui Sperber immette, nelle sue analisi, riflessioni esistenziali, cenni biografici e aneddotici, meditazioni, da cui emerge insieme al lucido osservatore lo Sperber uomo: appassionato e disincantato al tempo stesso. In tal senso, prendendo come riferimento il saggio “Miseria della psicologia”, vi si possono rintracciare, a titolo esemplificativo, alcuni di questi passaggi.
E così:
– parlando della sofferenza psichica Sperber introduce il grande tema novecentesco della frantumazione della totalità dell’io: “Ogni sofferenza attacca l’uomo nella sua sola certezza assiomatica: quella di essere una unità incrollabile, una totalità indivisibile. Egli scopre che c’è in lui qualcosa che tuttavia non è parte di lui. Stupito da ciò che fa e da ciò che soffre, si trova proiettato in un movimento che rischia di rompere la sua unità. Ora, il primo passo di chi tenta di riprendere la parte alienata del proprio essere ha per effetto di distruggere la certezza della propria totalità strutturale e continuità temporale. Si sapeva continente, si scopre arcipelago; si credeva padrone del tempo, si trova frantumato dal tempo”
– parlando della psicologia si sofferma, quasi sarcasticamente, sulla basilare questione del rapporto tra osservatore e osservato nelle scienze umane: “Lo psicologo è implicato in ogni spiegazione che dà degli uomini. La sua situazione davanti all’ oggetto delle sue ricerche somiglia troppo spesso a quella di un guardiano tenuto in cattività dal suo prigioniero…Se la fede non salva chi la predica chi salverà? Ma forse l’apostolo non cerca la propria salvezza, né lo psicologo il proprio equilibrio”
– parlando della natura umana osserva che è “…l’uomo, l’animale più segreto, più astuto nella difesa di ciò che nasconde. Bisogna metterlo a nudo, diceva Nietzsche, smascherarlo.” E poi: “Alla base della volontà di potenza, si trova così l’umiliazione di essere uomo e quella di non essere chi si desidera apparire. L’umiliazione, più di qualsiasi altra sofferenza o passione, rende estremisti”
– parlando di Freud ci tratteggia crudamente la Vienna del suo tempo: “Vienna, dove Freud visse dal quarto all’ ottantaduesimo anno d’età (dovette espatriare nel 1938) era la più antisemita di tutte le città del mondo. L’odio contro gli ebrei vi agiva in mille modi, ma con un senso d’opportunismo mai smentito” Del resto anche Freud, citato da Sperber, diceva: “Del resto Vienna è Vienna, e dunque disgustosa al massimo”
– parlando dell’infanzia di Freud, ironizza bellamente su ciò che fu predetto su di lui: “Del resto, la nascita del bambino era stata accompagnata da segni che annunciavano ai superstiziosi una carriera vertiginosa; era venuto al mondo con una folta chioma. Una vecchia predisse che sarebbe stato un grand’ uomo, un veggente di Vienna che sarebbe diventato ministro.”
– parlando delle nostre manifestazioni esteriori ne svela la loro artificialità ma anche la loro necessità: “La posa, la maschera, il gesto artefatto, per quanto siano fuggevoli, rivelano quello che un uomo vuole apparire e per antitesi quello che non vuole essere, dunque ciò che veramente è. Ognuno consolida il proprio essere di una finzione senza la quale l’immagine che egli si forma di sé sarebbe spezzata, frammentaria, di fatto insopportabile, perché contraria al suo bisogno di sapersi unità strutturale ed esistenza giustificata” – parlando della teoria edipica freudiana Sperber ne ricostruisce gli antefatti: “Certo, tutti i nevrotici si presentano come vittime. Basta spingerli un poco, e dimostreranno subito che il cammino per il quale risalgono verso il passato è una via crucis. Assentiranno con piacere all’ idea di essere stati oppressi da coloro che amavano, e fin dalla nascita. Si condensino al modo della creazione letteraria gli innumerevoli piccoli fatti dovuti a questa oppressione, amorosa o no, e ne risulta lo stupro….Freud…abbandonando la teoria dello stupro dei figli da parte del padre…riprende la stessa posizione, soltanto rovesciandola: trova il complesso d’Edipo, il desiderio sessuale che spinge il bambino a far proprio uno dei genitori e ad uccidere l’altro.”
– infine, parlando dei limiti della psicanalisi: “Senza dubbio, nel 1885, era tempo davvero che lo psicologo si introducesse nella camera da letto. Ma non si doveva confonderla con l’universo. Certo, per creare un simbolo, si deve spesso prendere partem pro toto, ma per capire, non è mai lecito ridurre la totalità a una sua parte. I fatti umani, perché fatti del divenire, sono irriducibili, non è un accidente la loro immensa varietà, ma il loro stesso modo di essere, composto di quanto l’uomo sviluppa di sé e di quanto vi aggiunge di nuovo, reale o fittizio. Non si semplifica la vita umana.”
Come emerge da quanto riportato del suo pensiero e del suo modo di procedere, si coglie con evidenza che vi è in Sperber una propensione analitica, un’istinto speculativo che si presta all’ analisi e alla riflessione, accentuato presumibilmente, dai campi scientifici attinenti le scienze umane, in cui ha operato e di cui si è occupato. Ciò si attaglia indubbiamente di più al modo di procedere che si richieda ad un saggista, laddove questi come lo “scienziato” deve argomentare e dimostrare le sue tesi e posizioni. Ma se anche grandi scrittori sono stati grandi saggisti in ambito letterario, si pensi a Nabokov o a Calvino, il caso di Sperber è diverso in quanto, avendo egli spaziato in ambiti culturali e disciplinari assai diversi ed intrinsecamente estranei alla letteratura, ciò ne ha indubbiamente determinato una formazione e una modalità di approccio mentale più razionale e scientifico di uno scrittore “puro” che abbia condotto le sue riflessioni “solo” all’ interno dell’universo letterario.
Sicuramente la lettura di questi saggi a me è risultata viva e stimolante, per i punti di vista e per i riferimenti utilizzati. Sicuramente, alla fine, penso di avere scoperto un intellettuale “non allineato”, fuori dal coro, lungimirante e moderno, capace a distanza di così tanti anni di lasciare delle “anticipazioni” di senso ancora attualissime, come, in conclusione, dimostra questo brano, scritto nel 1955, sul potere di seduzione delle immagini, potere di seduzione dei cui effetti e della cui esplosione siamo divenuti tutti partecipi nel nostro contemporaneo: “Un pubblico educato dal film sopporta sempre meno l’epica e non le perdona l’ anticlimax che un vero romanzo non riesce mai ad evitare del tutto. E’ grazie alla sua violenza particolare, esplosione continua del tempo smisuratamente condensato, che la finzione cinematografica concorda con l’essenza onirica meglio di qualsiasi altra presentazione di una realtà immaginata…La magia delle immagini che parlano dimostra che il pubblico aveva ragione di esigere da una vera finzione che essa fosse una finzione vera: che presentasse il passato ( “le storie”) non come ricordo, ma come incarnazione del presente. Il sex-appeal della diva che fa la parte di Cleopatra, seducendo lo spettatore, lo convince che la regina d’Egitto è realmente esistita e che ha sedotto grandi uomini. Mentre la vera finzione riesce soltanto ad “ingannare”, la finzione vera innanzi tutto seduce. E di tutte le vittime, quelle della seduzione sono le sole che si sentano vittoriose.”