Francesco Orlando, ne “Il soprannaturale letterario. Storia, logica e forme”, in cui sono raccolte una serie di sue “lezioni” sul concetto di “soprannaturale letterario” con cui amplia le precedenti teorie sul “fantastico”, ci fornisce le coordinate di quelle teorie, dalle quali egli stesso prende le mosse. A partire dalla nota distinzione tra “Il fiabesco” e “Il fantastico” così come definiti prima da “…Roger Caillois già nel 1958”(1), poi da Tzvetan Todorov che sistematizzò tali concetti nel suo ormai famoso studio “Introduzione alla letteratura fantastica”.
E, di quella fondamentale distinzione, Orlando ne ritraccia, in estrema sintesi, il contenuto nei seguenti termini:”Diversamente dalle fiabe, dove i personaggi si inoltrano in spazi separati dalla vita quotidiana e nei quali tutto è possibile, la prima scena di una narrazione che chiameremmo fantastica può essere perfettamente identica, per ambientazione, tipo di personaggi e gestione del racconto, alla prima scena di una storia realistica. Perché ci sia fantastico è necessario che dentro un contesto quotidiano si produca lo scandalo, la lacerazione, l’ irruzione insolita, una frattura che alla fine sarà più o meno rimarginata perché la vita continui come prima…. E’ come se una porta…si aprisse…facendo irrompere qualcosa di prodigioso, a condizione però che essa si richiuda subito e rimanga in dubbio se sia veramente aperta o no.” (2)
In successione poi, nell’individuare il periodo di massima fioritura del genere, ne fissa i confini in senso temporale, indicando, di quei confini, i suoi più importanti e rappresentativi interpreti: “…i maggiori maestri del genere sono tutti nati tra gli ultimi decenni del Settecento e i primi dell’ Ottocento, dal 1776 di Hoffmann, al 1809 di Poe e Gogol’”. (3) Abbiamo quindi, con tutta evidenza, all’interno di una precisa definizione e collocazione del “fantastico”, la presenza di Gogol’ come uno dei suoi “maggiori maestri”, al punto da essere, per Orlando, autore cardine di quello che è stato il periodo di massimo splendore del genere.
E, nel solco di questo inquadramento, suonano quanto mai appropriate e ad ulteriore conferma le parole di Italo Calvino quando, nella sua introduzione alla raccolta “Racconti fantastici dell’ Ottocento”, da lui curata, afferma: “Nella letteratura russa l’influsso di Hoffmann dà frutti miracolosi come i “Racconti di Pietroburgo” di Gogol’.”(4) Ascrivendo quindi anche Calvino, a pieno titolo, l’opera di Gogol’ alla letteratura fantastica lungo quell’asse che parte da Hoffmann e attribuendo altresì a “I racconti di Pietroburgo” un valore specifico, facendo intendere che essi sono il testo più altamente e squisitamente “fantastico” di Gogol’.
Ma il valore dei racconti fantastici di Gogol’ è tale non solo in sé ma anche per il lascito che essi hanno avuto nella successiva letteratura russa. A partire dall’ormai leggendaria affermazione di Dostoevskij, quando disse: “Siamo tutti usciti dal Cappotto di Gogol’”. E ciò non solo perché quel racconto è, fra i “Racconti di Pietroburgo”, quello che avrà anche il merito di introdurre la letteratura degli “umiliati e offesi” nella letteratura russa, ma perché con quel racconto, e non solo con quello, Gogol’ dà vita a quello sdoppiamento della realtà e delle cose che porterà, nel caso di Dostoevskij, ai sosia e agli uomini del sottosuolo e, più in generale, a rendere possibili quei meccanismi di alterazione della realtà che finiscono per prendere il sopravvento, diventando più potenti della realtà, come accade, per esempio, in Bulgakov, sicuramente il più gogoliano erede novecentesco di Gogol’.
Venendo nel merito, conta prima di tutto dire che i “Racconti di Pietroburgo”, così come li conosciamo, costituiti come essi sono dai cinque racconti che li compongono e cioè: “La Prospettiva Nevskij”, “Il ritratto”, “Il diario di un pazzo”, “Il naso” e “Il cappotto”, sono l’esito di una scelta avvenuta postuma che ha unito sotto quel titolo, anch’esso postumo, racconti che Gogol’ scrisse e pubblicò separatamente. I primi tre uscirono nel 1835 all’interno di una raccolta di saggi e novelle a cui Gogol’ aveva dato come titolo “Arabeschi”. Successivamente nel 1836 fu pubblicato “Il naso” ed infine nel 1842 uscì “Il cappotto”. Ora l’averli uniti è stato dettato dall’avere essi in comune l’elemento più immediato che li accomuna e cioè l’ambientazione pietroburghese. Ma, come afferma Serena Vitale, ciò non è stata una scelta “…solo di comodo: la vera protagonista di questi racconti, in ultima analisi, è la stessa Pietroburgo.” (5)
E ciò perché al di là di essere il luogo narrativo di questi racconti Pietroburgo, per Gogol’, conteneva in se stessa, nella sua natura, nella sua storia e nella sua vita, i significati e i vissuti di ciò che Gogol’ voleva dire e rappresentare, divenendone, in quanto portatrice, simbolo. Nelle battute finali de “La Prospettiva Nevskij” – racconto che più di tutti si sofferma sulla città, attraverso la descrizione quanto mai dettagliata e pungente del “Corso Nevskij” e dei suoi frequentatori durante l’ intero arco della giornata – Gogol’ dice: “Oh, non credete alla prospettiva…Qui tutto è inganno, tutto è illusione, tutto è diverso dalle apparenze”. Ad intendere che dietro lo splendore e la grandezza, la vivacità e la gaiezza di quel Corso e dell’intera città, divenuta Mito di se stessa, si nascondono dimensioni e realtà altre e diverse a partire, prima di tutto, dalle mitiche e terribili origini che Pietroburgo ebbe: “…nata su paludi, sopra le ossa di migliaia di schiavi immolati all’orgoglioso sogno dell’imperatore, “inventata” da Pietro il Grande per farne il centro di una rigida, mostruosa organizzazione burocratica sul modello della gerarchia militare” (6)
