Juan Carlos Onetti nel suo “Profilo di Roberto Arlt” che fa da introduzione a quella che fu, nel 1971, la prima edizione italiana de “I sette pazzi” – meritoriamente riediti nel 2012 da Sur – dice: “…insisto: era un genio…se un abitante qualsiasi di questi umili lidi è mai giunto ad avvicinarsi alla genialità letteraria, questi aveva nome Roberto Arlt…Parlo di un romanziere che avrà maggior fama via via che passeranno gli anni (e su questo punto si può scommettere), e che, incomprensibilmente, nel mondo è quasi sconosciuto.”
Se la predizione di Onetti può considerarsi avverata giacché Robero Arlt è ormai riconosciuto come un “maestro” e un progenitore da tanti e di tanti scrittori argentini a lui successivi ed è in tal senso da considerarsi, al pari di Borges, capostipite della letteratura argentina del ‘900 è però anche vero che quel destino di scrittore “sconosciuto” pende ancora su Roberto Arlt. E come è capitato a me, dopo la lettura de “I sette pazzi”, viene da chiedersi come sia possibile che la notorietà di Roberto Arlt e dei suoi romanzi non abbia ancora raggiunto la diffusione e il rilievo che meritano. Perché – e in questo mi ritrovo totalmente nelle parole di Onetti – Roberto Arlt è davvero uno scrittore geniale, capace di una visione e di visioni assolutamente dirompenti anzi, riprendendo il titolo di questo romanzo, assolutamente pazzesche. Ma quello che sconcerta della visionarietà di Roberto Arlt è la sua capacità di applicare questa visionarietà all’animo umano, scavandolo fin nei suoi più nascosti e contorti recessi.
“I sette pazzi” è un romanzo delirante, diabolico, demoniaco, è il resoconto di un itinerario in un sottosuolo esistenziale dove è solo nello sprofondamento che si può esistere laddove, fuori da questo sprofondamento, c’è il totale annullamento. E per chi, come Remo Augusto Erdosain, il disperato protagonista de “I sette pazzi”, sorta di simbolo vivente degli “umiliati e offesi”, si ha solo un’angoscia senza limiti come assillo e compagnia, quello sprofondare è conseguenza di quell’angoscia ma è anche l’unico e l’ultimo modo per esistere e resistere a quell’angoscia. Perché Erdosain è un uomo braccato dalla vita, da “tutta l’immensa disgrazia che pesava sopra la sua vita”, è un uomo finito: “egli era vuoto, era una buccia d’uomo mossa dall’automatismo dell’abitudine”, ormai piombato in un abisso che annichilisce perchè il suo è un abisso senza morte.
E’ evidente, in tutti questi riferimenti, il rimando e il richiamo ad atmosfere e figure dostoevskijane e Onetti in quel suo “Profilo” ci dice espressamente che “Roberto Artl ha tradotto Dostoevskij nel dialetto plebeo e della malavita di Buenos Aires. Il romanzo composto da “I sette pazzi” e “I lanciafiamme” è nato da “I demoni”. (“I lanciafiamme” è il seguito de “I sette pazzi”, costituendo i due romanzi un vero e proprio distico). Ma nelle pagine di Roberto Arlt ho trovato anche il sentore di un altro mondo esistenziale che mi ha rimandato al relativo mondo letterario e cioè quello germanico. Racconta Onetti “…che Roberto Artl pronunciava lo spagnolo con un forte accento germanico o prussiano ereditato dal padre. E’ vero: suo padre era austriaco e inoltre era un gran figlio di cane…sopportò un padre di puro sangue ariano che, per una ragione qualsiasi, gli diceva: “Domani alle sei ti picchierò””. E, leggendo “I sette pazzi”, ho ritrovato echi, intonazioni e temi presenti in alcuni grandi autori di lingua tedesca che, a loro volta, mi hanno aiutato a comprendere Arlt, inducendomi a pensare che quelle sue origini hanno influenzato, se non altro esistenzialmente, la sua opera.
D’altro canto egli stesso, a un certo punto, fa dire a Erdosain: “Chi ha dato inizio a questo feroce lavoro d’umiliazione fu mio padre. Quando avevo dieci anni e avevo combinato qualche monelleria mi diceva: “Domani ti picchio””. E così ne “ I sette pazzi” ho avvertito, in primo luogo, la eco di quel “Follia tu reggi il mondo” che Heinrich Von Kleist fa dire all’ Elettore di Sassonia in “Michele Kohlhaas” giacchè, quell’affermazione, contiene quello stesso incontenibile senso del disordine del mondo che si respira in questo romanzo, poi ho pensato alle obnubilanti e disperate peregrinazioni attraverso Berlino che Alfred Doblin fa fare a Franz Biberkopf il protagonista di “ Berlin Alexanderplatz” le cui intonazioni espressioniste e le cui ambientazioni tutte urbane rivivono nelle analoghe peregrinazioni che Roberto Artl fa fare a Erdosain attraverso Buenos Aires ed infine ho registrato la presenza di quel reiterarsi del fallimento, tema su cui Thomas Bernhard ha incentrato la sua opera, che ricorre ne “I sette pazzi” essendo “I sette pazzi” fondamentalmente una tragicomica, impietosa e assurda commedia sul fallimento della vita e del vivere.
