Non ci si faccia trarre in inganno dal titolo. “Guglielmo Tell per la scuola” non è un testo didattico in senso istituzionale – anche se, nelle intenzioni di Max Frisch, c’è da supporre che egli auspicasse che venisse letto nelle scuole, avendo peraltro tutti i crismi di un possibile utilizzo scolastico; è infatti corredato da un rigoroso ed ingente apparato di note, se ne contano ben 74, le quali occupano un numero di pagine uguale a quelle occupate dal testo vero e proprio, avendo, altresì, tali note, non solo una funzione esplicativa ma interagendo con il testo ed essendone parte integrante in quanto danno quella profondità storica, geografica, culturale, linguistica, filologica e di costume che fa da sfondo alla narrazione vera e propria – perché “Guglielmo Tell per la scuola” è, prima di tutto, uno squisitissimo divertissment letterario e, nel contempo, un impietoso e sarcastico pamphlet con cui Frisch fa a pezzi non solo il personaggio di Guglielmo Tell ma il mito fondativo stesso su cui è nata e su cui vive la Svizzera.
In questo senso il farlo leggere nelle scuole farebbe aprire gli occhi su quanto di retorico vi è nella leggenda di Guglielmo Tell, e restituirebbe una diversa verità ad una vicenda controversa ma ormai trapassata e istituzionalizzata nel mito. Guglielmo Tell lungi dall’essere l’eroe che la nota agiografia tramanda si rivela, nella ricostruzione fatta da Frisch, essere stato un uomo rude e aggressivo, trovatosi coinvolto, quasi per caso, in una vicenda più grande di lui, macchiatosi oltretutto, nell’ambito di quella vicenda, di un brutale assassinio. Risultando quindi totalmente privo di quei valori di coraggio, dignità, orgoglio, sentito patriottismo ed eroismo su cui si basa la sua fortuna. E, di conseguenza, la fondazione della Svizzera ha nelle sue origini un atto di violenza inutile e insensato il che conferma, ancora una volta, quanto i miti siano per loro natura conservatori, pietrificando e subordinando la verità dentro canoni che non consentono più alcuna messa in discussione e che “fissano” una loro verità utile a chi la vuole imporre e mantenere.
Ma quello che fa di “Guglielmo Tell per la scuola” un piccolo gioiello è la narrazione in sé, leggera e corrosiva al tempo stesso. Frisch, nel riferire e ricostruire la vicenda che portò al famoso episodio della mela e ai suoi successivi esiti – pur stando all’interno del quadro storico di riferimento a cui si attiene con uno scrupoloso ma anche originale utilizzo di fonti e documenti – tuttavia ce la racconta in modo del tutto diverso dal cliché tradizionale. In primo luogo, adottando uno svolgimento sotto forma di “cronaca dal basso”, ci restituisce quadri di vita materiale e descrizioni degli ambienti, dei luoghi e dei personaggi che hanno la forza, la brillantezza e l’originalità dell’invenzione letteraria vera e propria.
Poi egli reimmagina la vicenda dell’eroe nazionale svizzero ponendo al centro di essa il balivo degli Asburgo, Corrado von Tillendorf che è il coprotagonista di quella vicenda, tra l’altro per niente secondario, e che, di quella vicenda, sarà la vera vittima. E infine, usando sapientemente i toni della farsa e del grottesco, Frisch ci fa vedere le abnormità che, l’impenetrabilità e l’isolamento del mondo dei montanari della cosiddetta Svizzera Primitiva, produceva e come un’iconografia, costruita nei secoli, volta ad esaltare quel mondo in nome della “tradizione”, abbia nascosto, e legittimato al tempo stesso, una cultura e un sistema fondato sul disprezzo e sul rifiuto dell’altro da sé che, di fatto, si è tramandato in quella società e in quel Paese fino ai giorni nostri.
