“Tre croci” – Federigo Tozzi

Nel panorama della letteratura italiana del ‘900 Federigo Tozzi resta, per la gran parte del pubblico dei lettori, un autore poco o per niente conosciuto, considerato da molti un minore, la cui produzione è per lo più ignorata, pur a fronte della consacrazione ormai consolidata che la sua opera ha avuto, tanto da essere ormai annoverato, a pieno titolo, fra i grandi classici della letteratura italiana. Non è certo questa la sede per analizzare le cause di questa scarsa ricezione che l’opera di Tozzi ha avuto, tuttavia questo pregiudizio riduttivo su Tozzi è diffuso e – devo ammettere – io stesso non ne sono stato esente fino a quando, per merito della lettura di “Tre croci”, ho avuto finalmente modo di fare la mia personale “scoperta” di Tozzi. Ed è stata una scoperta sorprendente ed improvvisa che mi ha messo di fronte ad un autore capace di toccare corde profondissime con una immediatezza ed una forza assolutamente uniche ed originali.

Perché con uno stile asciuttissimo che non concede nulla Tozzi riesce, in realtà, a fare provare tutta la tensione e tutta la compassione che una vicenda come quella narrata in “Tre croci” suscita e a cui solo uno scrittore “potente” è capace di arrivare. Colpisce, in questo senso, la capacità di Tozzi di “scolpire” lo svolgersi degli eventi e i caratteri dei personaggi con una economicità di mezzi espressivi che, invece di ridurre, cattura ancor più l’attenzione rendendo totalmente partecipi. Che, nel caso di “Tre croci”, significa diventare partecipi di quella nevrosi autodistruttiva che travolgerà i protagonisti del romanzo e ne diverrà via via la nota dominante. Una nevrosi che si configura come una forza centrifuga che sfugge ad ogni controllo e che impedisce di organizzarsi, di trovare cioè un qualsiasi punto di riferimento al quale potersi ancorare.

E’ quel senso di perdita di un centro all’interno di se stessi che attraverserà molta letteratura europea del primo novecento e, non a caso, sono presenti nell’opera di Tozzi echi comuni a Svevo e Pirandello che, più di altri, nel nostro panorama letterario di quel periodo sono stati capaci di porsi al livello di quella dimensione europea. Tanto da far dire a Gianfranco Contini che “…è forse troppo limitativo considerare Tozzi il migliore narratore italiano del secondo decennio del Novecento”, periodo in cui si concentra infatti la sua produzione interrottasi bruscamente a causa della sua morte avvenuta a soli trentasette anni nel 1920.

Quindi, pur a fronte del carattere apparentemente provinciale e periferico della sua produzione ambientata, come essa è, nel ristretto mondo di quella Siena in cui egli nacque e crebbe, Tozzi si rivela, in realtà, autore di levatura europea e ciò proprio per questa sua “modernità” nel narrare aspetti “esistenziali” che, nella realtà del primo novecento, stavano venendo alla luce. Ne è testimone quella sua capacità di mettere a nudo i personaggi seguendoli lungo la loro dissoluzione, attraverso le loro contraddizioni e le loro pulsioni, le loro fragilità e inettitudini, le loro inadeguatezze e il loro spaesamento, fino alla inesorabile eclissi che è l’esito “annunciato” della loro vocazione al fallimento, come accade appunto ai protagonisti di “Tre croci”.

E in ciò, così come avviene in Svevo e Pirandello, Tozzi si rivela un grande interprete di quella frantumazione dell’io e di quella “crisi” dell’individuo che segnerà il novecento e che la grande letteratura di inizio secolo, penso per esempio alla grande letteratura mitteleuropea, rappresenterà ampiamente. E nel suo peculiare modo di rappresentare quella frantumazione e quella “crisi”, Tozzi evidenzia l’aspetto deformante e grottesco del modo d’essere dei suoi personaggi, ne esaspera la loro inconsulta aggressività, acuisce i legami contorti e tormentati che li legano, denuda quella sorta di farsa tragica all’interno della quale essi conducono la loro vita. Ma, al tempo stesso, riesce a farci condividere la pena, la sofferenza e l’impotenza che quei personaggi vivono, incapaci di uscire da se stessi e a cui è negato ogni possibile riscatto, trasmettendo, proprio col distacco di quella sua prosa scarna, acre ed amara, tutta la loro tragicità.

