“L’isola riflessa” – Fabrizia Ramondino

Fabrizia Ramondino – a fronte di una notorietà, presso il grande pubblico dei lettori, tutt’ora relativa – è in realtà, da tempo, ampiamente riconosciuta come una delle massime scrittrici del nostro Novecento, avendo ricevuto, da critici autorevoli ma anche da chi si è avvicinato come lettore alla sua opera, una considerazione tale da collocarla a livello di autrici come Elsa Morante e Anna Maria Ortese che, a loro volta, furono lettrici partecipi della Ramondino oltre che sue sostenitrici ed ispiratrici. Come afferma infatti Franco Sepe nella sua monografia su Fabrizia Ramondino, “…le sue ascendenze letterarie [sono] rintracciabili, per parte italiana, nell’opera di Elsa Morante e Anna Maria Ortese.” (F. Sepe – “Fabrizia Ramondino. Rimemorazione e viaggio” – Liguori – 2010 – p. 24). E, con riferimento in particolare ai rapporti tra la Morante e la Ramondino, sempre Sepe afferma come sia “…risaputo che la scrittrice romana era stata per la Ramondino un’importante amica e uno dei suoi numi tutelari.” (F. Sepe, cit. p.27), mentre, con riferimento alla Ortese, rileva come: “Il tipo di sguardo della Ramondino sulla realtà in generale (e, segnatamente, su quella polimorfa napoletana) è affine a quello della Ortese – altro suo nume tutelare…” (F. Sepe, cit. p.64).

Tuttavia resta il fatto che la Ramondino è “…un’autrice ancora troppo sconosciuta…il cui nome fatica a trovare spazio negli scaffali delle librerie”, come, ancora nel 2018, osservava Nicolas Gruarin in un suo articolo dal titolo “Fabrizia Ramondino. La scrittrice riflessa” apparso sulla rivista on-line “Doppiozero” nel Giugno di quell’anno. E la situazione non è mutata tanto che, nel denunciare la difficile reperibilità dei suoi libri, nel Gennaio di quest’anno il quotidiano “la Repubblica” lanciava un appello: “…è arrivato il momento che l’intera produzione [della Ramondino] sia raccolta in un Meridiano Mondadori.” (Pierluigi Razzano – “Un Meridiano per Fabrizia Ramondino” – “la Repubblica” del 22.1.2021)

Le ragioni di questa scarsa diffusione editoriale della Ramondino così come la mancanza di una sistematizzazione della sua opera sono forse da attribuire al fatto che i suoi libri hanno un carattere molto particolare che travalica i canoni e li rende in qualche modo inclassificabili facendo della Ramondino una scrittrice anomala di cui, solo leggendola, se ne scopre la grandissima capacità di creare suggestioni, intessendo, così come sapeva fare, e cioè con tocchi lievi e spesso solo accennati, un universo di senso amplissimo. Come si ricava, per esempio, proprio dalla lettura de L’isola riflessa che suscita questo senso di densità sia di scrittura che di pensiero, e che ci trasmette, altresì, come la Ramondino stesse sempre in relazione con i propri vissuti e con il proprio sentire.

E’ quindi una sua ben precisa peculiarità, come afferma Gruarin nel suo articolo, che “I suoi libri attraversano i confini di genere, muovendosi tra romanzo e saggio, intreccio e meditazione, pensiero e natura.” Ed anche Sepe si sofferma su questo aspetto quando rileva come “…l’alterazione e la sovversione dei confini tra generi rappresentano di fatto una costante nell’opera della Ramondino.” (F. Sepe, cit. p. 2). Ciò fa si che riflessione intellettuale e riflessione personale siano intimamente connessi nella scrittura di Fabrizia Ramondino, con quel suo tipico interrogarsi sul mondo e su di sé che ella fa con lucidità ma anche senza pudori, pronta a raccontarsi tutte le volte che lo sentiva e lo riteneva necessario. E ciò denudando le sue fragilità e quella sua “diversità”, che è l’esito di una sensibilità acuta e intensa che l’ha accompagnata sin dalla sua infanzia e che ne ha contraddistinto l’identità.

