Elsa Morante – “Alibi” – Prefazione di Cesare Garboli – Garzanti. Collana Gli elefanti Poesia – 1990
“Insensibile al linguaggio poetico del Novecento, Alibi risale a una tradizione che non ha né tempo né luogo precisi ma si confonde con l’idea, costituita e trasmessa nei secoli, che il parlare poetico sia un linguaggio nobile, raro, elevato, prezioso, il vestito, per così dire, cosparso di gioielli e “spettacoloso”, col quale i pensieri tragici e i concetti sublimi vanno in giro per il mondo e si mostrano al pubblico. Si può anche dire così: ciò che la tradizione regala a Alibi è solo l’intonazione, l’eco del parlare poetico sentito come uno strumento adatto alla sincerità ma anche alla finzione, inventato e fatto apposta per dirsi e dire la verità ma anche per camuffarla, declamarla, ingannarla – strumento ambiguo sul quale si possono sempre accordare, truccandole, delle confessioni da quaderno segreto troppo roventi per non cifrarle (alibi), e troppo cifrate per non chiedere aiuto a un codice. Questo aspetto del linguaggio poetico è in Alibi esasperato, spinto fino ai confini dell’ artificio e della teatralità solitaria, a luci spente: da una parte, la poesia è la veste, l’indumento di scena che la Morante afferra in un angolo della stanza per coprire la nudità delle sue espressioni; dall’altra è la formula magica , il sortilegio con cui si fanno i vaticinii e si chiedono le risposte al futuro” (dalla Prefazione di Cesare Garboli)
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Minna la siamese
Ho una bestiola, una gatta: il suo nome è Minna.
Ciò ch’io le metto nel piatto, essa mangia,
e ciò che le metto nella scodella, beve.
Sulle ginocchia mi viene, mi guarda, e poi dorme,
tale che mi dimentico di averla. Ma se poi,
memore, a nome la chiamo, nel sonno un orecchio
le trema: ombrato dal suo nome è il suo sonno.
Gioie per dire, e grazie, una chitarretta essa ha:
se la testina le gratto, o il collo, dolce suona.
Se penso a quanto di secoli e cose noi due divide,
spaùro. Per me spaùro: ch’essa di ciò nulla sa.
Ma se la vedo con un filo scherzare, se miro
l’iridi sue celesti, l’allegria mi riprende.
I giorni di festa, che gli uomini tutti fan festa,
di lei pietà mi viene, che non distingue i giorni.
Perché celebri anch’ essa, a pranzo le do un pesciolino;
né la causa essa intende: pur beata lo mangia.
Il cielo, per armarla, unghie le ha dato, e denti:
ma lei, tanto è gentile, sol per gioco li adopra.
Pietà mi viene al pensiero che, se pur la uccidessi,
processo io non ne avrei, né inferno, né prigione.
Tanto mi bacia, a volte, che d’esserle cara io mi illudo,
ma so che un’altra padrona, o me, per lei fa uguale.
Mi segue, sì da illudermi che tutto io sia per lei,
ma so che la mia morte non potrebbe sfiorarla…
(1941)
***
Amuleto
Quando tu passi, e mi chiami,
assente son io.
Per lunghe ore ti aspetto,
e tu, distratto, voli altrove.
Ma tanto, il mezzano serafico
del nostro amore,
il sultano dello zenit
che muove sul quadrante le sfere
con le dita infingarde e sante,
ha già segnato l’istante
del nostro convegno.
Molli si volgono i miei giorni
a quella imperiosa stagione.
Candida e glaciale essa risplende
alta salendo, come fuoco.
Ah, nostra incantevole stanza!
Che importa a me, infido spirito,
dei tuoi diversi pensieri?
Il presagio inchina già la fronte
all’annuncio. Sorte e amore
ti congiungono a me.
(1945)
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A una bambina
Sembrano i tuoi capelli la lustra piuma
d’un nero anatretto. Gli occhi
simili a foglie screziate. Semi d’oro tu hai
sulle guance: i tuoi pallori
aman l’ombra. I lobi forati
(quasi confitto vi avesse il suo pungiglione l’ape)
son rossi come il papavero
e nudi. Vana trafittura!