Che nasce proprio dal contrasto tra quell’attesa inerte che le cose accadano, ben sapendo che ciò porterà alla rovina, e la continua rimozione di ciò attraverso comportamenti compulsivi e ripetitivi nei quali ci si rifugia come a volere restare fuori dalla realtà, come se ciò che vi accade non dipendesse da chi in quella realtà vive. Non guardando, in altre parole, dentro se stessi e, perciò, fuggendo anche e soprattutto da se stessi. Ed è questa scissione, tra una realtà che incombe con tutta evidenza e il “fingere” di negarla nascondendosi ad essa, che produce quella nevrosi di cui si diceva e che condurrà a quel frangersi della volontà che segnerà il destino dei tre fratelli Gambi, i protagonisti del romanzo. I quali, in balia degli eventi, non avranno alcuna capacità di contrastarli, di sottrarvisi, di scansarli, non avendo la forza non solo di determinare il loro futuro, ma neanche di agire su di esso, destinati inesorabilmente soltanto a subirlo.

Quella nevrosi è quindi nei fatti, un dato oggettivo prima ancora che soggettivo, essa non è elaborata, nasce dall’attesa e nell’attesa di ciò che accadrà. E questa debolezza, questo senso di inazione nei confronti della vita e del mondo attraverserà le vite dei tre protagonisti e, con esse, tutto il romanzo. In questo senso i protagonisti di “Tre croci”appaiono totalmente “ingabbiati” e ciò non solo all’interno delle loro esistenze ma anche all’interno dei luoghi in cui si svolge la loro vita e cioè: Siena; la libreria di cui sono titolari; la casa in cui essi vivono. Risultando tali luoghi come una sequenza di scatole cinesi contrassegnate tutte da una dimensione claustrofobica e soffocante.

Lungi da qualsiasi idillio che ne richiami la sua indubitabile bellezza Siena, che in “Tre croci” fa da contenitore e da cornice delle vicende narrate, appare subito un luogo che non offre conforto, al quale non ci si può abbandonare per trovarvi rifugio o consolazione. Al contrario la città, così come descritta, trasmette un sentore di lutto e desolazione e la sua rappresentazione, geometrica e implacabile, petrosa e atona, sembra evocare certa pittura cubista ed espressionista: “Il vento frusciava nei giardini e negli orti, a piè delle case; dentro la cinta delle mura di Siena. Si sentiva chiudere qualche persiana, sbattendo; e c’era un piccolo eco affilato e rauco, che ripeteva pazientemente in fondo agli orti quel rumore; come se andasse ad appiattirsi laggiù; dove gli archi della fonte di Follonica s’interrano fino a mezzo, impiastricciati di muschi, che si sfanno con il tartaro dell’acquiccia. L’erta delle case, silenziosa, morta non sentiva le foglie di un gran tiglio, sotto la finestra della camera, staccarsi l’una dopo l’altra; senza che potessero smettere più…Le case alte e strette insieme danno un senso di angustia monotona; con i vicoli di Fontebranda come tanti baratri che lasciano vedere, lontana, una collina verde e intramezzata di cipressi neri…e Siena, in quel silenzio, quasi taciturno ma soave, sembrava tutta raccolta in se stessa e inaccostabile”

Una Siena quindi che evoca l’immagine di un’angoscia, la forma di un incubo e che, soprattutto, non concede alcuna libertà, né alcuna liberazione. E’ infatti un clima provinciale, gretto e maldicente quello che trapela, in cui tutti sanno tutto di tutti e nessuno può sfuggire alla chiacchiera e alle chiacchiere così come, a un certo punto, Tozzi fa dire al Cav. Nicchioli, apparente benefattore dei tre fratelli Gambi, in realtà colui che li abbandonerà al proprio destino. “Siena è fatta così, e nessuno ci cambierà, se Dio vuole! Anch’io, del resto, non vivrei volentieri a Siena se non fosse possibile conoscere quel che si desidera degli altri. Perché non mi piacciono le grandi città? Principalmente, perché io non potrei stare senza conoscere gli altri come me stesso. E’ una curiosità, che abbiamo nel sangue. E nessuno ce la leva. Anzi, io, le persone che non sono di qui, non ce le vorrei né meno! Che ci fanno? Stiamo bene tra noi; essendo tutti eguali e dello stesso seme.”

