“Conversazione in Sicilia” si conclude con una “Nota”, con la quale Vittorini dissuade il lettore dal considerare “questa Conversazione” un racconto realistico e, in tal senso, lo avvisa che “Ad evitare equivoci o fraintendimenti, come il protagonista di questa Conversazione non è autobiografico, così la Sicilia che lo inquadra e accompagna è solo per avventura Sicilia; solo perché il nome Sicilia mi suona meglio del nome Persia o Venezuela.”.
Sebbene questa “Nota” avesse lo scopo di “dissimulare” l’ ispirazione antifascista contenuta in “Conversazione”, tentando con quell’evocazione “irrealistica” di allontanare dal romanzo il sospetto di avere un fine di denuncia politica che era la necessità originaria che aveva spinto Vittorini a scriverlo – cosa che peraltro non servì allo scopo dato che poco dopo la sua uscita, avvenuta nel ’41, ne fu vietata la pubblicazione in Italia proprio perché ritenuto un testo antifascista – tuttavia questa “Nota” contiene un valore che va al di là di questo aspetto contingente.
Quelle parole non sono infatti estranee alla natura di “Conversazione”, bensì ci parlano proprio della sua natura più profonda che rende ancor oggi vivo questo romanzo. Nel suggerirne una lettura fuori dal tempo e dallo spazio esse evocano quella dimensione metanarrativa e metastorica che è assolutamente presente in “Conversazione”, la quale emancipa il romanzo dai suoi risvolti e dai suoi aspetti realistici e storici, pur in esso presenti, e lo innalza a un livello squisitamente letterario, in quanto costruzione di un “mondo” narrativo ed esistenziale i cui echi e le cui risonanze sono rimaste assolutamente intatte.
Vi è infatti in “Conversazione in Sicilia” una dimensione evocativa e fantastica che trascende la realtà e la simbolizza fissandola in immagini e figure in cui si incarnano condizioni e significati perenni che si incastonano in un universo immaginario e mitico. “Conversazione” è un romanzo che dà continue suggestioni perché tutto, anche il già noto e già visto, si fa scoperta di se stesso. Le cose si spostano in un’altra dimensione e affondano nel fascino di una lontananza in cui tutto è sospeso e misterioso: “”Ma guarda, sono da mia madre”, pensai di nuovo, e lo trovavo improvviso, esserci, come improvviso ci si ritrova in un punto della memoria, e altrettanto favoloso, e credevo di essere entrato a viaggiare in una quarta dimensione. Pareva che non ci fosse stato nulla, o solo un sogno, un intermezzo d’animo…e che l’essere là fosse effetto…d’un movimento della mia memoria, non del mio corpo”. Così dice Silvestro, il protagonista – alias dello stesso Vittorini – nel descrivere l’arrivo presso la madre, al temine di quel viaggio che l’ha condotto da Milano in Sicilia.
E in quelle parole che raccontano quel senso di stupore e di scoperta che è un cifra permanente del romanzo, trova posto un concentrato dei temi presenti in “Conversazione”: la memoria e il sogno, il viaggio che da fisico si fa mentale, il sentirsi trasportati in una dimensione altra, favolosa e interiore che si nutre dei ricordi e nello steso tempo li osserva e li rivive, trovando in essi allusioni a nuovi e segreti significati. E’ quella dimensione onirica che fa apparire il viaggio di Silvestro e gli incontri che egli fa come se avvenissero in un mondo fatto di spiriti e fantasmi, che si materializzano per annunciare ed enunciare le loro verità e le loro storie, le quali sono dette e rappresentate come se provenissero da un altrove che dà loro un senso epico e le fa diventare come pronunciate in nome e a nome del genere umano.
La realtà resta certo la matrice di quest’opera, ma essa è trasfigurata da Vittorini per condurre una ricognizione su quell’ umanità offesa e su quel dolore del mondo che lo spettro visuale della Sicilia amplifica ed esalta ma che sono condizioni proprie di quel genere umano perduto che sin dall’incipit viene evocato e, a suo modo, invocato: “Io ero, quell’inverno in preda ad astratti furori;…furori, in qualche modo, per il genere umano perduto”. I nuclei ideologici all’origine di “Conversazione” si convertono quindi in categorie morali e assumono un valore etico che va oltre il momento storicamente determinato in cui l’opera nacque, alludendo ad una universalità e generalità della condizione umana.
E facendo emergere i potenziali significati universali, la letteratura stessa, in questo quadro, nel suo farsi “protesta” assume il valore della “possibilità” da contrapporre alla realtà. Come un cantastorie che illustra i quadri del suo cartellone e con essi dialoga, anzi “conversa” – essendo, come ebbe a dire Calvino, tutto il romanzo, un “romanzo di conversazione” – Vittorini, nel “suo viaggio” che è come una discesa oltreterrena, incontra e crea una miriade di personaggi simbolo, latori di significati e di messaggi. Già sul traghetto su cui Silvestro attraversa lo Stretto vi è l’ingresso in una sorta di “città dolente”, nel trovarsi di fronte quell’umanità immobile e silenziosa a cui – egli dice – “sorridevo loro e loro mi guardavano senza sorridere”.
