“Giro di vite” – Henry James

Italo Calvino conclude la raccolta “Racconti fantastici dell’Ottocento”, da lui curata, con un racconto di Henry James e, nel farlo, motiva tale scelta definendo James “autore che appartiene al secolo XIX per la cronologia ma al nostro secolo come gusto letterario”, intendendosi ovviamente con “nostro secolo” il ‘900.

L’affermazione di Calvino è importante in quanto coglie come Henry James sia stato uno dei grandi iniziatori della letteratura del ‘900, appartenendovi a pieno titolo, pur “nascendo” anagraficamente e letterariamente nell’ ‘800, e ciò non solo per quanto riguarda la letteratura del “fantastico” di cui è stato un maestro universalmente riconosciuto ma, ancor più, con riferimento al “romanzo moderno” in sé di cui è stato uno degli assoluti precursori se non il vero e proprio fondatore.

E questo essere a cavallo fra “mondi” ha contrassegnato tutto in James, sia la sua vita che la sua opera. Perché sebbene americano di nascita egli fu, di fatto, europeo avendo lungamente viaggiato, vissuto e lavorato in Francia, in Italia e, soprattutto, in Inghilterra dove vi si trasferì stabilmente e che divenne la sua patria d’adozione, tanto da acquisirne, nel 1915, un anno prima di morire, la cittadinanza. Ma europeo James fu anche nel “gusto letterario” che lo portò ad appropriarsi dei canoni e dei generi della tradizione letteraria europea e, al tempo stesso, a rinnovarli e a reinterpretarli in virtù di quella sua sensibilità novecentesca che egli seppe anticipare dove diventa preponderante l’elemento psicologico e interiore, emotivo e cerebrale che nasce dall’interno stesso dello scrittore, si trasferisce ai suoi personaggi e, da questi, al lettore. E uno dei generi classici di quella tradizione letteraria europea, in particolare anglosassone, a cui James si applicò, riversandovi quella sua sensibilità, furono le cosiddette “storie di fantasmi” che avevano avuto la loro consacrazione nell’ambito della letteratura gotica inglese ma che, a differenza di questa, in James si inscrivono in quel genere cosiddetto “fantastico”, in cui gioca una parte importante un evento di tipo irrazionale come appunto l’apparizione di fantasmi che si manifestano come delle presenze inquietanti, indefinibili, diventando un’ossessione.

“I fantasmi delle “ghost stories” di Henry James” – afferma sempre Calvino – “sono quanto mai elusivi. Possono essere incarnazioni del male senza volto e senza forma come i diabolici servitori del “Giro di vite””. E infatti il “Giro di vite” appartiene senz’altro a quel genere “fantastico” essendo basato su una storia che rimane in sé razionalmente inspiegabile. Pubblicato nel 1898 il “Giro di vite” è in realtà un racconto che fa della presenza dei fantasmi il mezzo per mettere a nudo inquietudini, paure, angosce tutte interne a chi ne sarà vittima, dove quello che conta non è l’immagine visiva del fantasma ma l’insieme delle relazioni umane che sottostanno all’ apparizione dei fantasmi e che questi contribuiscono a determinare, evocando ciò quell’affermazione di Virginia Woolf che ella fa nel suo saggio “I racconti di fantasmi di Henry James” quando dice: “I fantasmi di Henry James hanno le loro origini dentro di noi. Sono presenti… ogni qual volta nell’ordinario emerge l’alone dello straordinario” e, in questo senso, proprio il “Giro di vite” è un testo precursore di quel grande tema dell’ individuo solo di fronte alle sue inquietudini e alle sue paure tipico del ‘900 e comune anche al nostro contemporaneo.