Ma se le origini sono il peccato originale, Pietroburgo aveva effettivamente in sé, a detta di Vladimir Nabokov – così come egli racconta nel suo libro su Gogol’ – un che di irreale, dal quale Gogol’, secondo Nabokov, fu attratto: “Pietroburgo aveva un che di irreale…Nessuna meraviglia, quindi, che Pietroburgo abbia rivelato appieno la propria singolarità, quando il russo più singolare di tutta la Russia ne percorse le strade…Pietroburgo, infatti, era proprio questo: un’immagine riflessa in uno specchio appannato, un guazzabuglio arcano di oggetti adoperati alla rovescia, cose che, quanto più rapidamente avanzavano, tanto più arretravano”(7)
Pietroburgo perciò, gravida di quella sua cupa vicenda simbolica, e avvolta in quelle strane atmosfere irreali, diventa, agli occhi visionari di Gogol’, metafora di quel mondo alla rovescia che egli intendeva rappresentare. Dove non è più solo Pietroburgo ma il mondo stesso a contenere un doppio che si cela dentro e dietro le apparenze del reale. Accade così che il verificarsi di uno scandalo, di una lacerazione, di un’ irruzione insolita, scardina il corso delle cose e getta i protagonisti dei racconti in situazioni che diventano, per loro, contrassegnate da un contenuto di follia di cui non riescono a farsene una ragione o a darsene una spiegazione, finendo per diventare essi stessi folli al punto, nei casi più “disperati”, di morirne.
Tutti i cinque racconti – coerentemente all’impianto del racconto fantastico, così come descritto da Francesco Orlando – hanno un’ impostazione che “per ambientazione, tipo di personaggi e gestione del racconto” è del tutto aderente “alla prima scena di una storia realistica”. Gogol’ infatti colloca storie e personaggi in contesti assolutamente reali e quotidiani, a partire dalle descrizioni degli specifici luoghi all’interno della città dove egli fa muovere i personaggi, i quali, a loro volta, sono descritti per ciò che essi concretamente sono e fanno. In questo senso è possibile individuare almeno due “tipologie” prevalenti fra i protagonisti dei diversi racconti. Una è quella dell’artista e in particolare quella del pittore. L’altra è quella dell’ impiegato, del funzionario statale, partecipe e al tempo stesso vittima dell’ apparato burocratico. Alla prima tipologia appartengono i pittori Piskarëv e Čartkòv protagonisti rispettivamente de “La Prospettiva Nevskij” e “Il ritratto”, alla seconda i personaggi dell’impiegato ministeriale Proprìščin, dell’ “assessore di collegio” Kovalèv e del funzionario ministeriale Akàkij Akakièvič protagonisti rispettivamente de “Il diario di un pazzo”, “Il naso” e “Il cappotto”.
Ora, se alla base del racconto fantastico vi è, come abbiamo visto, la logica del contrasto fra le cose nella loro apparente realtà e ciò che, spiazzandole, le destabilizza, la scelta da parte di Gogol’ di queste due “tipologie”, nonché dei modi con cui le declina narrativamente, favorisce proprio l’emergere di quel contrasto. In questo senso la prima delle due “tipologie”, cioè quella dell’artista, consente a Gogol’ di mettere a fuoco il tema del conflitto fra ideale e reale e di come il Male possa penetrare nel Bello, stravolgendolo e sottomettendolo: al demone del danaro, come accade ne “Il ritratto”, oppure, ancor più cinicamente, alla prosaicità dell’esistenza, come accade ne “La Prospettiva Nevskij”.
In questi racconti la “volgarità” del mondo si contrappone all’artista sognatore e idealista, finendo, i due personaggi che incarnano questa condizione, travolti dallo smarrimento e dallo sgomento a cui li condurrà l’aver visto delusi e traditi i loro ideali di Bellezza. E queste rotture, questi scarti, determinati dallo scoprire ciò che le apparenze nascondono, trasportano le vicende narrate e i loro protagonisti, da un clima fervido di attese e di successi ad un altro, convulso ed alterato, per effetto dei disinganni patiti, tale da produrre reazioni di vero e proprio impazzimento così come accadrà sia a Piskarëv che a Čartkòv. L’evento ingannatore assumerà così le caratteristiche di un vero e proprio evento fantastico, per la sua natura inattesa e per la carica lacerante che esso avrà.
Ancor più realistico è il contesto dell’ ambientazione “ministeriale” in cui le logiche della sottomissione e dell’ossequiosità, della mortificazione e dell’umiliazione, dell’apparire e del sembrare, porteranno i protagonisti dei relativi racconti a subire tutte le possibili ripercussioni di quella loro situazione a cui cercheranno, ognuno a modo suo e con diversi esiti, che andranno dal tragico al tragicomico, di trovare una soluzione, un’ illusione, un riscatto, senza però riuscire ad essere realmente padroni di quei tentativi, che prenderanno pieghe indipendenti dalla volontà dei loro artefici.