Un dato fondamentale che attraversa tutta l’opera di Fabrizia Ramondino e che trova riscontri evidenti anche ne L’isola riflessa è infatti l’intreccio fra gli elementi biografici della sua vita e la scrittura che da tali elementi prende le mosse, ispirandola. Un legame indissolubile e ciò, in primo luogo, con riferimento ai luoghi e alle circostanze che hanno contrassegnato la vita e le esperienze della Ramondino e che hanno avuto una ricaduta e un riflesso esplicito nei suoi libri. Si pensi, in tal senso, proprio al tema dell’isola che rimanda, in prima istanza, alla sua infanzia vissuta nell’isola di Maiorca e che trova riscontro in “Guerra d’infanzia e di Spagna il suo romanzo di più ampio respiro e strutturalmente più complesso, dove la storia individuale, quella della metaforica lotta di una bambina, nei primissimi anni di vita trascorsi a Maiorca, per affermare all’interno della sua famiglia la sua identità precaria, e l’altra, quella collettiva, riguardante il destino degli abitanti dell’isola minacciati dalla guerra, si saldano in un unico, avvincente epos.” (F. Sepe, cit. p. 1). Esperienza quella maiorchina che poi troverà spazio anche in molti dei racconti raccolti sotto il titolo di Storie di patio.

Ma il tema dell’isola rimanda anche all’isola che fa da ambientazione e da scenario de L’isola riflessa e cioè l’ isola di Ventotene che è il luogo scelto dalla Ramondino per andarvi ad affrontare un momento particolare della sua vita segnato dalla depressione e dal conseguente alcolismo come lei stessa a un certo punto racconta: “Un’osservazione clinica. La psicosi maniaco-depressiva è ben diversa dalla sindrome depressiva – la mia. La prima è come un’altalena, si va giù e si va in alto. Nella seconda si sta solo giù. Per sollevarmi, almeno per qualche ora, bevo. Spero di riuscire un giorno a sollevarmi in un altro modo. O semplicemente di smettere di voler giocare all’altalena.

Vi è quindi all’interno del testo la presenza e la narrazione di una condizione interiore e dei suoi vissuti, che è una declinazione dell’ idea di “isola riflessa”, in quanto cioè riflessione con se stessa e su se stessa che la Ramondino fa scrivendo, la quale si interseca con la narrazione del quotidiano della vita che ella condurrà sull’isola fatta di incontri e di impressioni, di vagabondaggi e di “osservazioni”, ma anche di fantasie ed evocazioni, in un gioco di “rispecchiamenti” che qui diventa con gli altri, col mondo, con il proprio immaginario. A questa che possiamo definire la dimensione privata e del privato, farà da contraltare, e da ulteriore variante del gioco di specchi che connota L’isola riflessa, la dimensione pubblica e collettiva della Storia e dell’ Utopia, essendo l’isola di Ventotene carica di vicende storiche e “utopiche” che la narratrice rievoca.