Non a caso è proprio nel nostro contemporaneo che il “Giro di vite” è stato fonte di citazioni cinematografiche implicite come in “Shining” di Stanley Kubrick (1980) o di ispirazioni esplicite come in “The Others” di Alejandro Amenabar (2001), con Nicole Kidman che tenta di proteggere i suoi due figli dai fantasmi, dove, in entrambi i casi, il protagonista è il tema della lotta sorda e solitaria contro un Male inafferrabile che si fa e diventa un’oscura lotta contro se stessi. Anche il movente iniziale da cui prende le mosse il “Giro di vite” è quello protettivo incarnato da quel personaggio della giovane istitutrice, nonché io narrante, che James mette al centro del racconto e attraverso la quale realizza il capolavoro di trasformare quella iniziale funzione protettiva nel suo opposto, facendo dell’istitutrice da colei che dovrebbe e vorrebbe difendere dal Male, Miles e Flora, i due bambini a lei affidati, e quindi proteggerli sopra ogni cosa, a colei che sarà travolta da quel Male, finendo per diventarne ella stessa causa per Miles e Flora.

La giovane istitutrice aveva accettato l’incarico di occuparsi dei due bambini, nonché orfani, da uno zio loro tutore che li aveva sistemati in quella solitaria residenza di campagna di Bly nell’ Essex presso cui egli incarica l’istitutrice di trasferirsi per seguirli, ponendole però come condizione di non importunarlo con nessuna notizia o richiesta, intendendo disinteressarsi del tutto della faccenda e, pertanto, lasciando di fatto l’istitutrice assolutamente sola nella gestione del suo incarico e delle responsabilità che ne derivavano. Ora già da questi pochi primi elementi balza all’occhio come gli attori sin qui descritti presenti sulla scena di Bly dove si svolgerà la vicenda e di cui essi saranno i reali protagonisti sono nella condizione di essere soli. Sono di fatto soli al mondo i due bambini: “…i due orfanelli non avevano praticamente nessun altro al mondo” oltre allo zio che però, come visto, non se ne occupa; è sola nell’esecuzione del suo incarico l’istitutrice: “Era giovane, inesperta, impressionabile: le si apriva davanti un carico di gravi doveri e scarsa compagnia, una solitudine quasi senza limiti”. E’ infine isolata Bly, priva di circondario. Vi è quindi un contesto e una condizione di isolamento diffusi dove ognuno è solo con se stesso e così resterà, alimentando James l’ isolamento interiore dei personaggi che renderà la loro relazione e la loro comunicazione segnata da reticenze, da allusioni, da illazioni, dal non detto, in una parola da ambiguità.

Ed è proprio l’ambiguità il segno distintivo di tutto il racconto, il quale ha dato luogo ad una messe innumerevole di interpretazioni, ma nessuna di esse definitiva perché esso, nel suo impianto e nel suo svolgimento, è deliberatamente irresolubile. Così come peraltro voleva che fosse lo stesso James, i cui principi su come creare il mistero erano che: “Fino a che gli eventi sono nascosti, l’immaginazione correrà senza freni e dipingerà ogni sorta di orrori, ma, appena si solleva il velo, ogni mistero sparisce e con esso la sensazione di terrore.” In questo modo James sposta dall’autore al lettore la caratterizzazione dei personaggi, la comprensione della loro natura, la loro attendibilità, non esistendo nei personaggi incertezze sulla loro attendibilità le quali, invece, persistono in pieno nel lettore. La questione cruciale su cui ruota infatti il “Giro di vite” e che lo lascia aperto a differenti interpretazioni è proprio quella dell’ attendibilità dell’istitutrice rispetto alle “visioni” che ella avrà e alla loro natura e cioè se esse sono allucinazioni create dalla sua mente o se essa “vede” realmente, così come ella dice, ciò che vede.

Accade infatti che all’istitutrice appare, poco dopo il suo arrivo a Bly, per due volte di seguito, in luoghi differenti all’interno della residenza e in momenti in cui si trova da sola, la figura di un uomo a lei sconosciuto che dopo averla silenziosamente e sinistramente scrutata si allontana e scompare. Già la prima apparizione, che aveva avuto luogo nel giardino, è significativamente descritta da James per le ricadute emotive che produce sull’istitutrice la quale, riferendola, dice: “il posto era diventato perfettamente desolato”; “Era come se tutta la scena fosse stata toccata dalla morte”; “Mi sembra di udire ancora il silenzio totale”; “L’uomo che mi osservava sembrava un ritratto nella sua cornice”. Vi è quindi una profonda alterazione nell’istitutrice la quale è investita da un turbamento profondo e oscuro che getta una cupa irrealtà su tutta la scena come se ella vedesse non la realtà ma un suo “quadro” della realtà, tanto che ella stessa riconosce che “nient’altro era mutato nella natura” circostante e, soprattutto, dirà: avevo ”l’impressione che la mia fantasia, in un lampo, fosse diventata realtà”. Ma sarà solo dopo la seconda apparizione che l’istitutrice risale all’identità di quella figura la quale corrisponderebbe a Peter Quint il vecchio domestico che aveva abitato nella casa ma che era ormai morto da tempo, lasciando dietro di sé un alone di dicerie sui suoi trascorsi, e di cui quindi l’istitutrice ne avrebbe visto il fantasma.