Sin dall’inizio le cose appaiono tutt’altro che epiche ma assai prosaiche e persino ridicole, anzi, oserei dire, quasi donchisciottesche. S’ avanza, sul suo cavallo, “in un giorno assolato del 1291 attraverso i luoghi che oggi sono denominati Svizzera Primitiva” il balivo dell’ Impero d’Asburgo, “Corrado von Tillendorf un uomo giovane e per la sua età piuttosto grasso” Egli è diretto a Uri e più avanza e più si stupisce: “A più riprese si stupì che da quelle parti ci fosse un sentiero; …Era stupito che da quelle parti vivessero esseri umani.” E’ evidente che quei luoghi non gli piacciono. Le montagne che incombono lo opprimono, il caldo portato dal favonio lo fa sudare, i mezzi che è costretto ad utilizzare e cioè sia il cavallo che la barca, con cui gli fanno attraversare il Lago dei Quattro Cantoni, sono scomodi e stancanti.
Corrado von Tillendorf deve ancora arrivare ed è già quasi in depressione. Da quella barca: “guardava angustiato la valle di Uri, che gli appariva l’estremo limite del mondo”. Ma deve fare buon viso a cattivo gioco: “Naturalmente il cavaliere grassoccio sapeva che Uri era affrancata dall’Impero, e cioè che lui si trovava in terra straniera; si guardava bene dal dire che non avrebbe voluto vivere a Uri. Disse soltanto che aveva mal di testa.”. Ma, ancor più sconsolante e detestabile appare, da subito, al povero Corrado l’inospitalità e la scontrosità dei locali. Già il barcaiolo, che lo sta trasportando sul lago, alla domanda che Corrado gli rivolge su quanto ci avrebbero messo ad arrivare dall’altra parte, con un atto di palese villania, non gli risponde.
Perché a quel barcaiolo, il fatto che Corrado è uno straniero, già questo lo indispone: “passava per il più valente barcaiolo di tutto il lago d’ Uri e che quello stronzo di straniero gli avesse domandato quanto ci volesse ancora…non l’avrebbe dimenticato per il resto dei suoi giorni”. Ora “”stronzo” traduce qui liberamente, Fotzel (da Fotze, vagina), vocabolo forte sinonimo di Faul (marcio, putrescente, puzzone). Fotzel è oggi ancora nella Svizzera interna, e nonostante il turismo, un’espressione in uso; essa designa un’ inferiorità a priori dello straniero” .
Ma Corrado von Tillendorf non è uno straniero qualsiasi e non è lì per caso, è in “missione diplomatica”. Si sta recando ad Altdorf dove attenderà di essere ricevuto dal barone di Attinghausen con cui deve discutere e definire, per conto dell’Imperatore, determinati accordi. Infatti, il barone “ era landamano di Uri e proprietario della cittadella più forte di tutta la vallata [ed essendo] libero nell’Impero [era] giuridicamente di rango pari a quello della casa d’Asburgo” . Arrivato ad Altdorf inizia per Corrado la sfibrante attesa per essere ricevuto dal barone che non sta bene e rinvia l’udienza. Nel frattempo tutto, intorno a lui, lo ammorba.
Le serate sono di un tedio mortale: “spesso il cavaliere grassoccio se ne andava a letto verso le nove” , e poi, soprattutto, non c’era proprio niente da fare e da dirsi con quei valligiani scorbutici e scostanti. “Talvolta provava timore di quei montanari; la loro anima gli restava inaccessibile” presi, come essi erano, in modo indefesso, nelle loro occupazioni e rinchiusi nei loro mutismi: “Già il semplice fatto che uno osasse spingersi nelle loro vallate, lo rendeva sospetto; i vaccari, che passavano un’intera estate soli su un alpe preferivano parlare con gli spiriti che con uno sconosciuto” e neanche una mano erano disposti a stringere: “fece per tendere la mano al contadino; neanche questo volevano: l’Urano continuò a grattarsi tra i peli del petto”.
Come non bastasse l’ottusa tetraggine dei locali si aggiunge il fatto che a Corrado raccontano dell’ammazzamento di un balivo suo collega avvenuto non lontano da Uri. Tale balivo pare avesse indotto una locale svizzera primitiva a concederglisi. In realtà non andò così. Il balivo accaldato pretese soltanto di prendere un bagno nella tinozza della locale svizzera primitiva e vi si immerse e questo bastò a decretarne l’eliminazione, avvenuta, seduta stante, mentre era ancora lì, in santa pace, nella sua tinozza. Ma siccome “nessun Urano dubitava che si trattasse di un tentativo di indurre al meretricio in combutta con la Tirrania [degli Asburgo]” a Corrado – a cui peraltro la dinamica dei fatti non quadrava: “trovava strano che uno che vuole una donna si spogli nudo e si metta a sedere dentro un tino” – assicurano che le cose andarono proprio come dicevano loro lasciandolo, anche per altri fatti simili che gli raccontano, “sgomento della misura in cui quei Forestali erano sempre dalla parte della ragione”.