Ora queste contestualizzazioni “ministeriali” – che sembrano essere un atto d’accusa contro quella bieca e onnipresente burocrazia, strumento del regime zarista – hanno generato il fraintendimento e l’ equivoco di un Gogol’ interprete di un realismo a tendenza sociale, votato cioè a denunciare la disumanità di quel sistema oppressivo. In realtà Gogol’ ha adoperato quelle ambientazioni proprio per poter esasperare ancora di più l’irrompere dell’elemento irrazionale all’interno di quello reale, per evidenziare l’eccezionale e lo straordinario, per esaltare l’elemento grottesco, anomalo e deformante. In questo senso sono particolarmente significative le affermazione che fa Nabokov a proposito de “Il cappotto”, il racconto in cui il tema della dignità umana offesa dalle umiliazioni e dalle vessazioni dell’ambiente burocratico è più presente: “Il cappotto di Gogol’ è un incubo grottesco e torvo…In tale racconto, il lettore superficiale scorgerà solo i lazzi di un buffone stravagante, il lettore serio darà per sottinteso che intenzione primaria di Gogol’ sia stata quella di denunciare gli orrori della burocrazia russa. Ma né la persona che intende farsi una buona risata, né quella avida di libri “che fanno pensare” comprenderanno di che cosa parli Il cappotto.” (8)
In tutte queste ambientazioni Gogol’ “usa” quindi il contesto realistico per poter, con più evidenza e forza, generare, per contrasto, quell’elemento “folle” che interviene a determinare la dimensione “fantastica”, introducendo nella narrazione un evento inatteso e singolare che avrà conseguenze emotivamente violente, tali da sovvertire le vite dei protagonisti. Nel “leggere” i singoli racconti merita perciò soffermarsi sul come avviene l’irruzione dell’inatteso e sugli effetti che esso produce, tali da far assumere al racconto una dimensione fantastica.
Ne “La Prospettiva Nevskij” l’ irrompere dell’inatteso si materializza quando un giorno – mentre si trova proprio sul Nevskij Prospekt – al pittore Piskarëv appare una bellissima fanciulla, ai suoi occhi pura e celestiale, che incarna il suo ideale di bellezza. Riuscirà ad avvicinarla avendo, peraltro, la stessa fanciulla assecondato Piskarëv in tal senso. Finché, trovatosi a tu per tu con lei, scopre che l’affascinante fanciulla è, in realtà, una comune prostituta, né “pentita”, né tormentata dall’esserlo. Tanto che rifiuterà l’ingenua offerta di Piskarëv di sposarla. Il contrasto, fra l’incanto che quell’apparizione aveva suscitato al pittore e la cruda verità che egli scopre, introduce nel racconto un elemento di cupa irrealtà, risultando al protagonista quella verità spaventosa e folle, incapace, come egli sarà, di farsene una ragione e venendone totalmente destabilizzato. Come se un maleficio avesse architettato e generato quello sdoppiamento tra l’apparire e l’essere, svelando la fanciulla una sorta di suo doppio. Il sogno infranto annichilisce Piskarëv che, in balia di se stesso, si toglierà la vita. La morte chiude quindi la porta alle spalle del protagonista e, con la sua scomparsa, tutto scomparirà.
Qui il trattamento fantastico consente a Gogol’ di svelare gli inganni che la realtà cela, rivelandoci come essa possa dimostrarsi più potente della spiritualità. Facendo infatti scontrare rapimento estatico e trivialiatà, nel momento in cui la seconda trionfa, Gogol’ ci mostra come la Bellezza possa essere deturpata da una prosaicità disarmante e cinica, rivelandosi quindi effimera ed ingannatrice. Dirà infatti Gogol’ a un certo punto del racconto: “La bellezza produce dei veri miracoli. Tutti i difetti spirituali, invece di causare repulsione, in una bella donna diventano, chissà perché, straordinariamente attraenti; il vizio stesso in esse emana leggiadria.” Una sorta di Male oscuro si può quindi annidare nella Bellezza femminile – assunta qui da Gogol’ come una delle manifestazioni esemplari della Bellezza – finendo per soggiogare sia colei che la possiede sia colui che l’ammira.
Anche “Il ritratto” si muove nello stesso solco de “La Prospettiva Nevskij” facendoci vedere come una dimensione materiale: in questo caso quella del danaro, possa invadere un ambito di per sé improntato alla Bellezza quale quello dell’arte, inficiando la creazione artistica. Čartkòv , pittore di talento, convintamente votato alla sua realizzazione come artista, si troverà alla mercé di un “irruzione fantastica” che gli cambierà la “carriera” e la sua stessa vita, portandolo alla distruzione. Un giorno, per caso, acquista da un mercante un vecchio quadro raffigurante il ritratto di un anziano i cui occhi, terribili e fiammeggianti, sembrano vivi. E infatti il pittore la notte sogna, in modo vivido e potente, che il quadro si anima, che il vecchio lo fissa intensamente con quei suoi terribili occhi e che, uscito dalla cornice, gli getta un rotolo di monete. E a Čartkòv – svegliatosi da quel sogno che gli si è impresso profondamente come se il vecchio lo avesse stregato – accade, in modo del tutto fortuito, che dall’interno della cornice di quel quadro “caschi” ai suoi piedi un rotolo di monete, lì nascosto e simile a quello che gli era apparso in sogno.