La città diventa quindi il paradigma di una prigione conforme a quella prigione interiore in cui i fratelli Gambi conducono la loro vita, simbolo, ma anche realtà concreta, di un mondo piccolo, chiuso, soffocante. D’altro canto il rapporto stesso di Tozzi con Siena fu profondamente conflittuale ed egli stesso la visse in modo assai tormentato, come emerge con tutta evidenza da questo brano tratto da “Bestie”, una raccolta di prose che fu la prima prova letteraria in prosa di Tozzi ad essere pubblicata, opera tra l’altro singolarissima e premonitrice delle opere successive: “La mia anima è cresciuta nella silenziosa ombra di Siena, in disparte, senza amicizie, ingannata tutte le volte che ha chiesto d’esser conosciuta…Basta che io mi ricordi di quelle mie tristezze perché mi sembri cattivo anche il cielo di Siena. Specialmente la sera soffrivo troppo, e non accendevo il lume per non vedere le mie mani; la tristezza stava sopra la mia anima come una pietra sepolcrale, sempre più greve; e mi sentivo schiacciato su la sedia. E avrei voluto morire… Città, dove la mia anima chiedeva l’elemosina, ma non alla gente! Città, il cui azzurro mi pareva sangue!”

Se la città fa da contesto, la libreria antiquaria che Giulio, Niccolò ed Enrico Gambi gestiscono nel centro di Siena è il luogo vero e proprio dell’azione, essendo fisicamente ed esistenzialmente il centro della loro vita. Essi l’avevano ereditata dal padre e per un po’ anche a loro aveva reso. Ma gli affari con il passare del tempo cominciano a non andare più bene: “Il loro padre era stato fortunato, e anch’essi da prima stavano bene, poi, a poco a poco la libreria aveva fruttato meno”. In realtà nessuno dei tre è in grado di dare impulso al commercio e, pur nella diversità dei loro caratteri, tutti e tre i fratelli si rivelano inadatti agli affari.

Giulio, sensibile, intelligente, colto è l’unico che si occupi realmente della libreria ma non ha la forza e l’energia per farsene carico come sarebbe necessario. Dovendo peraltro “gestire” gli altri due fratelli, la cui natura è contrassegnata da una palese inettitudine e da una litigiosità ossessiva venata di aggressività che Giulio deve continuamente contenere, mediando in quelle oziose ed inutili discussioni che insorgono tra Niccolò, che per lo più bivacca nella libreria, ed Enrico che vi passa a suo piacimento. Se Niccolò è fisicamente ma anche caratterialmente massiccio, essendo animato come egli è da una sorta di prorompente vitalismo che manifesta con quelle sue risate rabbiose e plateali, Enrico, invece, è perennemente incattivito e prepotente rendendosi insopportabile a tutti.

Tuttavia pur avendo quelle loro differenze e quella reiterata conflittualità vi è, tra i tre fratelli, una simbiosi che li lega e li accomuna basata sul non detto, quel non detto tramite cui essi nascondono vicendevolmente e a se stessi le loro reciproche debolezze. Ma quel non detto non è una scelta ma, ancora una volta, un dato di fatto perché, come è stato osservato “…i personaggi di Tozzi non spiegano e giustificano mai le loro azioni ma le enunciano e le realizzano rivelandosi strumento di forze ignote” ( C. Marabini – “Introduzione” in F. Tozzi – “Tre croci” – Rusconi – 1977). Non vi è infatti mai tra Giulio, Niccolò ed Enrico una sia pur accennata ammissione di quanto la situazione in cui essi sono abbia origine da loro stessi. Vi è anzi un atteggiamento che tende a spostare all’esterno e a non definire le cause e i motivi delle loro difficoltà. E Giulio che pure ha una profondità di sentire e una consapevolezza che gli altri due fratelli non hanno non affronta mai, né con i fratelli, né con alcuno quell’argomento. Ma, riflessivamente e dolorosamente, affida a quei suoi pensieri monologanti, che Tozzi sviluppa con una capacità introspettiva acutissima, la dolente quanto impotente presa di coscienza di quella “diversità” sua e dei suoi fratelli.

