“Il morbo di Haggard” è il racconto di una storia d’amore, di un amore tanto grande quanto crudele, giacché quest’ amore sarà destinato a non realizzarsi. Ma “Il morbo di Haggard” è anche il racconto di un conflitto e cioè del conflitto tra la forza di quel sentimento d’amore che, per la sua intensità, sarà la più pura espressione della passione, e la violenza del mondo intesa come imposizione di una volontà estranea a quella passione, tesa a sopraffarla per affermare se stessa.
E se l’amore, questo amore, entra in conflitto con quella volontà e, in tale conflitto, è quella volontà che prende il sopravvento, quell’amore finirà per trasformarsi in tragedia. Perché quel tipo di amore non potendo esistere, essendogli negata l’esistenza, si trasformerà nell’unica altra possibile forma in cui potrà esistere e cioè nel dolore e come tale continuerà a vivere. E, pur nel dolore, la purezza di quel sentimento resterà inalterata e l’aver vissuto quell’ amore avrà un significato che trascende la sua fine, in quanto apparizione a se stessi di quella “grazia dello spirito” così come Edward Haggard arriverà a definire l’essenza di quell’amore, bellissimo e disperato, che lo aveva unito a Fanny Vaughan.
Ma Edward Haggard non si limiterà a non dimenticare e a conservare in sé la preziosità inviolabile di quel sentimento ma se ne farà custode premuroso: “Lo avrei mantenuto vivo, lo avrei nutrito, ne avrei fatto un oggetto di venerazione e avrei costruito nel mio cuore un altare sul quale offrire, ogni sera, i miei atti di devozione” e così facendo quella sua struggente nostalgia si trasformerà come in un morbo di cui sarà al tempo stesso vittima e interprete. Ma lungi dall’essere un romanzo sull’ immodificabilità delle cose, “Il morbo di Haggard” è invece attraversato in tutto il suo sviluppo proprio dal tema della mutazione delle cose. Di come una condizione, uno stato possa mutarsi in un altro.
E questo può riguardare la natura dei sentimenti e delle emozioni che possono avere in sé il germe della loro dissoluzione e può riguardare la fisicità stessa, all’interno della quale si possono indurre alterazioni fino al limite estremo della morte. Se l’amore ha in sé, per sua natura, il germe della passione, così come i veri grandi amori hanno, anche l’amore raccontato ne “Il morbo di Haggard” sarà così che nascerà. E sarà quella passione che investirà, travolgendoli, Edward Haggard e Fanny Vaughan.
Lui, quando quella storia ha inizio, è un giovane medico che lavora all’interno dello stesso ospedale nel quale lavora, come primario, anche il marito di Fanny. Lei è una donna “più matura e raffinata” di Edward, è colta, intelligente, bella ed è anche madre di un figlio, James, che, a quell’epoca ha 16 anni. Ed è nell’ambito delle frequentazioni derivanti da quell’ambiente che Edward e Fanny si conosceranno. Siamo a Londra, in periodo prebellico, tra il ’37 e il ’38 e i venti di guerra aleggiano facendo da sfondo e preconizzando quel senso di catastrofe che, a sua volta, aleggia su tutta la storia. La natura della passione fra Edward e Fanny sarà assolutamente romantica e, come tale, basata su una congiunzione di anime, sulla loro compenetrazione, fino a configurarsi come fusione, come ricostituzione dell’”unità perduta”.
Dirà in tal senso Haggard: “…nel caso di un amore romantico è l’anima che parla, è un discorso tra anima e anima…E’ la realizzazione dei due nell’uno, il ritrovare una unità perduta. Questo compresi…che lei e io eravamo – siamo – due parti di un tutto”. E, come per Haggard, anche per Fanny quell’amore sarà straordinario: “Nessuno, mi disse, l’aveva mai amata così” dirà Haggard, rievocando Fanny. Ma quella relazione, al limite dell’ideale, conterrà da subito sofferenze e rinunce. Sarà infatti una relazione contrassegnata dalla clandestinità e dalla fugacità perché pur nell’evidente crisi del suo matrimonio Fanny non riuscirà a immaginarsi al di fuori di esso e si genererà in lei una lacerazione tra il suo desiderio rivolto a Edward e la colpa insita nel tradimento: “…mi raccontò del suo rientro a casa quella sera…si era sentita colpevole e depravata, ma allo stesso tempo cosciente di altre emozioni più forti, legate a me, al mio idealismo, al mio amore che fiorivano in silenzio, disse, nell’oscurità del suo cuore…Tutto deriva dal comprendere la rinuncia mi disse: è facile rinunciare al piacere, ma quanto è resistente il ricordo, in confronto alla noia della mortificazione che ci si infligge”
E così a quel senso di pienezza provato insieme si susseguiranno quei distacchi carichi di attesa per il successivo incontro. A quei momenti di gioia condivisa: “Quanto ridemmo! Non era per nulla divertente, ma eravamo talmente felici da doverci sfogare, in un modo o in un altro”, si frapporrà il trovarsi come in una gabbia. Un amore che appare via via tanto vero quanto impossibile, un amore che “è un dono” eppure costretto “nell’ombra”. Ma a quella condizione claustrofobica nella quale comunque l’agibilità di quell’amore aveva uno spazio se ne imporrà ben presto un’altra, assai più feroce: la separazione e il distacco. E tanto più feroce in quanto tale separazione sarà l’esito di eventi brutali e impietosi.