Attratto dalle prospettive che quelle monete gli offrono Čartkòv, che fino a quel punto aveva vissuto nelle ristrettezze, decide di aprire uno studio e di mettersi sul mercato. Sarà travolto da un successo inatteso e inebriante ma che ben presto gli si ritorcerà contro. Sarà infatti fagocitato da una clientela di cui finirà per assecondare, in modo sempre più frenetico, le richieste, che sono però di maniera e alla moda, estranee a qualsiasi ricerca artistica. Čartkòv finisce così circuito dal danaro e dal successo, fino a quando, un giorno, vedendo un’opera sublime di un suo vecchio compagno si accorge di avere ormai perso il suo talento e che non sarà mai più l’artista che avrebbe voluto essere. Sprofonderà in una caduta senza rimedio che lo porterà dalla rabbia ad una cupa follia ed infine ad una nera morte.
Il quadro raffigurante il vecchio – che era poi un vecchio usuraio che aveva soggiogato un pittore, anch’egli di talento, affinché lo dipingesse in modo talmente realistico da poter continuare ad “esistere” anche dopo morto – continuerà a circolare, destinato a rilasciare ancora i suoi malefici. Ma la vicenda di Čartkòv finirà con lui, senza alcun riconoscimento, né consacrazione, di fatto dimenticato. Čartkòv pagherà quindi duramente il suo sdoppiamento, avendo sostituito alla sua natura di vero artista quella “commerciale” ed effimera nella quale è rimasto intrappolato, vittima del demone del danaro che il vecchio usuraio gli ha instillato.
Un vero e proprio escamotage fantastico – quale quello del quadro che si anima e dell’effige che lo abita – nella più classica tradizione hoffmaniana e, più in generale, romantica, consente qui a Gogol’ di affrontare il tema dell’autenticità in rapporto con la finzione artistica. Sia infatti Čartkòv che asserve la sua arte alla vanità degli altri, sia il pittore che si è fatto soggiogare dal vecchio usuraio, non riescono a mantenere fede alla loro autenticità finendo entrambi per venire dominati dalla loro stessa arte. Sono quindi l’artificio e l’artefatto, forme degeneri della finzione, ad avere il sopravvento, laddove all’ideale si contrappone un reale spietato e dominatore e l’arte, intesa come Bello, diviene preda di un Male che la uccide.
Pertanto, con riferimento ad entrambi i racconti, si può osservare come il vedere (l’ affascinante fanciulla), la visione (del quadro del vecchio usuraio) e quindi la forza delle immagini di cui, sia Piskarëv che Čartkòv, in virtù proprio della loro arte, dovrebbero essere conoscitori avveduti e avvertiti, finisce per tradirli, ritorcendosi contro di loro e rivelando tutto il suo potere ingannatore, perturbante e manipolatorio, tutta la sua “appariscenza”.
Passando agli tre racconti – nei quali i protagonisti sono emanazione di quell’ apparato burocratico ingessato dalle gerarchie e teso alla sottomissione – l’elemento fantastico assume, in modo marcato, le declinazioni dell’assurdo. Gogol’, in questi racconti, fa infatti ricorso a invenzioni narrative a loro modo “gratuite”, dando libero corso all’irrazionale più puro. In tal modo egli esaspera il contrasto tra la rigidità del sistema e ciò che vi fa irrompere al suo interno. Quello che opera in questi racconti è un fantastico che sa di matto, di stravagante, di anormale, nel quale i protagonisti finiscono risucchiati. Laddove Gogol’, come un abile burattinaio, li muoverà e ne deciderà i destini.
Il racconto che più accoglie e realizza questa modalità è sicuramente “Il naso”, in cui Gogol’ attua un fantastico “spregiudicato” e visionario. Come accade ne “La metamorfosi” di Kafka anche ne “Il naso” veniamo gettati di colpo, sin dall’inizio, di fronte ad un dato di fatto “inaudito” di cui, come lettori – ma ciò vale anche per il protagonista – dobbiamo prendere atto senza potercene dare alcuna spiegazione. Una mattina infatti “l’assessore di collegio” Kovalèv si sveglia e scopre di non avere più il suo naso. L’evento fantastico irrompe quindi prepotentemente sulla scena. Esso non è l’esito di una “scoperta” a cui si giunge progressivamente come nei precedenti racconti. Qui non c’è un disvelamento che fa vedere le conseguenze “traumatiche” che la realtà, nella sua apparente normalità, serbava. Ne “Il naso” il “trauma” fantastico c’è tutto e subito, è già evidente e, come osserva Italo Calvino, “…qui Gogol’, s’infischia felicemente d’ogni logica, più ancora di Hoffman”.(9) Perché non solo Kovalèv si ritrova senza naso ma, a sua volta, il naso se ne va inopinatamente e tranquillamente in giro per Pietroburgo in uniforme da alto ufficiale.
