Fernando Pessoa – “Una sola moltitudine” Volume primo – A cura di Antonio Tabucchi – Traduzioni di Rita Desti, Maria José de Lancastre e Antonio Tabucchi – Di Antonio Tabucchi è anche il titolo del volume e il lungo e articolato saggio introduttivo – Adelphi – Prima edizione 1979
“Pessoa…più che uno scrittore fu un’intera letteratura. Si immagini infatti un Paese (il Portogallo) che vive per vent’anni (dal 1914 al 1935) un’età dell’oro della letteratura: poeti, saggisti, prosatori, dalle fisionomie inconfondibili e a volte incompatibili, tutti però di altissima qualità, vi operano insieme, si incontrano, si scontrano. Uno sperimentatore violento e straripante, suscitatore di avanguardie, come Alvaro de Campos, un desolato nichilista come Bernardo Soares, un poeta metafisico ed ermetico come Fernando Pessoa, un neoclassico come Ricardo Reis e, dietro a tutti, un maestro precocemente scomparso: Alberto Caeiro. Ebbene: tutti questi autori, tutte queste opere, tutti questi destini furono <<una sola moltitudine>>, perché nascevano tutti dall’invenzione dissociata e proliferante di una sola persona, l’anagrafico Fernando Pessoa, oscuro impiegato di una ditta di Lisbona…E quelli che abbiamo citato sono solo i più importanti fra gli scrittori “inventati” da Pessoa: finora i suoi manoscritti hanno rivelato tracce e frammenti di ventiquattro autori. <<Sii plurale come l’universo>> sembra essere stato l’imperativo unico di Pessoa.” (Da “I risvolti di copertina”)
“La poesia di Pessoa è l’analisi più complessa, dolente e tragica ma insieme lucida e impietosa, dell’uomo del Novecento: un uomo tormentato che deride e si deride e che, nella sua verità e nella sua cattiveria, nell’abuso del paradosso, nella capacità di affermare ironicamente il contrario di un assioma già ironicamente adoperato, realizza una poesia tra le più rivoluzionarie del Novecento…
Pessoa è una plurima, mostruosa cattiva coscienza…Pessoa è un grido di dolore e un belato, un canto altissimo e una smorfia, un’unghia che corre sulla lavagna dove un buon professore voleva tracciare la tranquillizzante dimostrazione del suo teorema. Pessoa è una concrezione, una di quelle creature che sembrano unte dal destino a sommare in sé pene che non appartengono loro…
Nel 1942, sette anni dopo la morte di Fernando, quando la casa editrice Atica di Lisbona decide di iniziare la pubblicazione dell’opera completa di Pessoa, sotto lo sguardo degli amici letterati e del filologi che hanno accesso all’arca in cui il poeta ha custodito i suoi manoscritti, comincia a delinearsi una delle personalità letterarie più mostruose del Novecento, ben al di là di quanto poteva far supporre la pur stupefacente personalità rivelata in vita…Perché gli inediti, oltre che confermare e potenziare le tre maggiori figure eteronimiche fino alla dimensione di quattro opere poetiche distinte di vasta e complessa articolazione (Caeiro, Campos, Reis più l’ortonimo), oltre che arricchire la figura dell’eteronimo prosatore Bernardo Soares, rivelano la compiuta esistenza di due filosofi, Raphael Baldaya e Antonio Mora…insieme alle più insospettate attività ortonime: un Pessoa diarista, estetologo, critico letterario, autore di racconti gialli…Infine: gli abissi esoterici, le visioni astrali e il diario limpidissimo, di un’oggettività incredibile e impietosa, da cartella clinica…
Nella sua realizzazione l’eteronimia funziona alla perfezione; se cioè può lasciarci perplessi il meccanismo che provoca la dissociazione, ogni personaggio è poi un poeta autentico, autosufficiente, perfetto…Non c’è nessun caso clinico da scoprire nell’eteronimia di Pessoa, solo una “semplice follia”, così come forse è “semplice follia” tutta la letteratura. Per spiegare Pessoa, e magari per neutralizzare l’inquietudine che egli ci comunica, si è parlato di turbe e di traumi…ma non è questo il punto e non è questo che conta. Quello che conta è, come egli ci ha detto, che <<la letteratura, come tutta l’arte, è la dimostrazione che la vita non basta>>…
Con Pessoa una delle più grandi preoccupazioni della letteratura della nostra epoca, l’Io, entra in scena e comincia a parlare di sé, comincia a riflettere su di sé…l’eteronimia non è altro che la vistosa traduzione in letteratura di tutti quegli uomini che un uomo intelligente e lucido sospetta di essere…L’eteronimia o dell’uomo multiplo; o anche, paradossalmente della patologia e insieme terapia della solitudine. Solitudine che è poi l’altro aspetto e significato del sistema eteronimico, ed è anche, assieme all’ Io, l’altro grande protagonista del Novecento…l’Io è uno sguardo in dentro, il soggetto esclude l’oggetto, anzi il soggetto diventa oggetto di se stesso, si pone a se stesso come “altro da sé”. Non c’è più l’altro, ma l’alter-ego: l’eteronimo…L’eteronimia, nella sua moltitudine, è di fatto una solitudine che può anche assumere dimensioni metafisiche e che costituisce veramente l’altro grande nodo della cultura del nostro secolo (Kafka, Heidegger, Camus, Beckett)…
(Sono solo, come nessuno lo è ancora stato / vuoto dentro di me, senza prima né dopo)
Così suonano due versi di una delle prime poesie (1917) di Alvaro de Campos. Di quello stesso Campos che in “Pasagem das Horas” ci rivela grandiosamente, quasi ferocemente, il segreto della sua moltitudine:
(Mi sono moltiplicato per sentire, / per sentirmi, ho dovuto sentire tutto, / sono straripato, non ho fatto latro che traboccarmi, / e in ogni angolo della mia anima c’è un altare a un dio differente)
Ma quante vite ci sono in una sola vita? Proviamo a guardare la vita di una persona attraverso i suoi ritratti di epoche diverse. Non ci darà un brivido di sbigottimento? E’ la stessa persona segmentata in più tempi, o è il tempo segmentato in più persone?…Questa constatazione della meschinità cui ci obbliga l’unicità dell’essere…Pessoa l’ha elusa essendo tanti altri, quanti più altri poteva essere: e contemporaneamente. E’ un peccato di una superba empietà, che gli dei greci avrebbero punito con un atroce supplizio. E anche Dante, con il suo feroce pragmatismo, gli avrebbe escogitato un contrappasso degno di tanta offesa. Ma Pessoa…Nella sua lucidità, mentre sta commettendo il suo peccato, mentre sta essendo quello che non è dato essere, sa perfettamente che <<falta sempre uma cosa, um copo, uma brisa, uma frase, / e a vida doi quanto mais se goza e quanto mais se inventa>>: che manca sempre una cosa, un bicchiere, una brezza, una frase, e la vita duole quanto più la si gode e quanto più la si inventa” (Libera riduzione dal saggio introduttivo “Un baule pieno di gente” di Antonio Tabucchi)
***
FERNANDO PESSOA ORTONIMO
POESIE
Campana del mio villaggio
dolente nell’imbrunire,
ogni rintocco tuo
dentro di me risuona.