E, di quell’umanità, ne è simbolo l’ uomo delle arance, con le sue arance invendibili, che ne incarna l’afflizione ma, soprattutto, quel senso impotente di offesa che da muto si fa nel corso del romanzo lamento forte e ripetuto fino ad ergersi come un valore, carico di dolore e sofferenza ma, al tempo stesso, alto e solenne, il cui destino accomuna l’ ”umano genere”. E tenendo sempre sullo sfondo l’idea e l’alone di questa umanità dolente Vittorini “inventa” dei personaggi emblema portatori di pronunce per un ipotetico riscatto. A partire dalla figura del Gran Lombardo, coscienza pulita e rappresentante di un’umanità fiera che aspira alla libertà e che invoca “nuovi, altri doveri” per gli uomini.
Ma i personaggi a cui è affidato tale compito: un arrotino, un sellaio, un mercante di panni, pur nei loro diversi modi di reclamare ed aspirare a un mondo migliore: come rivolta, come coscienza idealistica e accorata del mondo offeso, come anelito alla purificazione, riveleranno la loro incapacità in quanto incapacità di qualsiasi possibilità di redenzione e di salvezza, affondando la loro innocenza nella “squallida nudità senza terra del vino”.
Ma il viaggio di Silvestro non sarà solo un viaggio nella sua coscienza e della sua coscienza, ma sarà anche un viaggio nell’universo interiore dell’infanzia, divenendone rivisitazione e, attraverso una serie di esperienze rituali e di echi “avventurosi”, penetreranno nel tempo ricordato una molteplicità di acquisizioni che inizieranno Silvestro a una sorta di ri-nascita. Lo spazio narrativo in cui ciò si concentra è nell’incontro e nel tempo con la madre, in cui convive il tempo dell’esperienza in atto e quello della memoria, in uno scambio che sovrappone i due piani così che Concezione è insieme la madre dell’infanzia di Silvestro e quella di ora, “due volte reale”.
In questo modo Vittorini oltrepassa la possibile staticità del mito del Ritorno alla Madre e dà al personaggio una complessità di significati assumendo esso ora gli attributi della maternità, ora quelli della nuzialità, ora quelli della femminilità. Dai suoi racconti e dalle sue parole Concezione si rivela agli occhi di Silvestro “madre e donna” ed egli ne intuisce la sua plurima identità: “Troppa ricchezza aveva lei in sé di madre per essere stata solo una moglie” fino a riceverne conferma in quel suo raccontare, “ma non rossa, non vergognata”, dei suoi trascorsi con quel viandante a cui aveva offerto pane, acqua ed “altro”. E, in forza di quella femminilità, ella eserciterà sul figlio un ruolo arcaico di iniziatrice, di madre padrona, portandolo ad assistere al suo “giro delle iniezioni” alle donne del paese in cui si consumerà la residua innocenza dell’infanzia, in un’ennesima riproposizione dello schema, ricorrente in “Conversazione”, che vede i personaggi al servizio dei loro potenziali significati universali.
In tal senso le narrazioni in “Conversazione” sono sempre parte di un’esplorazione, di una ricerca, che è lirica e poetica nel linguaggio e polisensica nei significati. E’ poetico il linguaggio di “Conversazione” non solo perché utilizza ampiamente gli strumenti della poesia come la ripetizione che dà il ritmo alla narrazione ma, soprattutto, perché con la loro ripetizione enfatizza le parole, isolandole nella loro asciutta essenzialità e circondandole di silenzio e di non detto.
Ma forse quello che è stato ed è l’aspetto di maggiore significato di “Conversazione in Sicilia” è la sua carica e il suo contenuto demistificatorio. Pur in un contesto narrativo e linguistico che trasferisce personaggi e dialoghi su un piano di irreale fissità, collocandoli su uno sfondo mitico, “Conversazione in Sicilia” è un testo profondamente antiretorico e antiidealistico. Se da una parte Silvestro acquisirà, alla fine del suo viaggio, una pluralità di acquisizioni e un’accresciuta consapevolezza del mondo egli però si arricchirà non di illusioni, né di false speranze: “Questa fu la mia conversazione in Sicilia, durata tre giorni e le notti relative, finita com’era cominciata”, dirà, in tal senso, nell’ epilogo Silvestro. Il percorso di Silvestro è in sè un percorso di maturazione e, per questo, “Conversazione” può anche essere considerato un romanzo di formazione, ma ciò nel segno dell’assenza di alcuna facile verità o possibile punto di arrivo se non, appunto, quello di smitizzare il mondo e rivelarne gli inganni e i non detti.
E, in questa chiave, il famoso “ehm”, ripetutamente pronunciato nel finale dal soldato morto (in cui Silvestro riconoscerà suo fratello Liborio), il quale si insedierà in Silvestro mentre questi è intento a descrivere con voluta retorica la bellezza insita nell’ “ignuda donna di bronzo del monumento” alla gloria, costringendo Silvestro a ripetere quell’”ehm” dice, nel non detto e nel non dicibile di quell’ ”ehm” che è parola “suggellata”, tutta l’assurdità dei falsi miti di cui la morte in guerra e la relativa gloria ne sono uno dei più tragici e dolorosi.