Tuttavia tale identificazione avviene in modo del tutto indiretto e mediato allorché ella decide di condividere l’esperienza di quelle apparizioni con la signora Grose la vecchia cameriera, memoria storica della casa che farà per tutto il racconto da contraltare “realistico” dell’istitutrice. La signora Grose non ha infatti visto e non vedrà mai il fantasma di Quint. Ella risale a Quint solo in base alla descrizione delle fattezze e dell’aspetto di colui che l’istitutrice dice di aver visto ma quanto ci sia di autosuggestione e di coincidenze in quel “riconoscimento” della signora Grose non sarà mai dato sapere. Questo schema e cioè che l’istitutrice vede ciò che gli altri non vedono si verificherà anche in occasione dell’apparizione all’istitutrice dell’altro fantasma, anch’esso solitario, silenzioso e inquietante, quello della signorina Jessel, la precedente istitutrice, anche lei morta e morta, a quel che se ne sa, misteriosamente lontano da Bly e si verificherà altresì in rapporto ai due bambini dei quali l’istitutrice è convinta che anch’essi vedano i due fantasmi, anzi che siano in relazione con loro, venendone attratti nella loro sfera, dati i rapporti a suo tempo avuti dai bambini nella casa con Quint e con la Jessel, ma che essi non lo vogliano ammettere.

La testimonianza dell’istitutrice è quindi contraddetta da quella degli altri i quali la sconfesseranno apertamente quando presenti la signora Grose e Flora, nessuna delle due vedrà il fantasma della Jessel che secondo l’istitutrice invece è lì di fronte a loro. In altre parole l’istitutrice sarà perennemente sola nelle sue visioni che resteranno un’esperienza esclusivamente sua al punto che ella prova il bisogno di difendersi, con se stessa, da una possibile accusa di follia: “Accettava, senza mettere in dubbio la mia salute mentale, la verità” dice della signora Grose che la asseconda nelle sue visioni, e più tardi, nel suo resoconto, ella stessa si chiede: “Come descrivere, oggi, le strane tappe della mia ossessione”. E sarà proprio Miles, con quella sua ambigua innocenza che lo contraddistinguerà per tutto il racconto, al punto che ella stessa dirà che lo sentiva “quasi come un mio pari dal punto di vista intellettuale” a sancirne la condizione quando a tu per tu con l’istitutrice le dirà: “perché naturalmente se ora noi siamo soli, la più sola siete voi”. Insomma, giunti a questo punto, ci si può spingere a dire che l’istitutrice è e rimarrà sola con i suoi “fantasmi”.