Quindi, come succede a Peter Schlemihl, il protagonista della famosa novella di Chamisso, che “vende” la propria ombra al diavolo e si trova costretto a vivere senza una parte di sé, scoprendo quali “disavventure” questo gli comporterà, anche Kovalèv si troverà senza una parte del suo corpo che, staccatasi da lui, agisce indipendentemente da lui. Ma la situazione creata da Gogol’ è, in realtà, ancora più esasperata e folle in quanto Kovalèv non ha alcuna responsabilità diretta riguardo alla perdita del suo naso e quindi non sa darsene una spiegazione. E poi, soprattutto, il naso assume vita propria e viene fatto muovere da Gogol’ attribuendogli il pieno possesso delle facoltà umane. Al punto che all’esterrefatto Kovalèv che incontra il suo naso in giro per Pietroburgo – mentre è alla sua disperata ricerca – e gli si rivolge dicendogli. “…voi siete il mio naso”, questi gli risponde imperturbabile: “Vi sbagliate, egregio signore. Io sono per mio conto. Inoltre fra noi non può esservi alcuna stretta relazione. A giudicare dai bottoni della vostra uniforme, voi dovete prestar servizio in un’altra amministrazione. Ciò detto, il naso si voltò”
Il tema gogoliano dello sdoppiamento qui raggiunge esiti multipli dato che si realizza un vero e proprio sdoppiamento di piani su vari livelli. Intanto perché in un’ambientazione assolutamente reale quale quella che Gogol’ dà al racconto, che si svolge in giro per la città, a contatto con luoghi e persone reali, egli introduce un piano di assoluta irrealtà facendo coesistere razionale ed irrazionale tra loro. Vi è poi lo sdoppiamento di cui è vittima Kovalèv che si trova una parte di sé che si autonomizza e si interfaccia con lui, diventando così vera ed autorevole da lasciarlo completamente confuso. Alla perentoria risposta del naso infatti: “Non sapendo che fare e che altro pensare Kovalèv si confuse del tutto”. Determinandosi quindi in Kovalèv, oltre che una scissione del suo corpo, anche una scissione dentro il suo sé. Va poi sottolineata l’alterigia del naso che fa capire a Kovalèv di possedere un rango a lui superiore, date le diverse “divise” che indossano. Kovalèv quindi, in termini di status, si viene a trovare in una posizione inferiore al suo naso, venendo messo dal naso in soggezione e finendo per essergli gerarchicamente sottomesso e restarne, ancora una volta, separato.
Tutto ciò condurrà Kovalèv a sentirsi depauperato del proprio potere e della propria dignità, caduto nel ridicolo e perciò impossibilitato a frequentare “la società”. Kovalèv in altre parole si preoccuperà più delle “apparenze” sgradevoli, per non dire deplorevoli, che la perdita del naso può procurargli, che dell’ amputazione in sé che gli è capitata, affrontando Gogol’, anche in questo racconto, il tema dell’apparire e di come l’apparire finisca per nascondere e mascherare l’essenza e la realtà delle cose. Kovalèv cercherà varie “soluzioni” per rientrare in possesso del suo naso ma oltre che grottesche e assurde esse risulteranno per Kovalèv avvilenti e, soprattutto, vane ed inutili perché egli resterà, fino alla fine, ostaggio degli eventi.
E, alla fine, si sdoppierà pure il piano della natura di questo mistero che accade ne “Il naso”. E cioè se esso debba essere circoscritto e considerato un fatto unico ed irripetibile o se il mistero, in quanto tale, interessa e permea il mondo intero e questa del naso è stata solo una delle sue manifestazioni, come Gogol’ stesso alla fine del racconto ci dice: “Al mondo succedono le cose più inverosimili. Talvolta manca persino la minima ombra di verosimiglianza: improvvisamente quello stesso naso che era andato in giro con il grado di consigliere di stato…come se niente fosse si trovò di nuovo al suo posto, ossia precisamente fra le due guance di Kovalèv…Svegliatosi e rivolta senza pensarci un’occhiata allo specchio, che cosa vide? Il naso! L’afferrò con una mano: era proprio il naso!…Ecco dunque quale storia accadde nella nordica capitale del nostro vasto stato! Ora soltanto, considerando tutto, vediamo che in essa c’è molto d’inverosimile. Per non dire del fatto che il distacco soprannaturale del naso e la sua comparsa in vari luoghi sotto le spoglie di un consigliere di stato è una cosa troppo strana…ma la cosa più strana, più incomprensibile di tutte è che degli scrittori possano dedicarsi a simili argomenti, Lo riconosco, questo è davvero inconcepibile…semplicemente non so che mai significhi tutto questo…E tuttavia…dov’è che non si verificano delle cose inverosimili? E a rifletterci bene, in tutto questo davvero qualcosa c’è. Si può dire quello che si vuole, ma simili avvenimenti al mondo accadono, di rado, ma accadono”
Il racconto si conclude quindi nel rispetto del canone del genere, chiudendosi con un ritorno alla normalità che ristabilisce l’ordine delle cose: dal disordine di quel risveglio senza naso si ritorna, inopinatamente, all’ordine di quella mattina in cui Kovalèv si sveglia con addosso il suo naso e perciò, riprendendo la definizione di Francesco Orlando, la “frattura alla fine sarà più o meno rimarginata perché la vita continui come prima”. Resta però quell’impressione di “gratuità” che Gogol’ non dissipa, alimentandola lui stesso. Kovalèv infatti non determinerà in alcun modo lo svolgersi delle cose, venendo tutto dominato da una irrealtà a cui anche gli altri personaggi che appaiono sulla scena si presteranno e ne saranno partecipi. Ma di cose così, cioè di cose inverosimili ed inspiegabili – ci dice Gogol’ alla fine – nel mondo ne succedono e non c’è quindi da sorprendersi dell’inverosimiglianza di tutta questa storia
Ora, a differenza de “La metamorfosi”, in cui la terribilità della vicenda, così come “generata” da Kafka, incute raccapriccio, ne “Il naso” tutto si svolge sui toni dello scherzo, dell’invenzione, della provocazione grottesca e surreale, del ritmo tragicomico. Siamo insomma dalle parti di un teatro dell’assurdo che esalta l’irrazionalità assoluta della vicenda. Ed è proprio di questa irrazionalità, che è nel mondo e nelle cose, che ci parla Gogol’ in questo racconto che resta, così come lo ha definito Serena Vitale, “una dilatazione iperbolica di un non senso surreale”. (10)
Per il suo contenuto di follia il racconto che più si avvicina a “Il naso” è “Il diario di un pazzo”. In questo racconto tutto è sopra le righe, il caos impera e il predominio dell’irrazionale raggiunge il suo culmine. Qui Gogol’ mette in scena un’alterazione della realtà che si fa essa stessa realtà, attraverso un esplicito protagonismo della follia giacché, come ci dice già il titolo, questo è il diario di un pazzo. Ma tuttavia, anche in questo racconto, in cui la follia è manifestamente dichiarata, essa prende piede e cresce dentro un ben preciso contesto di realtà al quale il racconto è ancorato.