Perché Giulio comprende che l’incombente spettro del fallimento commerciale ed economico è l’anticamera del fallimento delle loro vite e con esse delle loro esistenze. E pur tuttavia quella simbiosi che fa da collante li fa andare avanti procrastinando la rovina che li attende e portandoli a divenire complici. Ciò allorché decideranno di falsificare la firma del Cav. Nicchioli che si era fatto, con la sua firma, garante di una cambiale e quella firma Giulio, in accordo con i fratelli, riprodurrà in altre successive cambiali. Scadenze, cambiali, firme false diverranno per i Gambi una spirale senza rimedio, continuando per contro a mantenere le apparenze e la vita di sempre, i cui atti e i cui riti assumeranno man mano tratti via via sempre più nevrotizzati.

E di ciò la più palese manifestazione è quella sorta di regressione orale che coinvolge quasi infantilmente i tre fratelli, rappresentata dal concedersi di continuo prelibatezze e manicaretti con cui soddisfare il loro appetito, in una ricerca compulsiva dei piaceri della gola, come Tozzi, a un certo punto, fa dire a Niccolò, il più grottesco su questo piano dei tre: “Perché io, da qui in avanti, più che ci s’avvicina all’abisso voglio mangiare e bere soltanto!”. Un edonismo vitalistico di fatto autodistruttivo ed ossessivo, un tentativo nevrotico di dimenticare la propria disperata condizione che diventa sostituto e rifugio rispetto ad uno stare al mondo in cui non vi è più niente che conti davvero.

Perché i tre fratelli – che vivono tutti insieme nella stessa casa con Modesta, la moglie di Niccolò, e le due nipoti Lola e Chiarina – non hanno neanche il conforto di una vera vita affettiva. Giulio ed Enrico non sono sposati e Niccolò, più che da una passione amorosa, è unito a Modesta dal fatto che ella lo accudisce come peraltro accudisce anche Giulio ed Enrico, non avendo peraltro Modesta nessuna voce in capitolo sulle scelte familiari. Insomma una via di mezzo tra una mamma e una serva premurosa. E’ quindi quello dei fratelli Gambi un universo privo di qualsiasi reale presenza femminile, nonché privo di relazioni significative, risultando in questo senso le loro vite segnate da una solitudine che trova soluzione, sempre e comunque, all’interno di quella simbiosi che li tiene uniti. Anche la casa diventa quindi un luogo concluso dove rinchiudersi, abbandonandosi a quell’unico piacere del cibo che rinforza e suggella la simbiosi.

Ma l’imbroglio della falsificazione verrà scoperto e, con esso, sopravviene la vergogna. Perché se la rovina materiale era attesa è l’impatto con la vergogna che farà sprofondare. E’ il dover prendere atto di un crollo che diventa prima di tutto morale. E quelle parole del Cav. Nicchioli che, scoperto l’inganno, va in libreria e, di fronte a Giulio e Niccolò, dice: “Avrei diritto di dirvi quel che penso e tutto quel che volessi, ma ho compassione di voi…Mi aspettavo più coscienza”, suonano come una condanna. Perché i fratelli Gambi avevano un nome e una credibilità, in una parola un’ “innocenza” che quella colpa dilapida e spazza via, rendendo ancor più assordante l’eco di quel fatto.

Ma in realtà in questo loro agire, a suo modo folle, appare tutta l’irresolutezza del rapporto che essi hanno col possesso. Vi è infatti sotteso un rifiuto dell’ “avere”, un’inconsistenza del valore del danaro, una distanza dall’attaccamento alla “roba” che rende i tre fratelli Gambi sistematicamente incapaci di qualsiasi legame materialistico col mondo. Laddove invece è proprio il danaro che qui si rivela l’unità di misura di tutte le cose mettendo a nudo il suo potere di prevaricazione. Lo scollamento e l’estraneità rispetto ai piani di realtà è quindi totale e la ferita che quell’evento produrrà sarà lacerante.