Ma qui il tragico e il comico si deformano in modo sinistro e feroce, come se tutto fosse e si svolgesse in uno stato di alterazione permanente , dando luogo ad un mondo parallelo che vive e si pone ai margini del mondo. Vittima e creatore di fantasie che si nutrono di allucinazioni e di solitudine Erdosain è preda di quel suo flusso introspettivo in cui si rivela a se stesso e rivelandosi mette in scena la sua autodistruzione: “Si, sono un lacchè. Ho l’animo di un vero lacchè” e tutta la sua tristezza cosmica: “Tutto il suo dolore, non più compresso, si estendeva fino all’orizzonte intravisto attraverso i fili telegrafici e le aste di presa dei tram. All’improvviso ebbe la sensazione di camminare sulla sua stessa angoscia trasformatasi in tappeto.”
Perché Remo Augusto Erdosain è un puro che insegue una purificazione e una purezza che gli sono negate e tanto meno riesce a raggiungerle tanto più aumenta la sua deriva che lo annienta e lo conduce al delitto e nel delitto, “ forse perché cerca in tutto ciò che è più vile e basso proprio quella purezza sicura che lo salverà definitivamente”. Erdosain è quindi costretto all’azione per poter affermare la sua esistenza, per “provare coscienza della mia esistenza” egli dice, non essendogli più data alcuna altra possibilità di esistere giacché “se un uomo esiste come azione vuol dire che non esiste”. E non esistendo più per se stesso Erdosain riversa la sua possibilità di esistere nell’ azione del delitto, ma non nell’azione del delitto in sé ma nella sensazione che commettere il delitto procura, come una sorta di ultimo stadio della coscienza: “Mi sale su la curiosità dell’assassinio, curiosità che dev’essere la mia ultima tristezza, la tristezza della curiosità. O il demonio della curiosità. Vedere come sono attraverso un delitto. Vedere come si comportano la mia coscienza e la mia sensibilità nell’azione di un delitto”.
Ma intanto Erdosain si è già sperimentato allo stadio preliminare di ladro derubando lo zuccherificio in cui lavora come esattore di seicento pesos e sette centesimi. Ma anche quell’azione l’ha fatta come un bambino che scopre un gioco fin lì impensato: “provò l’allegria di un inventore. Rubare? Ma come aveva fatto a non pensarci prima?” Ma quel gioco che gli dava sollievo alla vita, ma che non gliela cambiava dato che poi di quei soldi non sapeva farne uso verrà scoperto ed è da qui in poi che Erdosain, andando alla ricerca di qualcuno che gli dia quei soldi per poterli restituire, farà ingresso in quel mondo di pazzi nei quali si imbatterà e a cui si legherà. Il romanzo diventa via via sempre più caotico, si carica di fascino perverso, assume risvolti demenziali, oscilla fra megalomanie di potere universale spacciate per rivoluzione planetaria e bassezze malavitose, si vena di humour nero e di crudele nichilismo. Come una spirale senza centro procede per accumulazioni paradossali e inattese, ridondante di colpi di scena, svianti e ambigui, trascinando tutto e tutti in un mondo corrotto e occulto, cialtronesco e minaccioso al tempo stesso.
Una galleria di personaggi folli, ognuno mosso da un suo folle progetto sbucano dalla vita e nella vita di Erdosain, tutti egocentricamente convinti di avere in pugno i loro deliri di onnipotenza. Una miseria umana e morale li accomuna ma ognuno è talmente preso a sostenere e mettere in pratica le proprie tesi e i propri propositi da mitomane che, in quello che fa e in quello che è, tutto è sorretto da logiche per lui ferree quanto, in realtà, grottescamente mostruose, tanto che Erdosain stesso si chiederà: “Da dove mai sono usciti tanti mostri”. Nel non senso dilagante un cinico quanto spregiudicato utilitarismo domina la scena. In primo luogo quello che ruota intorno al danaro e alla violenza dei rapporti che ne derivano, come nel caso del farmacista Ergueta a cui, secondo lui, “Gesù…(gli)ha rivelato il segreto della roulette”, il che, forte di alcune cospicue vincite, lo porta a dire: “In tutte le roulettes vincerò tutti i soldi che voglio. Andrò in Palestina, a Gerusalemme, e riedificherò il gran tempio di Salamone”, salvo che liquiderà Erdosain e le sue richieste di soldi con un: “Ma cosa credi, che perchè leggo la Bibbia io sia un coglione?”. Ergueta poi perderà tutto e impazzirà per davvero.
