“Congetture su Jakob” – Uwe Johnson

Congetture su Jakob è libro difficilissimo, volutamente difficile.” Ladislao Mittner esordisce con queste parole nel capitolo che dedica a Uwe Johnson e a “Congetture su Jakob” nella sua “Storia della letteratura tedesca” e, nell’esaminare la natura di tale difficoltà dice: “Fra brani stampati a caratteri normali ed in corsivo, il montaggio su nastri fotografici e sonori paralleli, intrecciati e sovrapposti, fra nude e scarne relazioni, monologhi e dialoghi spettrali nella loro apparente oggettività ed improvvisi e rapidissimi fasci di luce che cadono sul passato, il lettore non solo perde spesso il filo, ma talora con tutta la buona volontà non riesce a stabilire neppure chi parla o pensa (o agisce) nei singoli brani.”

In questa sintesi efficacissima si concentrano le condizioni che la lettura di questo libro pone. Perché qui, inevitabilmente, si è chiamati ad un livello di partecipazione altissimo. L’edificazione della comprensione delle parti e dell’insieme obbliga il lettore a una dedizione assoluta, mettendo in conto di procedere in uno stato di dubbio permanente che, anche quando sembra svanire, riappare inatteso, come una provocazione. Al punto che, terminato il libro, la prima sensazione è che se ne debba rifare di nuovo il percorso per stabilire da dove e attraverso che cosa si è passati, avendo per altro l’impressione che fatto un nuovo tentativo le possibili mappe possano aumentare invece che diminuire, perché “Congetture su Jakob” è un libro che idealmente, prima ancora che narrativamente, inizia e si conclude nella nebbia.

Le constatazioni, i fatti, sono qui, già essi stessi, interrogativi che non solo non avranno risposta definitiva ma, nel modo stesso in cui sono presentati, manifestano e impongono la loro irriducibile enigmaticità. Ad un massimo di razionalità con cui procede la narrazione corrisponde quindi un massimo di indeterminatezza, da cui quell’effetto di straniamento ai limiti dell’alienazione che è nel testo e del testo ma che ricade in pieno anche addosso al lettore lasciato di fronte ad una realtà delle cose impossibile da afferrare. Già la prima frase del romanzo la quale ritornerà alla sua fine con un tempo verbale significativamente diverso che constata l’irresolutezza dell’epilogo, segnala, nel suo essere un’affermazione, un’implicita e impassibile interrogazione che è la questione di partenza di “Congetture su Jakob”: “Ma Jakob ha sempre attraversato i binari”. Perché Jakob Abs esperto capo manovratore di quello scalo merci i cui binari conosceva bene e che era abituato ad attraversare finirà inspiegabilmente sotto un treno proprio mentre si trovava fra quei binari e dall’inspiegabilità di quell’evento prenderanno avvio le “congetture” che, da congetture sulla morte di Jakob, si allargheranno concentricamente e retrospettivamente su tutta la vita di Jakob e di chi lo conosceva, diventando non solo un’ apparato che si alimenta e si moltiplica esponenzialmente ma il fine stesso di tutto ciò che viene detto e rappresentato, pervadendo la realtà e permeando le esistenze.

A partire quindi dalle congetture sui fatti tutto il romanzo diventa un’enorme congettura in sé, nel senso che la concezione stessa delle cose e dell’esistere è dominata da un’idea di verità da scoprire, perseguita sistematicamente ma su cui non si possono che fare congetture in quanto quella verità resterà comunque occultata e distorta, anzi tanto più aumenta l’osservazione tanto meno ne sapremo di quella verità e quindi della possibilità stessa della verità in sé. “Congetture su Jakob” è un romanzo in cui si vive nella perenne sensazione che i personaggi sanno cose che il narratore non sa e che quindi neanche noi sapremo, che ogni parola, ogni gesto anche il più apparentemente insignificante può mettere tutto in questione, che un invisibile e inespugnabile silenzio grava sulle cose e nelle vite che i personaggi conducono, senza che di ciò se ne sappiano i significati, che i sospetti fondino la realtà prima ancora di conoscerla, che in assenza della libertà l’unica possibile libertà è proprio quella di tenere le cose per sé, che l’impersonale domina sul personale e che, infine, cosa è giusto e che cosa è sbagliato non si può stabilire.