Dall’incredibile storia della colonia di galeotti e prostitute trasferiti a Ventotene nel Settecento per un esperimento di rieducazione secondo i principi di Jean-Jacques Rousseau, all’ideale di libertà e di giustizia sociale perseguito da Luigi Settembrini, recluso come cospiratore nel penitenziario fatto costruire dai borboni sull’isolotto di Santo Stefano – posto di fronte a Ventotene nel quale quest’ultima si “riflette” e si prolunga – luogo altresì di reclusione, tra i tanti, di un’altra figura assolutamente carica di principi e valenze utopico-libertarie come l’anarchico Bresci, che lì vi morì “suicidato”, come la Ramondino rievoca e ricostruisce. Fino al racconto della presenza a Ventotene di Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni fondatori dell’ “utopia europeista”, oltre a tanti altri antifascisti, tra cui Pertini, confinati nell’isola da Mussolini. E per la Ramondino parlare di costoro ha senso e significato nella misura in cui essi rappresentano per lei un valore: “…restituire all’individuo, al di là delle singole ideologie e professioni di fede, il suo diritto a sperare in un mondo migliore; e, possibilmente, a contribuire anche alla sua realizzazione. Dopo di che, parafrasando Bloch, la scrittrice ci ricorda che “…quando si muore, muore in noi soltanto quanto non è stato utopia”” (F. Sepe, cit. p. 36). Laddove l’utopia diviene ed è, per la Ramondino, il lascito di una felicità possibile, come ella stessa la definirà in modo esemplare: “…immaginare l’utopia, un silenzioso richiamo, un leggero umile movimento nel quale possiamo cogliere una fragile possibile felicità”.

Ma la vera protagonista di tutto ciò resta la scrittura e di conseguenza la letteratura a cui la Ramondino fa assumere una valenza di dialogo. Un dialogo che è introspettivo ma anche con ciò che la circonda: siano esse presenze umane, segni lasciati dalla storia e dal tempo, piuttosto che manifestazioni della natura. La scrittura diventa così per la Ramondino luogo elettivo di elaborazione dell’esistenza e del proprio sé, rivelandosi altresì il tramite attraverso cui far fuoriuscire i suoi “labirinti” interiori. Dai quali si intuisce quanto fosse difficile per lei fuoriuscirne sul piano esistenziale, laddove invece la scrittura le offriva un’opportunità, rivelandosi una risorsa per riflettere e “riflettersi”. La narrazione del sé e su di sé diventa così una ricostruzione asistematica e “cifrata” della propria autobiografia, ma anche un approdo, un luogo familiare in cui accogliersi e raccogliersi.

Al punto che la scrittura stessa si configura come un’isola, come un luogo intimo e della propria intimità, appartato e separato dal resto del mondo, come quando, proprio in una delle ultime pagine de L’isola riflessa, ella racconta la descrizione che le capitò di fare del suo quaderno, deposito e contenitore della sua scrittura: “Questo, solo questo, sempre, è l’unico luogo che mi appartiene anche se sto male. Il quaderno la mia piccola isola.” E questo suo bisogno di proteggersi e di pacificazione trapela tra le pagine de L’isola riflessa come una costante, a sottendere un bisogno più profondo che è il desiderio di lenire e se possibile chiudere una ferita originaria, immaginando di risvegliarsi magicamente da essa liberi e liberati: “…sarei più contenta se fossi capace di autoipnosi – pur sapendo che non esiste, e vorrei che la ferita fosse risanata, a mia insaputa, come accade nelle operazioni chirurgiche per effetto dell’anestesia.”

Così in quell’isola carcere che è stata Ventotene Fabrizia Ramondino scrive questo suo taccuino intimo, questo suo diario personale, questo quaderno di divagazioni e riflessioni nel quale ci fa partecipi di quel suo “carcere” interiore, creando, tale duplicità, un’ulteriore variazione di quel gioco di specchi e di riflessi che alimenta tutto il testo e ne è cifra. E di quel “carcere” la Ramondino non ne fa mistero nel momento in cui arriverà a descrivere – con una leggerezza che sembra quella di un sogno ma che lascia, al tempo stesso, sconcertati – un momento terribile e distruttivo come quello di un tentato suicidio da lei messo in atto lì sull’isola, conclusosi fortunatamente e accidentalmente in un tentativo fallito.

