La fame, intesa in senso letterale; il vagabondare fisico che è condizione esistenziale che diventa cifra stessa del romanzo e la dimensione urbana sono lo scenario narrativo in cui si svolge “Fame” come, peraltro, Hamsun fa dichiarare al protagonista sin dall’inizio, nell’incipit: “Al tempo in cui facevo la fame e vagabondavo per Cristiania, quella singolare città che nessuno abbandona senza portarne le stigmate…”.
Visivamente “Fame” suggerisce l’idea della spirale. Una spirale che si muove verso il basso e all’interno della quale il protagonista precipita progressivamente come spinto in un’allucinante immersione in una realtà che si fa via via sempre più liquida e inafferrabile. Nel suo bellissimo saggio: “Fra le crepe dell’io: Knut Hamsun”, titolo già di per sé illuminante e indicativo, Claudio Magris definisce “Fame” come: “…forse il più grande romanzo che sia mai stato scritto…sul singolo che si trova radicalmente solo nel mondo, irrelato e indicibile… Il protagonista di “Fame” fonda la sua esistenza su nulla, vive consumando la sua vita, irriducibile ad ogni rapporto sociale. Egli è immediatezza pura, istantaneità fisica. E’ essenzialmente un corpo, muto e incomunicabile; la sua scrittura – egli è infatti uno scrittore o un aspirante scrittore – parte direttamente dal suo corpo, dalle sue depressioni e dalle sue euforie, da quell’estasi dello sfinimento che gli procura la fame, primordiale pulsione che si scatena scompaginando la sua struttura psichica” (C. Magris – “L’anello di Clarisse” – Einaudi – p.153).
In queste parole di Magris è racchiusa tutta la lacerante condizione in cui si svolge la vita del protagonista di “Fame”, occupato dolorosamente e disperatamente nel titanico sforzo di tenere unite le parti di un sé che inesorabilmente si distanziano e si sfaldano, facendone uno dei tipici eroi “dilacerati” di Hamsun. Ma se è la realtà che si pone compatta e imprendibile di fronte al protagonista, a prima vista a ferirlo e a segnarlo non è solo essa a farlo, ma, ancor più, è la vita stessa nella violenza delle sue pulsioni che, come una febbre delirante, lo assalgono e lo muovono. E’ quell’impossibilità di vivere se non in se stesso e con se stesso che lo imprigiona e lo rinchiude, fuori da qualsiasi possibile pacificazione con sé e col mondo. E’ un vivere nel nascondimento della propria sofferenza, vissuta tutta nel chiuso del proprio esistere solitario che, nel racconto agli altri, si trasforma in un millantare continuo di esistenze che non esistono, che non ci sono; una finzione che riempie un vuoto e che maschera l’infelice estraneo fra gli estranei felici: “Non c’era dolore nei loro occhi, non pesi sulle loro spalle, forse neppure un pensiero scuro, una piccola sofferenza segreta in nessuno di quei cuori felici. E io camminavo là, accanto a questi uomini,…e avevo già dimenticato quale fosse l’aspetto della felicità!…Non mi riconoscevo più; il mio cuore non era più sereno e da tutte le parti provavo pene straordinarie.”
In questo senso, come afferma Claudio Magris: “Il protagonista di “Fame” ha nostalgia d’amore e di lontananza [e se egli] si nega alla realtà e si vota alla disgregazione è per salvare un suo nucleo interiore” (Cit. p. 155) C’è nel personaggio di Hamsun una resistenza a vivere spasmodica e, a suo modo, feroce, non dissimile da quella della natura: “…per i campi si odono accenti di vita che lotta, che sfrasca, che mormora inquieta, che si agita per non morire”; e, al tempo stesso, irriducibile a qualsiasi razionalità: “Poi mi misi a cercare un argomento qualsiasi da trattare, un uomo, una cosa su cui buttarmi, e non riuscivo a trovare nulla. Tra quei tentativi infruttuosi ricominciò il disordine nei miei pensieri, sentivo che il mio cervello assolutamente faceva cilecca, la mia testa era vuota, vuota, e leggera e senza contenuto stava sulle mie spalle. Ed ebbi l’impressione che quella sbalorditiva vacuità del mio capo fosse anche nel mio corpo, mi sembrava di essere tutto svuotato, dalla testa ai piedi”.