Finalmente il barone concede a Corrado l’attesa udienza ma, prima ancora di iniziare ad esporre le proposte dell’Imperatore, Corrado si accorge che “Il vecchio di Attinghausen aveva l’aria come di essere impagliato, benché non mostrasse i segni di un colpo apoplettico” E infatti il barone, in modo meccanico, come fosse un cucù, seduto immobile sulla sua sedia, ripete, in risposta alle proposte fattegli da Corrado: “Cumè ai temp da prima ca ga fuss al Re” e nient’altro. E per quanto Corrado si sforzi con diplomazia di convincerlo, non c’è niente da fare, la risposta è solo e sempre quella frase lì, che vuol dire non c’è possibilità di discussione, gli accordi non si cambiano, si lascia tutto com’è: “La conferenza era finita”.
“Visto che proprio non volevano trattare, bene: niente. Ne aveva abbastanza”. Corrado non vede l’ ora di ripartirsene e “Ordinò al domestico” le relative disposizioni. Quel giorno, in cui Corrado dà quell’ordine, è “Il 1° agosto 1291” ed egli “non aveva il minimo presentimento del fatto che quel giorno gli abitanti dei Paesi forestali si sarebbero investiti di una missione paragonabile a quella di pochissimi altri popoli nella storia…trascorse [quindi] il resto di quella giornata, che ancor oggi è festeggiata in Svizzera…senza presagire nulla.” Tutt’ oggi, il 1° Agosto, ricorre la Festa Nazionale Svizzera. Essa ricorda proprio i fatti di cui si sta parlando qui, cioè la nascita della Confederazione avvenuta nei primi giorni di agosto del 1291 con la stipulazione del Patto confederale tra i cantoni di Uri, Svitto e Untervaldo detti Cantoni Primitivi i quali dettero vita ad un’alleanza per contrastare le pressioni degli Asburgo attraverso l’amministrazione dei balivi. Alle ricorrenze previste dalla Festa partecipano il Presidente della Confederazione e le principali cariche dello Stato. L’avvenimento è trasmesso dalle televisioni nazionali. Quindi lo Stato svizzero trae la sua legittimazione e si riconosce proprio in quei fatti che accaddero quel giorno.
Prima di ripartire Corrado non per provocare ma in ossequio ad un rito che rientrava nella legalità medievale fa issare un palo alla cui cima è collocato un cappello, chi passava di lì doveva rivolgere un cenno di saluto al cappello. Mentre Corrado si sta preparando per la sospirata partenza gli comunicano che “un tale non aveva salutato il cappello”. Corrado non ci pensa neanche di dare peso alla cosa ma, “purtroppo le sue guardie avevano arrestato l’individuo”, gli tocca quindi occuparsene. Sulla piazza “c’era già una folle enorme di curiosi” e c’è il prigioniero: un “uomo con la balestra e [un] ragazzino”.
Corrado cerca di decifrare la situazione per capire cosa fare. Interroga in modo affabile e a più riprese l’uomo il quale però cocciutamente non risponde. Senonché – percepito un che di minaccioso a seguito di un improvviso scarto del cavallo che Corrado monta – l’uomo, spaventatosi, si lancia in un profluvio di scuse per quel suo gesto del mancato saluto del cappello, dicendo, a sua discolpa, che non lo chiamerebbero Tell, così come lo chiamano, se lui non fosse aduso a fare cose ingenue e infantili così come quella che ha appena fatto. Sottintendendo con ciò il gioco di parole che farebbe derivare Tell “da “dahlen, dallen, tallen” e cioè da : dire e fare cose ingenue e infantili” . Ma siccome la folla che è lì intorno lo guarda male per quella sua risposta servile e siccome lui lì ci viveva e avrebbe dovuto continuare a viverci “se ne accorse e si corresse: era un uomo libero, lui, e non era disposto a salutare un cappello asburgico!”