Ma, insieme a questo, L’isola riflessa è un libro di una mente profonda e lucida, colta e finissima che si muove con un’incredibile libertà in svariate direzioni, ibridando e contaminando continuamente la narrazione del mondo interiore con quella del mondo esterno, l’ evocazione di una componente immaginativa e fantasiosa con l’elaborazione e lo sviluppo di un pensiero. Questa assenza di demarcazioni e questa varietà di apporti e di afflussi che compongono la scrittura della Ramondino, danno luogo ad una sorta di effetto caleidoscopio, dato che ci viene proposto un continuo composto da sequenze di immagini, considerazioni, riflessioni, citazioni, rimandi, aneddoti che finiscono per offrire al lettore una varietà sempre nuova e diversa di sensazioni e di significati, formando un’unità nella diversità. Una scrittura viaggio o se si vuole errabonda quindi quella della Ramondino, consona a quel vagabondare della sua mente all’interno della propria memoria e del proprio io, fra le sue esperienze e i suoi incontri, attraverso le sue letture e le sue fantasie, dove l’annotazione più o meno rapida, come accade ne L’isola riflessa che è, nella forma e nella struttura, un libro di annotazioni, le permette di seguire le erranze del suo pensiero e del suo pensare.

Se dal punto di vista formale L’isola riflessa è quindi un romanzo non romanzo, in esso è presente una “visione” – che è politica, esistenziale, etica e utopistica, ma anche derivante dalle proprie irrequietudini – che gli dà unità e identità, facendo da “trama” e, al tempo stesso, emancipandolo dalla necessità della trama propria del romanzo tradizionale. Ed è in questa capacità di raccontare “spezzettando” e frammentando il narrato, pur mantenendolo coerente e compatto attraverso la propria voce autoriale, che sta l’ originalità e la specificità, ma anche quel senso e quell’ effetto di delicatezza e di leggerezza che pervade L’isola riflessa. Pur in presenza di una profondità e di uno spessore a cui, persino con rigore, la Ramondino non viene mai meno.

Un romanzo d’osservazione e di osservazioni quindi, che fa della “discontinuità” narrativa una scelta espressiva prima ancora che stilistica, laddove appare evidente qui, come in altri suoi libri, che le “maglie” e le sequenze logiche del romanzo tradizionale stessero strette alla Ramondino, trasmettendo, il suo modo di scrivere, un bisogno vitale di libertà creativa che traduceva un suo bisogno vitale di libertà interiore. Un modo di scrivere questo della Ramondino che attraversa tutta la sua opera narrativa che ha in Althénopis (1981), che è il suo primo romanzo, e ne L’ isola riflessa (1998), i suoi romanzi più celebri e celebrati. Un’ opera che sarà troncata tragicamente dalla morte improvvisa di Fabrizia Ramondino avvenuta il 23 giugno 2008 proprio il giorno prima dell’ uscita del suo ultimo romanzo La via che, di conseguenza, uscì postumo.

Ora quel bisogno di libertà, presente nella scrittura della Ramondino, si collega a una irrequietezza e a un “nomadismo”, esistenziale e fisico, molto forti, che affondano e originano nella sua biografia ma che diverranno costitutivi della sua identità personale e artistica. A quell’ infanzia maiorchina di cui si è detto seguiranno infatti vari spostamenti, prima a seguito della sua famiglia, poi suoi personali, che la porteranno a vivere l’ adolescenza e la prima giovinezza tra Italia, Francia e Germania, fino a stabilirsi nel 1960 a Napoli, là dove era nata nel 1936, poco prima che la sua famiglia si trasferisse a Maiorca. Vi è quindi un appartenere e un non appartenere, uno “Star di casa” e uno stare “In viaggio”, come recitano, non a caso, i titoli di due suoi libri che evidenziano come quest’esistenza fuori dagli schemi abbia contribuito a creare un’ identità personale ed artistica anch’essa fuori dagli schemi. Che se è stata fervida sul piano degli stimoli si è rivelata lacerante sul piano esistenziale, implicando per la Ramondino il vivere e il viversi in una condizione di perenne sradicamento.