Perché la questione non è se esistono i fantasmi che l’istitutrice vede ma da che cosa è emanato nell’istitutrice ciò che ella crede fermamente di vedere. In altre parole cosa c’è nell’istitutrice da “emozionarla” a tal punto da portarla a proiettare fuori di sé quella “seconda visione” fatta di fantasmi. Ebbene in una parola la risposta è: le sue paure. James, come abbiamo visto, ci descrive da subito l’istitutrice come una persona potenzialmente molto vulnerabile definendola: “…giovane, inesperta, impressionabile”. Ella è infatti “la minore delle numerose figlie d’un povero parroco di campagna”, ha “vent’anni” ed è “all’inizio della sua carriera d’insegnante”. La stessa istitutrice inizia il suo racconto con queste parole:”Dopo lo slancio che, in città, mi aveva spinto ad accettare l’invito, passai un paio di giorni veramente pessimi da ogni punto di vista, nuovamente piena di dubbi e sicura d’aver commesso un errore” A queste iniziali paure derivanti dall’ignoto che l’attende se ne aggiungeranno, non appena arrivata a Bly, ben altre. Poco dopo il suo arrivo riceve una lettera dal collegio frequentato da Miles in cui si comunica che Miles è stato espulso dal collegio per innominati e, si presume, innominabili motivi. In Miles ci sarebbe, quindi, qualcosa di cattivo, quello che doveva essere uno dei suoi due angeli sembra già caduto e quella parola: “corrompere” che appare in quel momento, essa si come uno spettro, sulla bocca dell’istitutrice con riferimento a Miles introduce un nuovo e più alto livello di paura quello della corruzione che infatti invaderà ben presto la scena occupandola nella forma di un’entità subdola e perniciosa che si insinua nelle cose del mondo intaccandole irrimediabilmente.

Non passa molto che la signora Grose, raccontandole della precedente istitutrice, la signorina Jessel, la mette al corrente della sua morte, ma in modo reticente e opaco, come se sapesse e non potesse dire, gettando un buio misterioso su quella figura, anch’essa balenante un che di corruzione. Ed è con questo primo significativo fardello di inquietudini addosso che avviene la prima apparizione del fantasma di Quint all’istitutrice a cui James, con maligna ironia, fa dire: “Si ammetterà che un uomo sconosciuto, in un posto solitario, sia causa di paura per una ragazza cresciuta in famiglia” e, si tenga conto che, in quel momento, l’istitutrice non sa ancora che quello è un fantasma. Ma quella paura si ingigantirà sempre di più perché ad alimentarla sarà la progressiva convinzione che quella corruzione dilaghi ovunque e un Male oscuro e potente si sprigioni in essa e da essa.

Pietro Citati nella sua introduzione dell’ edizione BUR de il “ Giro di vite” dice a proposito del Male in James: “Il male, come lo conosceva un grande teologo moderno quale Henry James, è l’ Indicibile: qualcosa senza contenuto preciso; una fascinazione, un’irradiazione, che parte da un punto di tenebra e contagia orribilmente le anime; e questa irradiazione diventa ancora più insinuante, corruttrice e persuasiva, se l’emana una figura senza corpo e rilievo come uno spettro, che è appunto pura fascinazione”. E da questo gioco di rispecchiamenti fra realtà e sue proiezioni da parte dell’istitutrice, nel segno della corruzione, ella ne finirà circondata e finirà a sua volta per circondarsene. Corrotti infatti risulteranno essere stati Quint e la Jessel che pare se la intendessero e conducessero insieme una vita dissoluta in cui avevano coinvolto i bambini i quali, quindi, risulterebbero anch’essi “corrotti” e Quint e la Jessel sarebbero tornati proprio per questo: trascinarli con loro nella loro dannazione giacché è i bambini che cercano quando essi appaiono secondo l’istitutrice.

Ella si getterà perciò su Miles e Flora facendo della sua una missione salvifica, instaurando una lotta per assicurarsene il possesso e strapparli così a Quint e alla Jessel, per scongiurare, nelle sue intenzioni, ai due bambini, quel Male eterno. Ma come in una spirale sempre più estrema, come votata a un parossistico esorcismo, ella si muterà in inquisitiva cercando di fare confessare ai bambini di essere in contatto con quei due demoni, ormai divenuti i suoi demoni. E così finirà per vedere intenzioni malvagie anche nei due bambini con la conseguenza di essere respinta e rifiutata da Flora che l’accusa apertamente di delirare, di essere lei crudele, fino ad ammalarsi ed essere portata via da Bly. Ma lei, inarrestabile, vuole estirpare quel Male a tutti i costi, vuole una vittoria assoluta, vuole sconfiggere le sue paure, inseguendo un’impossibile idea di purezza, penetrando nell’anima di Miles convinta che mettendogliela a nudo il Male sia vinto, la corruzione dissolta. E invece nonostante certe confessioni che Miles fa, tra cui quella relativa ai motivi per cui era stato allontanato dal collegio, ella avanza pretese sempre più grandi: “…ero come ubriaca, accecata dalla vittoria, benché persino allora la conseguenza di quest’ultima, anziché avvicinarmelo, non facesse altro che accentuare il nostro distacco”.