E così, in quella continua sequenza di perdite e ritrovamenti delle proprie energie vitali, il protagonista di “Fame” precipita da uno stato d’animo al suo opposto. Da un immotivato e talora persino gratuito empito di euforia e generosità a stati d’animo fatti di rabbia scomposta e di furente animosità. Un intreccio indissolubile che contiene un malessere che è mancanza di qualcosa, una privazione che è costrizione, un bisogno di sentimento e di sentimenti inappagato, una fragilità a cui nulla dà conforto, una ferita aperta che nasce da una ferita ignota e originaria, un’impossibilità insomma a bonificare il proprio tormento e a poter stare al mondo.
Egli è perciò destinato ad aggirarsi in questa sua irrisolta e irresolubile precarietà, in una condizione da ascetico senza ascesi, proteso verso una sorta di trascendenza che però è sempre verso il basso e che ne fa “un uomo del sottosuolo”, così come osserva Magris che così lo definisce. “L’uomo del sottosuolo proclama infatti che la coscienza è una malattia e che il carattere di un individuo, che impone ordine e disciplina alla molteplicità molecolare e centrifuga dei suoi impulsi, è un carcere. Anche l’eroe di “Fame” appare un “oltreuomo” … Egli sembra una molteplicità di nuclei psichici colta nel momento in cui essa sta per traboccare dalla camicia di forza dell’identità individuale, dalla tirannica e compatta unità della coscienza. I suoi pensieri sfarfallano e svolazzano in lui e via da lui, rovesciandosi all’esterno come una secrezione fisiologica; pensieri e sensazioni corporee si confondono senza possibilità di distinguersi, le parole echeggiano nel suo delirio e nelle cavità del suo cervello fino a perdere ogni senso, le idee si distorcono in idee fisse e ossessive o si disperdono in vaneggianti analogie e catene associative; la riflessione si distingue a mala pena dalla follia o meglio trapassa insensibilmente nella follia [in quanto] il nesso fra la ragione e la realtà per Hamsun si è oggettivamente infranto nell’età contemporanea: la pazzia non è il caso isolato di un individuo, ma è la condizione generale dell’epoca, nella quale non esiste alcuna relazione fra il singolo e l’universale né fra la ragione e la realtà. L’universale sconvolge l’individuale, come il dito che Dio mette nella rete dei nervi del protagonista di “Fame”, disordinando tutti i fili….La follia del protagonista corrisponde a quella dell’intera realtà, svuotata d’ ogni significato e ridotta a una parvenza fantomatica. Al pari di una droga, la fame, che eccita e sfinisce, allenta la connessione del reale, lo disarticola in una ridda allucinata”(cit. pg.154).
Nel suo procedere disordinato e schizofrenico il protagonista di “Fame” affastella azioni e considerazioni incessanti, in un continuo e solipsistico dialogo con se stesso. Azioni e considerazioni che però non reggono mai alla prova dei fatti, segnate come esse sono da propositi velleitari e soggette a quella debolezza congenita e permanente che lo assale e lo debilita. La quale presiede e permane a quella procuratagli dalla fame in quanto suscitata e generata dalla sua psiche, dall’alterazione sistematica del suo equilibrio, dalla durezza sfiancante, non solo in senso fisico, del suo vagabondare. Una debolezza inarginabile e proliferante che lo conduce allo svilimento e a constatarsi nel fallimento: “Vi era dunque un motivo qualsiasi per cui i più sinceri e diligenti tentativi di un uomo dovessero tutti inesorabilmente fallire?…A mano a mano che il tempo passava, sempre più mi indebolivo nello spirito e nel corpo…Mentivo a me stesso sfacciatamente senza vergognarmi,…senza avere coscienza del male.”. Solo nella rinuncia a pensare e a pensarsi, solo nell’annullamento di sé egli trova un sollievo: “…fu per me un vero piacere mettermi l’anima in pace, evadere da me stesso e trascinarmi per la via senza avere un pensiero in testa.”, liberato, per un po’, da quelle manifestazioni del suo sé da cui egli è agito, preda di un flusso pulsionale incontrollato da cui è catturato e assoggettato.
Come gli può accadere in relazione all’ atto dello scrivere: “Scrivo come invasato e riempio una pagina dopo l’altra senza un momento di pausa. I pensieri si formano così improvvisi dentro di me e continuano a scorrere così abbondanti che dimentico una quantità di particolari e non riesco a scrivere con sufficiente rapidità sebbene lavori con tutte le forze. Continuano a venirmi in mente immagini, sono pieno del mio soggetto e ogni parola che scrivo mi viene proprio messa sulle labbra. E dura, dura un lungo tempo benedetto prima che quel meraviglioso momento finisca”. Ma così come gli può accadere in relazione ai pensieri che gli si formano su ciò che ha scritto: “Il destino del mio scritto mi riempiva di neri presentimenti; già, più ci pensavo e più mi sembrava impossibile che io avessi potuto scrivere una cosa passabile…Mi ero naturalmente ingannato e per una intera mattinata ero stato contento per un nonnulla!”.