Con quella sua tipica “rapidità” Tozzi mette in scena la caduta tragica che le vite dei tre fratelli Gambi avranno, susseguendosi senza pietà, né misericordia, inesorabile la loro fine. E nella tristezza che quell’epilogo diffonde intorno a sé il dolore che da esso promana si solleva muto sulle cose, drammatico se pur spoglio di qualsiasi drammaticità. Giulio si suicida mentre i fratelli non hanno neanche il tempo di rifarsi una vita che, a breve distanza l’uno dall’altro, muoiono. Il suicidio di Giulio che, in tal modo, si accolla tutta la colpa consente a Enrico e Niccolò di accreditarsi innocenti e, per un po’, di tirare avanti ma neppure per loro vi sarà salvezza ed entrambi finiranno miseramente. E anche nella morte i tre fratelli resteranno indissolubilmente uniti allorché le nipoti Lola e Chiarina “…spaccarono il salvadanaio di coccio e fecero comprare da Modesta tre croci eguali; per metterle al Laterino”, il cimitero comunale: unico e solitario gesto di pietà che essi riceveranno.

Nella sua ascetica, limpida e rigorosa spietatezza “Tre croci” è un romanzo di un’umanità profondissima. Antesignani dei moderni soccombenti di Thomas Bernhard i fratelli Gambi sono, come ha scritto Emilio Cecchi, “…creature macerate in una vita immonda e strangolatoria, che tuttavia non prevale fino a scancellare in fondo alla loro anima un segno di superiore umanità”. L’onta, la colpa, l’inettitudine sono infatti la loro autenticità e verità che li rende personaggi terribilmente veri in quel loro essere vittime della loro natura. “Tre croci” fu scritto da Tozzi nell’ autunno del 1918 (uscirà postumo nel 1920) in sole due settimane e ciò, nello stupire, ne esalta ancor più la sua fulminante bellezza.

Infine un’ultima annotazione sulla lingua e sulla scrittura. Una lingua resa terragna dai toscanismi di cui è intrisa, spigolosa e selvatica come ciò di cui narra e per questo sempre necessaria; vera e propria spina dorsale di una scrittura intimamente malinconica perché mai pacificata, né purificata da quell’inconciliabilità col mondo che è il mondo che con essa Tozzi crea e narra.

4 risposte a "“Tre croci” – Federigo Tozzi"

  1. viducoli 18 gennaio 2019 / 20:57

    Ciao Raffaele e davvero bentornato!
    E che piacere che sia tornato con Tozzi, autore che anche io ho scoperto negli ultimi anni e di cui, per uno strano caso, ho letto gli altri due romanzi, oltre alle novelle.
    È davvero un autore cruciale del novecento italiano, per lungo tempo sottovalutato, relegato ad una sorta di verismo che invece è lontanissimo dalla sua poetica. I romanzi di Tozzi, come dici tu, hanno un respiro europeo pur essendo (anzi forse proprio perché) sono ambientati nella provincia di un paese periferico: quella provincia, quella Siena che anche secondo me “…diventa quindi il paradigma di una prigione conforme a quella prigione interiore in cui i fratelli Gambi conducono la loro vita, simbolo, ma anche realtà concreta, di un mondo piccolo chiuso, soffocante” ricorda tanto le ambientazioni di grandi contemporanei mitteleuropei di Tozzi (tanto che ho intitolato il mio commento a Il podere “Quanto dista Siena da Praga?”
    E poi quella scrittura sincopata e paratattica, con quei punti e virgola a separare i mozziconi di frase. Insomma, secondo me un grandissimo in senso assoluto.
    Non so se hai letto o leggerai altro di lui, ma ti assicuro che anche negli altri romanzi e nelle novelle troverai conferma della sua grandezza. Per conto mio questa tua recensione mi ricorda l’urgenza di avere in libreria Tre croci, tassello fondamentale della sua opera che ancora mi manca.
    A presto
    V.