E così lei vuole sapere ancora, chiede ancora e, pur in quell’apice terrificante in cui l’istitutrice ottiene da Miles la pronuncia di quel nome: Peter Quint, proprio mentre il fantasma di Peter Quint appare da dietro la finestra, anche se Miles non lo vede, ma lo nomina come mosso da “divinazione” ci dice James, ad ella non basterà ancora. Ella vuole che Miles lo veda per affermare quella che è ormai diventata la sua ossessione di dominio: il suo sostituirsi al demone e farsi essa stessa demone. E, nell’imporre a Miles di guardare: “Là, là! – dissi a Miles”, mentre lei urlante si rivolge al fantasma: “Io ti ho, – gridai all’essere immondo, – mentre lui ti ha perduto per sempre”, il Male aveva ormai invaso tutto, perché Miles non vedeva altro che “la luce quieta del giorno” mentre emetteva quel grido: “…il grido di una creatura scagliata oltre un abisso”, tenuto stretto come egli era in quell’abbraccio mortale: “…l’abbraccio in cui lo strinsi avrebbe potuto veramente arrestarlo nella sua caduta”, ma così non sarà: “…il suo piccolo cuore, liberato, aveva cessato di battere”. La paura, la paura dell’istitutrice, aveva schiantato l’anima di Miles.

4 risposte a "“Giro di vite” – Henry James"

  1. viducoli 2 febbraio 2017 / 16:45

    Ero certo di trovare Iames tra le Tue letture. Anche secondo me la parola chiave per questo autore (che tra l’altro anche io considero uno dei grandi traghettatori verso il novecento) è ambiguità, e non solo nei racconti di fantasmi, ma anche nei romanzi che di lui ho letto, ad esempio Le ali della colomba. Devo leggere ancora molto di James, ma lo considero uno degli autori più affascinanti di sempre.

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  2. ilcollezionistadiletture 3 febbraio 2017 / 6:27

    Si, James è imprescindibile. E poi quale fascino ed eleganza nella sua scrittura e quale lucidità e sensibilità nel raccontare ciò che si annida in noi e nella vita

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  3. giacinta 1 marzo 2017 / 20:30

    Ho finito di leggerlo qualche ora fa. Sono abbastanza confusa… Il racconto mi ha sbalordito per la sua bellezza, questo per le prime 70 pagine. Poi, ho avuto l’impressione che Henry volesse togliermi ciò che mi aveva dato, ovvero la visione di un piccolo universo d’armonia in cui anche l’inquietudine poteva essere parte di un sogno piuttosto che di un incubo. E’ come se l’autore abbia voluto sottrarre al lettore ciò che alla fine viene sottratto ai bambini. Ho pensato tante cose.. La maniera in cui muore Miles e l’atteggiamento dell’istitutrice mi hanno fatto pensare a come la perdita dell’innocenza sia sempre imputabile al mondo adulto che impone regole, che reprime, che vede in tutto ciò che non rientra nella normalità qualcosa di mostruoso, qualcosa da temere e soffocare. Ovviamente il sistema sociale ha bisogno di difendersi ma non sempre i mostri di cui ha paura sono da temere..

    p.s.
    posso inserire il link al tuo scritto in un post che sto per pubblicare sul mio blog? 🙂

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    • ilcollezionistadiletture 2 marzo 2017 / 6:07

      Certo Giacinta, inseriscilo pure, con piacere e grazie davvero per l’attenzione e l’interesse..
      Infatti, come accade ne “Il giro di vite”, sono le paure dell’ istitutrice e quindi degli adulti che ricadono su Miles al punto da toglierli persino la vita insieme all’innocenza anche quando, come nelle intenzioni dell’istitutrice, vorrebbe preservarle. Ed è questo che rende “il giro di vite” ancor più terribile e agghiacciante di quanto appaia a prima vista.
      Grazie ancora e un caro saluto.
      R.

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