Le difficoltà nell’impianto e nella prosa di “Congetture su Jakob” sono quindi volute perché funzionali alla rappresentazione di questo universo spaesante dove la soggettività è espulsa, se pur se ne sente implicito il suo sordo pulsare, e i comportamenti sono oggettivati nella e dalla loro funzione sociale a cui comunque tutti, indipendentemente dalla posizione in cui si trovano, aderiscono e devono aderire. Del tutto estraneo all’uso di soluzioni narrative di tipo sequenziale, Johnson sperimenta e inaugura qui quella che sarà una costante della sua opera e cioè quell’impostazione “antibiografica” con la quale egli esclude l’idea stessa di una possibile ricostruzione e descrizione unitaria della “vita”. Il suo modo di procedere apparentemente “disordinato” smonta la realtà e la ricompone in base ad un proprio “montaggio”, trasformando la narrazione in un vero e proprio flusso con un variare continuo del punto di vista e del portatore di parola consentendogli, tale forma letteraria, di esplicitare la sua concezione della letteratura che, come è stato osservato, si fonda sulla convinzione che il “mondo non è più “raccontabile”, poiché le condizioni del reale sono a tal punto indefinite e contraddittorie e le informazioni a tal punto contrastanti che la letteratura non può far altro che raffigurare il caos delle tante idee esistenti in merito all’uomo e alle cose”(Zmegac – “Breve storia della letteratura tedesca” – Einaudi – p.418).

Ambientato in un’atmosfera gelida qual’era quella della Germania dell’Est, nel contesto di una Germania divisa ma ancora priva del Muro, com’era ancora sul finire degli anni ’50 – il libro uscì nel ’59 – quando i due mondi non erano del tutto impenetrabili, da qui la specifica ambientazione sul “confine“ ferroviario, metafora e non solo di una scelta ancora possibile fra Est e Ovest, nella quale, più di ogni altro, proprio Jakob sarà coinvolto, “Congetture” pone il problema delle due Germanie come lacerante interrogazione proprio su quella scelta. Ma anche questa è una ricerca vana su cui proprio le vicende di Jakob gettano più ombre che luci, restando il senso di una irrisolvibile ambiguità, se pur di natura diversa, da qualunque parte si stia. Ma questo è solo uno dei molti piani di lettura delle “Congetture”. Il romanzo è una storia poliziesca se letto in relazione alla ricerca delle cause della morte di Jakob, è un a spy story se letto in relazione alla vicenda di spionaggio che coinvolgerà Jakob, è un’anticipazione profetica di quel “Le vite degli altri” per quella sensazione di sguardo pervasivo e onnipresente che arriva dovunque, è ancora un’impietosa messa a nudo dell’avanzare se non dell’affermarsi già compiuto di quella reificazione angosciante e inumana che si produrrà nei regimi socialisti e in particolare in quello della Germania dell’Est ed è inoltre, nel suo essere un romanzo “gabbia” giacché di tale struttura evoca lo schema, una sorta di grande metafora di quell’idea di disciplina così profondamente connaturata allo spirito tedesco.

Ma, a fronte di tutto questo, Johnson riesce a far emergere pur nell’oscurità, nella plurivalenza, nell’opacità dei discorsi, quei sottili fili di umanità che scorrono tra le persone e le loro esistenze, quasi tradendo, tutti, una loro sensibilità, un loro senso morale, una loro umanità che sopravvive e preme nelle loro vite, a dispetto di tutto e persino di se stessi. Ed è questo guardare la realtà, andando oltre la realtà delle cose, fino al limite della sua incomprensibilità, l’insegnamento e il senso di questo libro ma anche il suo grande fascino, segreto e complesso.

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