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    • ilcollezionistadiletture 18 gennaio 2019 / 21:54

      Grazie Vittorio,
      per la visita e l’ attenzione che hai dedicato al commento. So bene che su Tozzi hai un patrimonio di letture assai ampio e approfondito e gli accurati commenti che gli hai dedicato nel tuo blog lo testimoniano. Purtroppo, come dici tu, su Tozzi ha pesato, ingiustamente, una “perifericità” che lo ha relegato in un limbo, ai margini della grande letteratura. Per non parlare di quell’ infondata assimilazione al verismo, quanto di più distante da Tozzi; come, peraltro, emerge molto bene anche in “Tre croci”. Mi riprometto sicuramente di continuare a leggerlo dopo questa “scoperta” che ne ho fatto e, come dici, sono certo che anche nelle altre sue opere troverò conferme della sua grandezza, sia per come scrive che per ciò che scrive. Quando ti capiterà di leggere “Tre croci” penso ti piacerà molto, è un romanzo impeccabile e implacabile.
      Un carissimo saluto e a presto.
      Raffaele

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  2. Elena Grammann 19 gennaio 2019 / 10:24

    Ciao Raffaele,

    grazie per questa bella recensione di un autore che anch’io ho scoperto solo recentemente e che mi ha stupito per la sua levatura europea. (Piccola divagazione fra parentesi: già da diversi anni, forse decenni, Tozzi è inserito al posto che gli compete nelle antologie per i licei. Latita invece dai programmi degli insegnanti di lettere, tanto più conservatori quanto più sono stati sessantottini; talché penso che prima di vedercelo comparire, nei programmi, l’intero sistema scolastico farà in tempo a collassare).
    La tua recensione ha chiarito e confermato le mie impressioni di lettura, e in particolare mi ha aiutato a superare lo scoglio della “rapidità” e durezza tozziane: se si approccia il romanzo da un punto di vista puramente psicologico, le reazioni esagitato-esagerate dei protagonisti, i cortocircuiti esplosivi rimangono inspiegati.
    Sottolineerei invece, in parziale disaccordo con Vittorio, il “carattere provinciale e periferico” non della sua produzione, come dici giustamente, ma “di quella Siena in cui egli nacque e crebbe”. La lunga, bellissima e significativa citazione che riporti, “Siena è fatta così, e nessuno ci cambierà, se Dio vuole! Anch’io, del resto, non vivrei volentieri a Siena se non fosse possibile conoscere quel che si desidera degli altri. Perché non mi piacciono le grandi città? Principalmente, perché io non potrei stare senza conoscere gli altri come me stesso. E’ una curiosità, che abbiamo nel sangue. E nessuno ce la leva. Anzi, io, le persone che non sono di qui, non ce le vorrei né meno! Che ci fanno? Stiamo bene tra noi; essendo tutti eguali e dello stesso seme.”, indica precisamente la cocciuta e orgogliosa autoreferenzialità della cultura italiana, il suo non voler in fondo conoscere altro da se stessa, o, anche quando sembri allargare lo sguardo, il suo ricondurre tutto alle proprie note e rassicuranti categorie. Un’autoreferenzialità fuori tempo massimo che crea, penso, una situazione dolorosa e difficilmente risolvibile in individui sensibili come Tozzi.
    Buon fine settimana e a presto!

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    • viducoli 19 gennaio 2019 / 21:59

      Ciao: spero che questo messaggio venga notificato a entrambi.
      Ci voleva proprio il ritorno di Raffaele, anche per rinfocolare le piccole e stimolati (almeno per me) polemiche con Elena. Cui però in questo caso non posso replicare più di tanto, perché sottoscrivo quello che dici, Elena. Non credo ci sia contraddizione tra una visione di Siena come metafora della marginalità e autoreferenzialità della cultura italiana dell’epoca e trovare delle analogie con il ruolo che svolgono altre città nella letteratura europea del periodo (non solo Praga, ma ad esempio la immaginaria Perla ne L’altra parte di Kubin, da me letto poco tempo fa). Le varie sfaccettature interpretative offerte dalla Siena di Tozzi sono un altro segno della sua grandezza (nonostante il doventare).
      Voglio anche sottolineare come a mio avviso hai colto (Raffaele) un altro punto cardine della poetica tozziana: l’inettitudine dei personaggi di Tozzi è spesso basata anche e soprattutto sulla loro incapacità di gestire ed accumulare danaro, come invece dovrebbero fare. Nei due altri romanzi il conflitto con il padre autoritario, violento e volgare (mutuato dalla concreta esperienza di vita di Tozzi) è centrato proprio sulle aspettative, deluse, che il figlio sappia conservare ed accrescere la roba. Una inettitudine non solo esistenziale, quindi, ma basata su elementi molto concreti.
      V.

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