Tu non possiedi come le altre i ciondoli
né la croce: non avesti comare
per adornarti al fonte battesimale.
La vanitosa tua madre ebbe cura
di forarti gli orecchi, ma non ebbe
della tua sorte pensiero. Tutti dicono:
<<Donna senz’ori non si sposa>>,
e: <<Nata non battezzata, è peggio che morta>>.
Ma tu solinga stai, dei curiosi
nulla t’importa.
Cerco un pretesto e ti chiedo. <<Come ti chiami?>>
Non rispondi. <<Non sai
parlare? Sei muta?>>
Adesso
mi osservi, diffidente,
e poi ritorni ai tuoi giochi scontrosi, presso
la vasca iridescente.
(1945)
***
Sheherazade
Il mio sposo celeste
(padrone di miei respiri)
benigno ritarda per me
la sentenza mortale:
perché fra le tante spose
io sola, unica io,
so con bellissime fiabe
consolare la notte.
Non è mio pregio, ma del cielo
che mi fece fantastica
se degna io sono della grazia.
E voi, non portatemi invidia,
né, dispettosi, lasciate
queste veglie felici
per i vostri inanimati sonni.
A voi diletto, a me speranza
rechi l’Oscura.
(1946)
***
Alla favola
Di te, Finzione, mi cingo,
fatua veste.
Ti lavoro con l’auree piume
che vesti’ prima d’esser fuoco
la mia grande stagione defunta
per mutarmi in fenice lucente!
L’ago è rovente, la tela è fumo.
Consunta fra i suoi cerchi d’oro
giace la vanesia mano
pur se al gioco di m’ama non m’ama
la risposta celeste
mi fingo.
(1947)
***
Ai personaggi
Voi, Morti, magnifici ospiti, m’accogliete
nelle vostre magioni regali,
i vostri miniati volumi
sfogliate graziosamente per me.
Lo so: io, donna sciocca e barbara,
non altro che suddita e ancella a voi sono.
Ma pure il nastro d’oro delle vostre
imprese, e arroganti amori,
orna la mia fronte servile,
o Sultani infingardi.
Altro io non sono che pronuba ape
fra voi, fiori straordinari e occulti.
Ma sulle effimere mie elitre
pur vaga una traccia rimane
del vostro polline celeste .
E il vostro miele
è tutto mio!
(1947)
***
L’isola di Arturo
Quella, che tu credevi un piccolo punto della terra,
fu tutto.
E non sarà mai rubato quest’unico tesoro
ai tuoi gelosi occhi dormienti.
Il tuo primo amore non sarà mai violato.
Virginea s’è rinchiusa nella notte
come una zingarella nel suo scialle nero.
Stella sospesa nel cielo boreale
eterna:non la tocca nessuna insidia.
Giovinetti amici, più belli d’Alessandro e d’Eurialo,
per sempre belli, difendono il sonno del mio ragazzo,
L’insegna paurosa non varcherà mai la soglia
di quella isoletta celeste.
E tu non saprai la legge
ch’io, come tanti, imparo,
– e a me ha spezzato il cuore:
fuori dal limbo non c’è eliso.
(1956)
***
Il gatto all’uccellino
Hallalì! Hallalì!
Sul filo periglioso tu, pieno di grazia
ti posavi, e in un volo a me ti rubi:
a me che giro digiuno in cerchi insani,
io futile minotauro negato al volo.
O tu beato e inerme che mi canzoni
io misero cacciatore di terrestri unghie armato!
Tu sai che di te mi tormento, o fragile e santo
mio pasto non consumato.
O vita della mia carne, alato sangue,
galante sposo delle uccelle,
o tenorino
narciso
feudatario dei luoghi più alti.
Hallalì! Hallalì!
E tu del mostro ridi.
E un topolino di terra fu la mia preda.
(1957)