Infatti come sintetizza molto bene Franco Sepe: ” I primi anni di vita trascorsi in terra straniera; la condizione del profugo, con le sue flebili intermittenze, condivisa con genitori e fratelli; il nomadismo dovuto all’ avvicendarsi delle numerosissime dimore abitate o spesso soltanto sfiorate; i tentativi, soprattutto in gioventù, di trovare un altrove vivibile in un Nord più indulgente verso quel suo irrefrenabile bisogno di libertà: tutto ciò è già sufficiente a spiegare il difficile, o impossibile, “star di casa” di cui parla la scrittrice.(“Non sto quindi a Napoli sicura di casa – né d’altra parte in altri paesi e città – come se appartenessi a una minoranza etnica dispersa e remota” – F.Ramondino – “Star di casa” – Garzanti – 1991- p. 8). E vi si aggiunga pure quel suo congenito spaesamento nel mondo, che la Ramondino avverte puntualmente come una premessa quasi fisiologica al formarsi della propria scrittura. [Anche se] questa estraneità a un luogo o a una patria in senso tradizionale…la considera come una spinta centrale per la propria scrittura. Una scrittura, proprio per questo sentita come un più sicuro dimorare, la cui stabilità consiste in quel suo essere radicata nei fondamenti della lingua stessa – i quali però, mai radicalmente messi in discussione o stravolti, come avviene in ambito avanguardistico o sperimentale, spesso e volentieri vengono da lei criticamente sottoposti a meticolosi quanto originali scandagli etimologici: segno, questo, nondi una scrittura fine a se stessa, autoreferenziale, ma di una serratissima dialettica tra vita vissuta, esperienza del reale e creazione letteraria.” (F. Sepe, cit. pp. 55,56)

Questo vivere “tra” differenti lingue, luoghi, ambienti, esistenze, ma senza un’appartenenza definitiva ad un contesto specifico ha contribuito perciò a determinare quella “… sua vocazione a un instabile equilibrio che ne L’ isola riflessa si innalza a un diapason di intensità emotiva senza precedenti…” (Domenico Scarpa – “La memoria, l’oblio, l’isola” recensione de L’ isola riflessa apparsa su “L’ indice dei libri del mese” N.5 del Maggio 1998). Dove l’io della Ramondino che racconta e si racconta sebbene tenti di disporsi in modo aperto e disponibile verso le cose, le persone, l’ambiente in realtà non si legherà a nulla destinato a vivere e a viversi in una separatezza irresolubile. È un condursi da sola quello che la Ramondino ci racconta, che è al tempo stesso rifugio e condanna, esperienza familiare e rassicurante ma anche limite e muro invalicabile. In quanto se il corpo tenta di fuoriuscire l’ anima lo trattiene e lo imprigiona: “Sento che il corpo è sempre più prigioniero dell’ anima, questa entità o astrazione che con invisibili giochi di potere – subiti o esercitati – falsi saperi, rispecchiamenti deformanti o coatti, ne usa a piacimento fin quasi a farselo schiavo.”

Distanza, differenza, diversità, estraneità, sono quindi i vissuti che portano la Ramondino, anche lì a Ventotene, a quella pratica del distacco dal consesso umano che le appare inevitabile ma che, al tempo stesso, come lei stessa riconosce, la segna come uno stigma: “Non si incontra nessuno che passeggia di notte, solo gente che va e viene da una casa o da un locale all’altro. Mai consegnata alla notte. Né al plenilunio. Gente che riproduce durante la notte il giorno in ristoranti, bar, discoteche, rumorose riunioni di famigliari e di amici. In questo loro mondo mi sento un apolide e la notte diventa allora il luogo della mia incapacità di conoscere e amare il giorno degli altri. Per fortuna i luminosi cespugli delle belle di notte mi insegnano la mitezza, mi distolgono dal giudizio, mi annunciano la presenza dell’amore”. E così a questa lucida e, al tempo stesso, dolente capacità di autoanalisi, fa riscontro quell’ impotente riconoscimento dell’impossibilità di essere diversi da come si è. In altre parole, come ha scritto in un altro suo libro, rievocando altri suoi momenti autobiografici “Si alternavano in me due sentimenti contrastanti: il disprezzo per la folla e il senso di colpa di non essere come gli altri. Sopportavo gli altri solo quando mi si rivelavano come un’epifania e potevo avvertire che, anche solo per un attimo, erano iscritti in un cerchio magico.” (F. Ramondino – “Taccuino tedesco” – Edizioni La Tartaruga – 1987- p.43)