Proprìščin che è il “pazzo” protagonista del racconto è, per la verità, un impiegato ministeriale del quale, dal suo stesso diario – giacché in forma di diario Gogol’ svolge il racconto – veniamo a conoscenza del tormentato e insofferente rapporto che egli ha con superiori e colleghi di cui subisce, in modo frustrante, le angherie. Vi è quindi una latente ribellione in Proprìščin che resta però tutta confinata dentro di lui. Solitudine e isolamento sono il suo retroterra esistenziale ed egli vive chiuso in un suo mondo nel quale andrà sempre più alla deriva. In un crescendo che lo porterà a smarrire ogni logica, come rivelano le date del suo diario che diventano via via segni sempre più illeggibili e incomprensibili.
In questo senso, come ha scritto Rita Giuliani, “Il personaggio di Proprìščin, impiegato sottomesso e ossequioso, mortificato da colleghi e superiori, è uno dei primi “umiliati e offesi” delle lettere russe…e precede di qualche anno il più celebre Akàkij Akakièvič del Cappotto…La [sua] pazzia diventa non solo fuga da una realtà di sofferenza, ma anche riscatto, rivalsa, mezzo per affermare la propria misconosciuta grandezza.” (11) Proprìščin infatti si rifugerà nella sua “psicosi” creandosi un suo personale mondo fantastico totalmente “scollato” dalla realtà ma, nel quale, finirà, se pur illusoriamente, per affermare se stesso.
Tuttavia, pur sullo sfondo di un contesto quale quello descritto, assolutamente reale e realistico, dove la follia già cova e, in un certo senso, preesiste all’irruzione di qualcosa che la possa creare, anche in “Diario di un pazzo” c’è un innesco “fantastico” che dà impulso alla follia di Proprìščin e la scatena in modo decisivo. Essa infatti, come rileva Rita Giuliani, “…esplode in concomitanza con un’impossibile passione d’amore per la bella figlia del direttore” (12) Vista infatti una mattina, sulla Prospettiva Nevskij, la figlia del suo direttore scendere da una carrozza Proprìščin ne resta ammaliato: “Il lacché ha aperto gli sportelli e lei è svolazzata fuori dalla carrozza come un uccellino. Che occhiate ha dato a destra e a sinistra, che balenio di ciglia e di occhi…Signoriddio! Ero perduto, completamente perduto”
E da quel momento inizia da parte di Gogol’ una vera e propria girandola di invenzioni con cui descrive, in modo minuzioso ed ossessivo, le maniacali allucinazioni che Proprìščin avrà e trascriverà. A partire dalla prima di esse che verrà apertamente ripresa da Bulgakov in “Cuore di cane” e cioè quella di far parlare dei cani. Il contrasto fra l’assurda e assoluta irrealtà in cui sprofonda Proprìščin, nella quale egli coltiva le sue ingenue e folli illusioni e gli spezzoni di realtà opposti a quelle illusioni che egli stesso registra, alimenta l’irrazionalità “fantastica”del racconto. Laddove Proprìščin si crea sempre di più un mondo capovolto come quando fa, nel suo diario, questa annotazione: “Consiglio a tutti di provare a scrivere su un pezzo di carta <<Spagna>>: verrà fuori <<Cina>>.” In cui, come osserva Rita Giuliani, “… siamo davanti non solo a un pezzo di bravura di geografia fantastica, ma anche a un “capriccio” simile ai quadri reversibili dell’Arcimboldo, quelle composizioni che, ruotate di 180 gradi, mostrano un diverso soggetto.” (13)
In realtà Gogol’, con queste figurazioni, ci trasmette ancora una volta, la sua visione dicotomica del mondo, ricorrendo sistematicamente – come abbiamo sin qui visto – alla figura del doppio e alla creazione di situazioni di sdoppiamento che, nel caso di Proprìščin, si realizzeranno direttamente dentro la sua mente lacerata. Basti dire che, a un certo punto, si autoproclamerà Re di Spagna e, come tale, si presenterà ai suoi superiori. Ormai vittima della sua pazzia verrà rinchiuso e sottoposto a trattamenti la cui brutalità, da lui stesso descritta in modo straziante e delirante, dà al racconto una conclusione cupa e disperata. Risultando alla fine “Il diario di un pazzo” un racconto sulla distruzione di un individuo destinato a scomparire come se fosse già morto. E qui vengono in mente le parole di Serena Vitale quando, parlando della natura di questi racconti, rileva in essi la presenza di “…significati di morte, di non-essere che si celano dietro l’apparente gaia, vitale, formicolante figurazione gogoliana” (14)
Laddove – come abbiamo visto – la morte, il venire espropriati della propria identità, la disumanità sono presenze tangibili in questi racconti e rivelano la complessa personalità di Gogol’ che viveva lui stesso, dentro di sé, una duplicità che lo accompagnerà fino alla morte, vittima, come egli sarà di una “crisi” basata proprio sul conflitto fra istanze esistenziali, religiose, intellettuali tra loro opposte che lo segnerà mortalmente. Satira e compassione, visionarietà e disperazione, tragico e comico convivono perciò stabilmente in Gogol’ essendo espressione di quei “…due poli dell’atteggiamento di Gogol’, sempre oscillante tra pietà e ironia nei confronti dei suoi personaggi”(15). E se questo ha già una sua visibilità nei racconti sin qui considerati, esso diventa assolutamente evidente ne “Il cappotto” in cui le istanze proprie della letteratura degli umiliati e offesi sono pienamente compresenti con quelle tipicamente fantastiche ed irrazionali.