Fanny subirà la reazione del marito, che scoprirà quella relazione e la costringerà ad interromperla, cosa a cui Fanny non saprà opporsi, sacrificando Edward e il suo amore per lui. Ma Fanny già sapeva che nell’impatto con la realtà sarebbe stata perdente come aveva dolorosamente anticipato a Edward: “”Non ne ho la forza, caro. Lui sa come logorarmi, e lo farà, ti allontanerà, qualunque cosa faccia tu”….Lei si voltò verso di me e per un attimo gli occhi le si riempirono di lacrime”. E, in quel momento, come rievocherà Edward: “… pareva quasi che il suo vero io si fosse spento come una fiamma che langue e muore”.
Edward sarà a sua volta vittima di una vera e propria aggressione fisica da parte del marito di Fanny, che avrà come conseguenza una menomazione, peraltro assai dolorosa, che lo tormenterà, da quel momento in poi, costantemente. E con quel dolore Edward parlerà e convivrà quotidianamente in un muto e, al tempo stesso, urlante dialogo, per gli spasmi che quella ferita gli produrrà, corrispettivo di quell’altra, altrettanto dolorosa, ferita dell’anima. Edward e Fanny vivranno separati e soli la loro tragedia che per Fanny si tradurrà in una abdicazione dal suo desiderio, incapace di liberarsi da quel matrimonio e dai legami che la tenevano in quel rapporto, “da quella trama contraddittoria fatta di affetto, risentimento e distacco”, così come Haggard stesso constaterà, evidenziando quel connubio inestricabile, eppure reale vissuto da Fanny.
Per Edward la sua tragedia sarà tutta nell’abbandono di cui sarà e si sentirà vittima, strappato a viva forza da quella sua metà senza la quale egli non riuscirà più a esistere. Incapace di emanciparsi da Fanny e dall’amore per lei, così come egli stesso dirà: “Lei mi ha reso completo, ma l’ho persa. E dopo aver conosciuto la fusione e l’interezza mi è diventato intollerabile vivere senza: avrei preferito non aver mai scoperto che tale condizione era possibile.” La passione si è quindi mutata in sofferenza, così come nell’ etimologia da cui essa deriva. Perché se passione è sinonimo di pathos, questi è anche sinonimo di pena e sofferenza.
E l’amore, quell’amore, ormai spietatamente soffocato, sarà ridotto a una disfunzione, a una patologia da estirpare. “L’amore” – dirà Haggard – “è l’oggetto dei nostri più ardenti desideri, ma svanisce come un sogno quando viene esposto a certe realtà.” Per entrambi la rinuncia a quell’amore non avrà alcun sfogo e in quanto subita e non risolta quella rinuncia lederà la loro psiche e i loro corpi. Perché, come aveva detto un giorno proprio il marito di Fanny a Edward: “E’ il pathos che condiziona il logos”.
Fanny si ammalerà e di quella malattia morirà, vittima di una implosione del dolore, di una degenerazione nel corpo e del corpo. Una sua mutazione all’impossibilità di reazione della volontà, un morire fisico figlio di una morte interiore. “Poco sesso, poco amore, troppa disperazione silenziosa” dirà Haggard di quella sua paziente che morirà della stessa malattia di Fanny, evocando, in tal modo, implicitamente la malattia e la morte di Fanny.
Edward allontanato e allontanatosi da tutto: dall’ospedale, dalla sua carriera, da Londra, fuggirà e si esilierà in un luogo selvaggio e isolato, su una propaggine della costa meridionale, lontano dal mondo col quale, l’unico residuo legame, sarà solo attraverso quella modesta attività di medico con cui sopravviverà alla realtà e nella realtà essendo che la sua vera realtà sarà quell’ossessione infinita: perdutamente legato a quell’amore che lo renderà perdutamente legato alla solitudine e all’infelicità.
Giacché la sofferenza sarà per lui come in quel verso di Wordsworth che egli stesso a un certo punto cita: “La sofferenza è permanente, cupa e oscura e dell’infinito condivide la natura”. Ma quella sofferenza muterà ulteriormente la sua natura allorquando entrerà, in modo improvviso e inatteso, nella vita di Haggard, James, il figlio di Fanny, portato dal destino, tre anni dopo, a vivere lì dove viveva Haggard. Quella sofferenza trascenderà se stessa e si trasformerà in qualcosa di fatale.
Quell’amore soffocato dagli eventi, e ridotto a culto di se stesso riesploderà in Haggard nel tentativo di rivivere attraverso James l’amore per Fanny. Haggard proverà verso James un’attrazione, come se amando e proteggendo James egli potesse di nuovo amare e proteggere Fanny. Come in un ultimo, estremo rigurgito, fino ai limiti del feticismo, di quella bruciante passione. La quale, se pure ormai al culmine della sua impotenza, come un male senza rimedio, come una degenerazione di se stessa, si rivelerà, anche in quel suo stadio – dove, di nuovo, malattia e morte prevarranno – ancora spietatamente viva.