E’ quindi il sentirsi in armonia con l’ altro, condividerne l’ universo di senso, percepirne la stessa sensibilità e le stesse sensibilità che induce nella Ramondino il riconoscimento di sé nell’altro e l’entrarvi in relazione come le accadrà con quelle straniere conosciute nel porto con le quali la semplice condivisione degli sguardi fa scattare il reciproco riconoscersi “Queste donne devono aver avvertito nel mio sguardo una condivisione del loro destino. Altrimenti, dal momento che io non osavo, non avrebbero attaccato discorso”. E sarà un incontro bello ed intenso quello che ne scaturirà, fatto di convivialità, comuni passioni e interessi, sintonia e accettazione, ma resterà un episodio, un momento, un attimo destinato ad esaurirsi con la partenza di quelle donne. Laddove invece altre donne che sull’ isola vivono, verso cui si mostra di primo acchito solidale, la inducono poi “…a sollevare impietosamente quel glauco velo dietro cui se ne stanno acquattate energie sopite e acquiescenti contraddizioni.” (F.Sepe, cit. p. 39). In quanto la messa a fuoco di quelle energie sopite e di quelle contraddizioni le rivelano, in modo inesorabile, tutta la distanza con un modo di stare al mondo incolmabilmente e terribilmente lontano dal proprio che la induce, caso mai, a provare, per quelle donne, un senso di pietas e sinanco di affetto.

A Ventotene quindi Fabrizia Ramondino ha vissuto un volontario esilio, occupandolo per scrivere, curare le ferite, pensare, consegnarsi alla solitudine. Insomma una fuga, nella quale si ripropone il conflitto, per lei ricorrente, tra stare nella realtà e fuggirne, come lei stessa implicitamente evoca e richiama nella raffinata ricostruzione etimologica della parola fuga e del suo significato che ella fa: “Nella contrastata etimologia della parola <<fuga>>, in senso musicale, dal tedesco fügen = piegare, adattare, che accennerebbe alla complessa costruzione contrappuntistica, o dal latino fuga, che accenna ai termini musicali che sembrano rincorrersi l’uno dietro l’altro, simanifesta la duplicità inestricabile in ogni opera tra adattamento alla realtà e alla ragione e fuga dalla realtà e nella sragione.” E in questo esilio ella chiama e richiama intorno a sé, come dei suoi convitati, con tutta la ricchezza di riferimenti che possedeva, non solo i “fantasmi” degli uomini esiliati a Ventotene ma anche quelli delle donne lì esiliate sin dall’antichità: da Giulia figlia di Augusto lì segregata dal padre insieme alla madre Scribonia, ad Agrippina lì allontanata da Tiberio, fino ad Ottavia ripudiata da Nerone e Domitilla lì “costretta” da Vespasiano. Ma oltre questi “fantasmi” ella evoca anche quelli di chi, per scelta, ha eletto Ventotene come proprio luogo di isolamento dalla società, come gli eremiti e i pirati che, in passato, avevano colonizzato e frequentato l’isola.

