“Il codice di Perelà” – Aldo Palazzeschi

“Il Codice di Perelà ha per protagonista un uomo fatto di fumo capace quasi solo di ripetere “Sono leggero, sono molto leggero”  Più rispondente di così all’ idea calviniana della leggerezza contrapposta all’ “Ineluttabile Pesantezza del Vivere” quel romanzo non poteva essere.

Ma Il Codice di Perelà, pubblicato nel 1911 da Palazzeschi nelle Edizioni futuriste di “Poesia” , non è mai entrato nella ristretta costellazione dei riferimenti obbligati, delle tappe imprescindibili che scandiscono la tradizione del nostro Novecento; e questo nonostante chiunque ne abbia parlato non abbia esitato a definirlo un capolavoro.

Eppure la storia è bellissima: dopo essere rimasto per trentatré anni dentro un camino con la sola compagnia della voce di Pena, Rete e Lama, tre vecchie sapienti che lo rendono edotto sulle cose del mondo, l’uomo fatto di fumo scende a terra, dove trova due stivaloni capaci di ancorarlo al suolo, e si inoltra nel mondo che lo battezza Perelà dalle iniziali delle sue tre misteriose “maestre”. Così comincia la favola e continua con la trionfale accoglienza dell’uomo di fumo nella corte di un anonimo regno, il cui sovrano lo incarica di redigere il nuovo Codice legislativo dello Stato. Ma poi, dopo aver conosciuto senza capirli troppo bene i vari aspetti del suo nuovo paese, Perelà cade in disgrazia per la morte del vecchio servitore Alloro, che si dà fuoco nel tentativo di diventare di fumo come lui; processato e insolentito da tutto il popolo che prima lo osannava, viene condannato al carcere a vita, ma una volta rinchiuso nella cella si sfila gli stivali e si dilegua attraverso il camino, disperdendosi nel cielo.

Una favola che non si conclude con una morale immediatamente decifrabile, anzi fa di tutto pur di far confusione, a cominciare dalla scrittura, quasi sempre contratta in dialoghi rapidissimi o addirittura in battute dialogiche pronunciate da una folla di personaggi e poste l’una accanto all’altra in fulminea successione.

Da questa “chiacchera” emergono spessissimo delle punte esilaranti, come le stralunate problematiche sessuali esposte in sequenza all’ attonito Perelà dalle dame del regno ( i cui nomi, da Zoe Bolo Filzo a Cloe Pizzardini Ba a Rosa Ramino Liccio a Bianca Delfino Bicco delle Catene, sono di per sé un’invenzione felicissima), o i velenosi stralci di conversazione isolati durante il ballo in onore dell’uomo di fumo. Ma non sarebbe del tutto giusto considerare Il Codice di Perelà soltanto un romanzo comico, seppur di una comicità “cattiva” ed eversiva. Al di là degli scanzonati fuochi d’artificio del linguaggio, il romanzo rivela una vena simbolica o addirittura “misterica” non trascurabile.

Quale che sia il credito di attribuire alle evidenti corrispondenze fra il personaggio di Perelà e la figura di Cristo, lo spessore significativo dell’uomo di fumo resta comunque assai pronunciato e complesso: è il “diverso” che non a caso alcune dame accuseranno poi di pederastia, è il “nuovo” irriducibile alle categorie logiche del genere umano, è la presenza inafferrabile e muta che con la sua sola esistenza e senza alcun messaggio testimonia la possibilità di una palingenesi. Se Perelà è un Messia mandato da Dio o forse dal demonio secondo le preoccupate chiacchiere dei cittadini, l’unico insegnamento di cui riesce a farsi realmente portatore è la sua naturale vocazione a salire, la sua inarrivabile leggerezza che trasforma e sconvolge ogni prospettiva di guardare il mondo: un mondo visto necessariamente con la coda dell’occhio, poiché lo sguardo dell’uomo di fumo non può che essere fisso al cielo.

Il mondo nuovo potrebbe essere semplicemente un nuovo modo di vedere, una forma radicalmente alternativa di conoscenza della quale Perelà è al tempo stesso il portatore inconsapevole e la vittima; e la letteratura riceverebbe in tal caso da Palazzeschi la delega a dar corpo ad alcuni misteriosi frammenti di quella nuova visione, fermi e inquietanti come le figure che di lì a poco popoleranno le opere della pittura metafisica.”

(Libera riduzione di un articolo di Stefano Giovanardi apparso su Repubblica del 28.1.1992)

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