“Solo se lo scherzo era troppo insopportabile, se gli davano un colpo sul braccio disturbandolo nel suo lavoro, esclamava: <<Lasciatemi stare, perché mi offendete?>> E c’era un che di strano nelle parole e nella voce con cui venivano dette. Vi si avvertiva qualcosa che induceva alla compassione”
Questo brano sintetizza la vicenda e la condizione di Akàkij Akakièvič (A.A.), il protagonista de “Il cappotto”. In quelle parole c’è un appello che A.A. rivolge ai suoi colleghi dell’ufficio ministeriale in cui è impiegato: che smettano di importunarlo e di irriderlo con quei loro scherzi. Perché, di solito, A.A è abituato a sopportarli quegli scherzi, tacitamente. Perciò quelle penose umiliazioni che gli vengono rivolte in modo volutamente offensivo sono ormai un’abitudine che ha reso A.A. una vittima sacrificale.
E, nel momento in cui indirizza loro quella domanda: “…perché mi offendete?”, egli rivela tutta la sua tragica debolezza, la sua impotenza, la sua inettitudine a reagire, opponendo quell’unica difesa e cioè fare appello alla pietà dei suoi persecutori perché lo lascino in pace. A.A. è quindi un umiliato ma lo è perché, fondamentalmente, egli è un umile che non chiede nulla al mondo, né nulla si aspetta. Perché egli non ha altro intento che fare quello fa: condurre la vita che conduce.
Copista di documenti A.A. svolge il suo lavoro con tale indefessa abnegazione e precisione che “E’ poco dire che egli prestava servizio con zelo; no, prestava servizio con amore” ci dice Gogol’ e poi ancora “…doveva essere venuto al mondo così, già pronto con l’uniforme e con la calvizie sulla testa”. A.A. è quindi un perfetto travet per nascita e per destino, chiuso e rinchiuso nel suo mondo: “Fuori dal copiare sembrava che per lui non esistesse niente”. Un uomo che fa del “servire” il suo scopo e che in esso trova la sua ragione di vita. Ma A.A. sebbene conduca quella sua misera, risicata, solitaria vita, estraneo, come egli è, a tutto e a tutti, ha viva, dentro di sé, una sua segreta e silenziosa umanità. Persino verso chi lo sottopone a quelle continue angherie A.A. non è capace di provare risentimenti o rancori, essendovi, ci dice Gogol’, l’echeggiare sottinteso di un significato : “Io sono un tuo fratello” quando egli chiedeva e si chiedeva : “…perché mi offendete?”
A.A. è quindi un innocente, un puro, un buono, estraneo al male in ogni sua forma, un uomo che pur “…disgraziato, vive in istato di grazia” – come ha scritto Clemente Rebora (16). Un uomo cioè che vive in una sua interiore ed intima armonia. Ma in chi, come A.A., conduce quella vita grigia e sottomessa in cui non accade nulla anche un piccolo avvenimento, che vi fa il suo ingresso, si trasforma inesorabilmente in un evento. Si può quindi comprendere perché farsi un cappotto nuovo, quale quello che scoprirà di doversi fare, assumerà per A.A. un’importanza straordinaria. Un fatto in sé comune e ordinario concentrerà e susciterà in A.A. energie enormi. Non solo perché dovrà fare fronte a preoccupazioni materiali per potersi “permettere” quel cappotto ma, soprattutto, perché quel cappotto diverrà per lui un simbolo, una ragione di vita, un’occasione di rivalsa e di rinascita, un sogno. “Da quel momento parve che la sua stessa esistenza si facesse in un certo senso più piena, come se si fosse sposato, come se qualche altra persona vivesse con lui, come se non fosse più solo, ma una gradita compagnia avesse acconsentito a percorrere al suo fianco il cammino della vita, e quest’amica non era altri, appunto, che quel cappotto…egli diventò anche più vivace, persino più fermo di carattere, come un uomo che s’è ormai stabilito e fissato uno scopo. Dalla sua faccia e dai suoi atti scomparvero il dubbio, l’indecisione, insomma, tutti gli aspetti oscillanti e indeterminati”
Vi è quindi una sorta di trasfigurazione in A.A. indotta dal suo cappotto, una nuova voglia di vivere che si trasmette anche all’esterno, finendo per venire ammirato anche da chi l’aveva sempre dileggiato, il giorno in cui si presenta in ufficio col suo nuovo cappotto. Un senso di rivincita, un’elevazione, una fiducia, inattese e insperate, si fanno strada in A.A., suscitandogli quella “…gaia disposizione di spirito” da lui prima mai conosciuta.