E il riferimento ai pirati e agli eremiti “…se per un verso richiama alla mente della scrittrice le fantasticherie suscitate dalle storie maiorchine e dalle letture giovanili (“La mia infanzia è stata segnata dalla presenza – le iscrizioni nel paesaggio, la memoria delle popolazioni, le leggende – dei pirati”) facendola sentire, proprio come allora, una consimile di quegli strani e avventurosi personaggi che sono appunto gli eremiti e i pirati (“…se riesamino la mia vita mi pare di essere stata come loro, sempre fuori dal consorzio civile, nell’una veste o nell’ altra, trovando solo provvisori e fragili accomodamenti con esso”), per un altro la spinge a considerazioni morali di carattere più generale…(“L’insidia violenta del pirata attenta ai tuoi beni e alla tua stessa vita, mentre quella silenziosa dell’ eremita al senso stesso dei tuoi beni e della vita, introducendovi la consapevolezza della vanitas”)” (F. Sepe, cit. p. 29), rivelando qui, come in altre delle sue riflessioni sparse nel libro, la sua capacità di andare sempre oltre le apparenze delle cose e cogliere un livello di lettura altro e più profondo che le cose possono avere.

Saranno perciò il suo immaginario fervido di evocazioni e di rimandi; la natura circostante osservata e descritta con affetto ma anche in tutta la sua asprezza; il richiamarsi ai tantissimi scrittori, artisti, pensatori, antichi e moderni – frutto delle sue letture – che incontriamo fra le pagine del libro, a farle compagnia sull’isola, trovando, in questi suoi riferimenti, continue fonti di ispirazione, di conforto e di senso. E di quelle tante e appassionate letture, le cui citazioni ed evocazioni sgorgano nel testo, si comprende quanto la Ramondino si sia nutrita e
quanto esse, insieme alla scrittura, abbiano rappresentato per lei una “salvezza” e un luogo privilegiato di elaborazione e di comprensione del mondo e di sé, contribuendo in modo determinante alla costruzione del suo mondo e della sua vita.

E, alla fine, dimensione personale e dimensione collettiva, biografica e storica, esistenziale e culturale, onirica e reale, insieme a retaggi infantili e a istintive selvatichezze, alla poesia e all’utopia, all’indignazione e alla pietà si saldano, ne L’ isola riflessa, a formare un intreccio che è una prova estremamente autentica e personale del fare letteratura, frutto di tante e diverse narrazioni. E lungi dall’essere un mero specchio dell’ autrice, L’ isola riflessa propaga un eco in cui ci si ritrova e in cui ci si riconosce, vuoi rispetto alle tante derive dell’oggi, vuoi rispetto a quel senso di estraneità/diversità con cui tante volte si finisce per fare i conti nella realtà. E come ha scritto Goffredo Fofi, “Nel suo libro più doloroso e più luminoso, nel suo libro più bello, Fabrizia Ramondino piange la fine di un mondo, o del mondo, e la fine dell’utopia, e si mette in gioco per parlare di noi, delle gioie o delle sofferenze di ieri e delle dimenticanze di oggi.”





8 risposte a "“L’isola riflessa” – Fabrizia Ramondino"

  1. marisasalabelle 29 Maggio 2021 / 12:51

    Di Fabrizia Ramondino ho letto, ormai tanti anni fa, solo Un giorno e mezzo, un libro molto interessante. Questo L’isola riflessa mi incuriosisce molto, anche perché ho un po’ una fissa sui libri che parlano di problemi psichiatrici… vedrò di procurarmelo!

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    • ilcollezionistadiletture 30 Maggio 2021 / 8:42