Così lento è il tuo suonare,
triste come di vita,
che il tuo primo rintocco
già il secondo ricorda.
Per quanto tu sia vicina,
quando passo errabondo,
per me sei come un sogno,
mi suoni dentro lontana.
Ad ogni rintocco tuo,
vibrante nel cielo aperto,
è più remoto il passato,
più urgente la nostalgia.
[s.d.]
***
Ho pena delle stelle
che brillano da tanto tempo,
da tanto tempo…
Ho pena delle stelle.
Non ci sarà una stanchezza
delle cose,
di tutte le cose,
come delle gambe o di un braccio?
Una stanchezza di esistere,
di essere,
solo di essere,
l’essere triste lume o un sorriso…
Non ci sarà dunque,
per le cose che sono,
non la morte, bensì
un’altra specie di fine,
o una grande ragione:
qualcosa così,
come un perdono?
[s.d.]
***
Gatto che giochi per via
come se fosse il tuo letto,
invidio la sorte che è tua,
che neppur sorte si chiama.
Buon servo di leggi fatali
che reggono i sassi e le genti,
hai istinti generali,
senti solo quel che senti;
sei felice perché sei come sei,
il tuo nulla è tutto tuo.
Io mi vedo e non mi ho,
mi conosco, e non sono io.
(1.1931)
***
Autopsicografia
Il poeta è un fingitore.
Finge così completamente
che arriva a fingere che è dolore
il dolore che davvero sente.
E quanti leggono ciò che scrive,
nel dolore letto sentono proprio
non i due che egli ha provato,
ma solo quello che essi non hanno.
E così sui binari in tondo
gira, illudendo la ragione,
questo trenino a molla
che si chiama cuore.
[s.d.]
***
Questo
Dicon che fingo o mento
quanto io scrivo. No:
semplicemente sento
con l’immaginazione,
non uso il sentimento.
Quanto traverso o sogno,
quanto finisce o manco
è come una terrazza
che dà su un’altra cosa.
E’ questa cosa che è bella.
Così, scrivo in mezzo
a quanto vicino non è:
libero dal mio laccio,
sincero di quel che non è.
Sentire? Senta chi legge.
[s.d.]
***
Grandi misteri abitano
la soglia del mio essere,
la soglia dove esitano
grandi uccelli che fissano
il mio tardivo andar aldilà di vederli.
Sono uccelli pieni di abisso,
come ci sono nei sogni.
Esito se scandaglio e medito,
e per la mia anima è cataclisma
la soglia dove essa sta.
Allora mi sveglio dal sogno
e mi rallegro della luce,
seppure di malinconico giorno;
perchè la soglia è paurosa
e ogni passo è una croce.
(2.10.1933)
***
Come alle volte in un giorno azzurro e mansueto
nel vivo verde della pianura calma
di una improvvisa nube l’avanzare
pallidamente le erbe affosca
così ora nella mia anima pavida
che di repente svanisce e si fa fredda
la memoria dei morti appare…
(10.11.1925)
***
Ma io, sempre estraneo, sempre penetrando
il più intimo essere della mia vita,
vado dentro di me cercando l’ombra.
(1929)
***
Amo tutto ciò che è stato,
tutto quello che non è più,
il dolore che ormai non mi duole,
l’antica e erronea fede,
l’ ieri che ha lasciato dolore,
quello che ha lasciato allegria
solo perché è stato, e è volato
e oggi è già un altro giorno.
(1931)
***
Quel che sia la vita e la morte
nessuno lo sa o lo saprà
qui dove la vita e la sorte
muovono le cose che sono.
Ma, quale che sia l’enigma
dell’esserci qui qualche cosa,
avrà di me stesso la stigma
dell’ombra in cui l’ho vissuto.
(10.4.1934)
***
E’ l’amore che è essenziale.
Il sesso è solo un accidente.
Può essere uguale
o differente.
L’uomo non è un animale:
è una carne intelligente,
anche se a volte malata.
(5.4.1935)