Ma come uno di quei disincanti che abbiamo visto fare il loro ingresso sulla scena anche qui accade un fatto che per A.A. avrà dell’inaudito. Mentre fa rientro a casa di notte, dopo aver festeggiato con colleghi e superiori il suo nuovo cappotto, viene aggredito e derubato del cappotto. Quella perdita si rivelerà per A.A. l’anticamera della perdita della sua vita. Egli si sentirà come se fosse d’improvviso divenuto completamente nudo, spogliato di tutto. Quella che era appena diventata la sua nuova ragione di vita si era già dissolta. E quello scacco già di per sé distruttivo sarà amplificato dalla mancanza di ascolto e di giustizia che A.A. dovrà patire da parte di coloro a cui si rivolgerà per ricevere aiuto. Definitivamente prostrato, annientato nel corpo e nello spirito, A.A. morirà di dolore: “Infine il povero A.A. spirò”.
La realtà perciò ancora una volta distrugge il sogno, il Male dissipa il Bene e la morte decreta la scomparsa del protagonista, come se non fosse mai esistito: “E Pietroburgo rimase senza Akàkij Akakièvič, come se non fosse esistito. Scomparve e si dileguò un essere che nessuno aveva difeso, che a nessuno era stato caro, per nessuno interessante, che non aveva attirato su di sé nemmeno l’attenzione del naturalista, il quale pur non disdegna di infilare su uno spillo una comunissima mosca e di osservarla al microscopio, un essere che aveva sopportato docilmente tutte le irrisioni del suo ufficio ed era sceso nella tomba senza aver compiuto alcuna straordinaria impresa; però, verso la fine della vita, a questo essere era apparso un ospite luminoso sotto forma d’un cappotto che per un istante aveva ravvivato la sua povera esistenza, ma sul quale poi s’era abbattuta implacabile la sciagura, così come si abbatte sugli imperatori e i sovrani del mondo.”
Ma qui, a differenza degli altri racconti, Gogol’ introduce un’inversione fantastica e, nello stesso tempo, non si esime, una volta ancora, dal creare un doppio e dall’agire uno sdoppiamento. La soluzione drammatica avrà infatti un suo rovescio, laddove con una “nemesi fantastica” Gogol’ farà ritornare in scena, come una sorta di vendicatore di se stesso, A.A., facendolo riapparire nelle vesti di un “fantasma” che deruba i passanti dei loro cappotti. A.A. trasformato in un essere immateriale si comporterà in modo ben diverso anzi del tutto opposto rispetto a come aveva fatto in vita, rivalendosi dei torti subiti. E quando avrà esercitato la sua ultima e più desiderata vendetta scomparirà per sempre.
Un finale assurdo e irrazionale capovolge il racconto mutandolo da realista e filantropico a racconto da humour nero, dove prevalgono la provocazione, l’irrisione, il rovesciamento, l’opposizione, agiti dal fantasma di A.A. Alla fine l’umanesimo e il sentimentalismo, l’intonazione patetica e compassionevole lasciano il campo a un fantastico liberatorio e sovversivo che ribalta il mondo e le cose. Ma così facendo Gogol’ mette a fuoco le sue due realtà quella tragica e terrena e quella ironica e grottesca del suo immaginario fantastico, dove alla razionalità del mondo visibile egli contrappone un’irrazionalità che ci fa percepire l’altra faccia del mondo, quella appunto assurda ed irreale, attraverso cui ci fa vedere tutta l’irrazionalità della vita. L’intrusione fantastica determinata dal fantasma di A.A. si manifesta quindi anche qui come un’irruzione insolita e prodigiosa che, dopo essere svanita, ci lascia di fronte al dubbio se essa sia mai veramente avvenuta o no.
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(1) Francesco Orlando – “Il soprannaturale letterario. Storia, logica e forme” – Einaudi – 2017- p. 3.
(2) F. Orlando, cit., p. 3,4
(3) F. Orlando, cit., p. 4
(4) Italo Calvino – “Introduzione” in I. Calvino – “I racconti fantastici dell’ Ottocento” – Vol. I – Oscar Mondadori – 1987 – p. 8
(5) S. Vitale – “Introduzione” in Nikolaj Gogol’ – “ I racconti di Pietroburgo” – Garzanti – 1988 – p. XIV
(6) S. Vitale cit., p.XV
(7) Vladimir Nabokov – “Nikolaj Gogol’” – Mondadori – 1972 – p.20
(8) V. Nabokov – cit., pp. 151,152
(9) I. Calvino – Nota introduttiva a “Il naso” in I. Calvino – “I racconti fantastici dell’ Ottocento” – Vol. I – Oscar Mondadori – 1987 – p. 189
(10)S. Vitale cit., p.XIV
(11) Rita Giuliani – “Introduzione” in Nikolaj Gogol’ – “I racconti degli <<Arabeschi>>” – Newton Compton – 1994 – p. 11
(12) R. Giuliani cit., p. 11
(13) R. Giuliani cit., p. 12
(14) S. Vitale cit., p.XV
(15) S. Vitale cit., p.XVII
(16) Clemente Rebora – “Annotazioni” in Nikolaj Gogol’ – “Il cappotto” – SE – 2006 – p. 77