      Ciao Marisa
      se ti interessano gli aspetti psichiatrici, la Ramondino ne parla in modo specifico in “Passaggio a Trieste”, un suo libro edito da Einaudi nel 2000, in cui narra della sua esperienza presso il Centro Donna Salute Mentale di Trieste. Anche questo, da come lo descrive Franco Sepe nel capitolo che gli dedica all’ interno della sua monografia (“Nel periplo della psiche” pgg. 121-135), sembra un libro molto bello e “tipico” della Ramondino.
      Ti riporto un passo da “Passaggio a Trieste” che trovo particolarmente
      bello e illuminante: “Ho scritto nei miei libri di sofferenze. Come tanti altri scrittori. Penso però che tutte le mie descrizioni, e quelle che ho letto, siano tentativi ora consolatori, ora moraleggianti, ora soltanto affabulatori di aggirarsi intorno all’indicibile. Ma il mondo ha bisogno di favole. Per questo Primo Levi ha scritto; per questo non è vero quanto ha affermato Adorno, che dopo Auschwitz non ci potrà più essere poesia. Se la sofferenza non è condivisibile né narrabile, le si può stare accanto, e il più vicino possibile – senza deliri di onnipotenza medica o psichiatrica, speculativa o religiosa, artistica o affabulatoria, consapevoli tuttavia che rimane sempre uno scarto insuperabile fra il viverla e il parlarne”
      Poi, naturalmente, ti confermo tutto il valore e la bellezza, per i suoi tanti aspetti, non solo quelli a sfondo psichiatrico, de “L’isola riflessa” che merita di sicuro la lettura.
      Grazie della visita, un carissimo saluto e buona domenica.
      Raffaele

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  2. marisasalabelle 30 Maggio 2021 / 10:39

    Grazie mille, cercherò di procurarmi sia L’isola riflessa che Passaggio a Trieste. Il brano che hai riportato è bello e molto vero.

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  3. Renza 1 dicembre 2021 / 23:28

    E’ un gran piacere trovare-seppure con ritardo da parte mia- una presentazione, così accurata e preziosa, di Fabrizia Ramondino. Una scrittrice che ho molto amato e della quale ho letto diversi libri, ma che- come si dice nel post- non ha incontrato molta attenzione nel pubblico.
    La scoperta di questa scrittrice risale ad Althenopis, testo assai affascinante nella sua scrittura che intreccia racconto e antropologia.
    . E poi tanti altri,” L’ isola riflessa” che qui si recensisce ,”Passaggio a Trieste” ma anche il suo “Taccuino tedesco” e ancora e ancora… Insomma una scrittrice da scoprire o da rileggere.

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    • ilcollezionistadiletture 2 dicembre 2021 / 8:21

      La ringrazio della visita e dell’apprezzamento. Si la Ramondino è una grande scrittrice che meriterebbe ben altra attenzione di quella che ha sin qui avuto, sicuramente, con la Morante e la Ortese, è la più importante delle nostre scrittrici del Novecento. Mi riprometto di leggere altro della Ramondino, avendo letto fin’ora solo “L’isola riflessa”.
      Grazie ancora e buone letture.
      Raffaele

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      • Renza 10 dicembre 2021 / 23:14

        Mi permetto di suggerirti ( e mi permetto il ” tu”) un libro particolare curato da Fabrizia Ramondino e da Andreas Friedrich Muller , “Dadapolis”, una sorta di caleidoscopia su Napoli, in cui circa 200 tra scrittori, pittori, artisti, politici, religiosi ecc… parlano della città. L’ obiettivo è verificare se Napoli esista ancora… Un testo originale che spesso rileggo: c’ è un Arbasino divertente e distruttivo ( non è Napoli che è stata borbonizzata, ma sono stati i Borboni ad essere napoletanizzati) e un Rilke che, di notte, nella piazzetta di Positano, si ferma, impedito a continuare la passeggiata da una sorta di magia,” in un silenzio pieno di accadere”. Ciao!

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      • ilcollezionistadiletture 11 dicembre 2021 / 16:09

        Grazie Renza per la segnalazione. “Dadapolis” ce l’ho presente, ma né ce l’ho, né l’ho letto e quindi, compatibilmente alla difficile reperibilità dei libri della Ramondino, proverò a cercarlo e a procurarmelo. D’altro canto penso che tutti i suoi libri siano pieni di belle cose.
        Grazie anche per il “tu” e ti saluto anch’io.
        Ciao.
        Raffaele

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