O, come nel caso di Elsa, la moglie di Erdosain, che lo abbandonerà perché “Odio la miseria” gli dice e ciò al cospetto del “capitano” un aitante e sistemato “aviatore”, con cui andrà vivere e che è lì, anche lui, in casa di Erdosain, in quell’avvilente momento del congedo della moglie e a cui Erdosain, in una delle sue fantasie, aveva immaginato di dirgli: “Lei capisce, un uomo che si lascia portare via la moglie davanti agli occhi è un disgraziato”. Salvo che Elsa poco dopo essere uscita di lì “già si trovava in compagnia della suora di un ospedale. Un solo gesto maldestro del capitano era bastato per farle prendere coscienza della sua situazione e si era gettata giù dall’automobile” Ma intanto è come se la realtà si chiudesse intorno a Erdosain segregandolo al di fuori di essa, in un mondo senza speranza che lo proietta verso il Male assoluto, nel quale giocarsi l’ultima possibilità della sua esistenza.
E’ questo il mondo dell’ Astrologo, di Haffner il Ruffiano Melanconico, dell’ebreo Bromberg, del Cercatore d’Oro, del Maggiore, un’ accolita di degenerati che progetta di organizzare una società segreta e di prendere il potere con una rivoluzione che sarà finanziata da una catena di bordelli su scala nazionale, allestendo fabbriche di gas asfissianti e sfruttando miniere d’oro. Ma che non trova di meglio, per cominciare ad autofinanziarsi, che rapire Barsut il cugino della moglie di Erdosain – in realtà anche lui uno squilibrato, che ha denunciato Erdosain allo zuccherificio per il furto che ha commesso per umiliarlo di fronte alla moglie e così umiliare anche lei che non lo degna di attenzione – rapire Barsut quindi per estorcergli il denaro che possiede con la promessa di lasciarlo libero e poi invece, incassata la somma, ucciderlo.
Ed è proprio Erdosain a fare il nome di Barsut all’Astrologo, il capo della cricca, e a proporgli questa soluzione, perché anche lui è ormai parte di quel mondo a cui, spinto inizialmente dalle sue necessità di denaro, si aggregherà perchè lì potrà attuare quel suo “essere attraverso un delitto” e non essere come sente di essere: “Per tutti sono la negazione della vita. Sono qualcosa come il non essere”. In un clima via via sempre più torbido e farsesco, Arlt crea un intreccio paranoico e decadente, a cavallo fra un resoconto di cronaca nera e la lucida predizione dei totalitarismi che da lì a poco invaderanno il mondo, “I sette pazzi” è infatti del 1929, di cui coglie la loro comune natura di fenomeni di manipolazione di massa: “Saremo bolscevichi, cattolici, fascisti, atei, militaristi, a seconda dei diversi gradi di iniziazione”, ed ancora: “Ha ragione l’Astrologo” – dirà Erdosain – “bisogna inaugurare l’impero della Menzogna, delle magnifiche menzogne.”, e infatti dice l’Astrologo, teorizzando la sua fasulla quanto delirante palingenesi: “L’umanità ha perduto ogni festa, ogni allegria. Gli uomini sono così infelici che hanno perduto perfino Iddio! L’uomo è una bestia triste che riuscirà ad emozionarsi solo per dei veri prodigi. O per dei massacri. Ebbene, così sia: noi, con la nostra società segreta, daremo loro prodigi, bacilli di colera asiatico, miti, scoperte di giacimenti d’oro o miniere di diamanti.”
Traboccante fino alla fine di azione e introspezione “I sette pazzi” pullula di così tante cose da debordare da tutte le parti, aprendosi a squarci di tutti i tipi anche lirici in quella che è in fondo una dolorosa e disperata ricerca di felicità che Erdosain insegue e sogna avendo egli una sua segreta diversità che lo rende così tragicamente vero. Perché in quel mondo di mostri Erdosain è mosso da un intatto candore verso una purezza e una verità che non esistono ma che ostinatamente egli cerca. Ed è proprio il contrasto tra quella tenebrosa disciplina che l’Astrologo e i suoi accoliti vorrebbero dare al mondo e l’umano disordine del mondo che Erdosain, anche confusamente, porta su di sé che risalta e si avverte. E un romanzo così fortemente disordinato lo è giustamente laddove è del disordine che parla. Ma se “I sette pazzi” finisce non finisce la storia de “ i sette pazzi” giacché, come ci dice Arlt nella nota posta nell’ ultima pagina: “L’azione dei personaggi di questo romanzo continua ne “I lanciafiamme””