A Corrado però quella risposta, apparentemente irriverente, gli sembrò, lì per lì, contenere la soluzione del problema perché “in cima a quel palo non pendeva un cappello asburgico bensì un cappello imperiale, al quale occorreva testimoniare riverenza, anche nella vallata libera di Uri…evidentemente [Tell] lo ignorava. E del resto, bisognava ammetterlo, la situazione era abbastanza complicata in quel periodo.”Ma Tell che “non aveva la minima intenzione di attirare su di sé il biasimo dei suoi, si corresse ancora una volta: neanche il cappello dell’Imperatore, lui non l’avrebbe salutato, mai e poi mai, un libero Urano…ecc.”.
Senonché il ragazzino che è lì al suo fianco e che è suo figlio, per tirar fuori dagli impicci il padre che, “confuso com’era”, con le sue baggianate si è cacciato in un bel guaio se ne esce dicendo “ che suo padre sapeva colpire una mela da trenta metri.” Corrado per sdrammatizzare la situazione, convinto di gettare acqua sul fuoco, ribatte, in cuor suo scherzando e per niente sul serio: “e allora che quel suo padre armato di balestra gli tirasse giù una mela dalla testa”. L’avesse mai detto, tutti presero letteralmente e dannatamente sul serio quella sua uscita e si misero a cercare la mela. Corrado già si aggrappava alla speranza che la mela non si trovasse e la cosa finisse lì ed ecco invece che il figlio di Tell da buon svizzero, efficiente e puntiglioso, “tira fuori una mela verde dalla tasca dei pantaloni.”
Tell imbraccia la balestra e si prepara a scoccare la freccia. Corrado che aveva già ripetuto “due volte: – Basta con gli scherzi! “, la vede male e quando sembra ormai troppo tardi, scende da cavallo e toglie di mano la freccia a Tell, la quale freccia non verrà quindi mai scoccata, né alcuna mela verrà mai aperta in due, nel rammarico di Tell e del ragazzino che si erano ormai calati nelle relative parti. Tanto che Tell tira fuori una seconda freccia dalla faretra ma Corrado “gli ordinò di riporre entrambe le frecce nella faretra e di alzarsi – era libero” Ma Tell, ormai al centro dell’attenzione, “per impressionare i suoi compaesani aveva detto che lui lo sapeva benissimo cosa voleva farsene di quella seconda freccia,… che lui avrebbe ammazzato il balivo, sissignori, sotto gli occhi di tutti”.
A quel punto anche Corrado, suo malgrado, non può venire meno ai suoi doveri e al suo ruolo e poi con quella minaccia pronunciate da Tell non si sa mai. Dà quindi ordine di arrestare e portare via Tell che, agli occhi dei suoi compaesani, appare vittima di un’ingiustizia: “Cosa aveva fatto quel povero padre, col suo bambino e con la sua balestra?” Ma per Corrado il problema in qualche modo si è risolto e finalmente può ripartire. Riattraversa il lago con le sue due guardie ai remi, beccandosi pure una bella tempesta, causata dal favonio, da cui esce vivo per miracolo. Non fidandosi di portarsi dietro Tell sulla barca, ha deciso di lasciarlo a riva, guardato per un po’ dal suo stalliere fintanto che la sua barca non si fosse allontanata e quindi, di fatto, lasciando Tell libero.
Corrado giunto sull’altra sponda fradicio per la traversata decide di non proseguire subito e di fermarsi lì a dormire: “ e questa sarebbe stata la sua disgrazia”. Tell infatti si è incamminato a piedi sulle tracce del balivo e lì, dove questi si è fermato a dormire, lo raggiunge e lo uccide con una delle sue frecce. “Probabilmente a Svitto si sapeva già di quell’azione memorabile quando il cavaliere grassoccio vide tutto nero davanti agli occhi”. “Che si trattasse di un’azione degna di lode oggi ancora s’insegna nelle scuole elementari svizzere. Se si compara la storia di Tell con le saghe nordiche che le sono più simili e che sono comunemente ritenute più antiche (il che esclude un plagio in senso inverso) le varianti sono rilevanti: gli eroi nordici che hanno colpito una noce o una mela, dopo il loro tiro magistrale non diventano assassini a tradimento; l’omicida a tradimento invece diventò un eroe attraverso la saga nordica (tiro alla mela)”