Ed anche il dolore fuoriesce incontrollabile, a suo modo liberatorio rispetto a quella fatica di vivere di cui è ostaggio: “Camminavo e piangevo, per tutta la strada; provavo sempre maggiore compassione di me stesso e ripetevo ogni tanto un paio di parole, un’esclamazione che mi strappava di nuovo le lacrime quando stavano per cessare; Signore Iddio, come sto male! Signore Iddio, come sto male!”. Ma è proprio in quella deriva e in quelle derive in cui si consuma l’esistenza del protagonista che si concentra il senso profondo di “Fame”, la sua grandezza narrativa e la sua preconizzante modernità.
L’esasperata ed esasperante via crucis a cui Hamsun sottopone il suo personaggio contiene infatti l’anticipazione (”Fame” è del 1890), già lucidissima, di quell’atomizzazione che genera ripiegamento, chiusura, incomunicabilità, solitudine, debolezza interiore, precarietà esistenziale, frantumazione della soggettività e al tempo stesso ipersoggettività, sradicamento e nomadismo, propri del nostro contemporaneo. Il protagonista di “Fame” nella sua ipersensibilità è portatore di una sfera sensibile che la realtà e il mondo intorno a lui non sono in grado di accogliere e di ascoltare. Ed è nel mantenimento tenace, inevitabilmente autolesionistico di quel suo nucleo sensibile, vissuto a oltranza, anche a prescindere da se stesso, che il protagonista di “Fame” esprime il senso del suo esistere, il valore intrinsecamente “poetico” di quell’esistere, in quanto individuo ridotto si a frammento del grande ingranaggio ma non depauperato della sua pienezza sensibile. Ed è proprio in quell’elemento lirico che egli trasmette e da cui emana tutta la sua interiorità che si ritrova intatta una autenticità e una purezza che resistono irriducibili e gli consentono di salvare quel suo nucleo interiore.
Il protagonista di “Fame” è, in altre parole, testimone di una inconciliabilità tra anima e realtà e ne è vittima. Ma, in quanto tale, mette a nudo la verità di quella inconciliabilità che è all’origine del dolore di esistere e che genera fragilità e rende indifesi. “Hamsun visse sino in fondo l’avventura del ribelle” – scrive Magris – “che si abbandona al respiro vitale, negando qualsiasi valore al di là della vita stessa e scoprendo perciò alla fine il suo irrazionale nichilismo, anche se mitigò tale vitalismo con una gentile e perduta poesia della lontananza dell’anima”. E così è anche il protagonista di “Fame”, il quale è, a suo modo, un ribelle, espulso ed autoespulsosi dal mondo, occupato senza requie da quel suo flusso vitale ma capace, sempre, di nutrire e conservare inalterato dentro di sé un sentimento fatto di tenerezza e delicatezza, di quella “nostalgia d’amore e di lontananza” descritta da Magris.
E anche l’amore che egli incontrerà non si consumerà, in quanto anch’esso incapace di diventare realtà, finendo per virare nel ricordo e lì restarne incastonato. In conclusione “Fame” contiene il sentore di un’intima e irresolubile violenza come per effetto di una cacciata da un paradiso al quale non è più dato tornare e che obbliga ad andare raminghi per il mondo come fa e continuerà a fare fino alla fine il protagonista di “Fame”. Laddove per Hamsun solo un “ritorno alla terra” (come peraltro egli evoca e predica in un altro suo famoso romanzo: “Il risveglio della terra”) inteso sia in senso fisico che simbolico cioè come ritorno a un paradiso perduto, può consentire al vagabondo di ricongiungersi con le sue sorgenti primarie. “Hamsun” – scrive Magris – “che voleva essere un cantore spontaneo della natura, è un poeta moderno della natura alienata e perduta…I viandanti di Hamsun, negatori della realtà sociale, si aggirano non più fra i boschi ma, come il protagonista di “Fame”, fra le aride pietre della città moderna che invade la natura, nella crudele solitudine cittadina anziché nell’amica familiarità della landa”.
Un romanzo che mi aveva colpita proprio per l’intensità descrittiva degli stati d’animo altalenanti. Interessanti le considerazioni di Magris, molto bella e curata la tua recensione.
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Grazie per gli apprezzamenti e per l’attenzione. In effetti “Fame” colpisce profondamente sia per la sua intensità emotiva, talora straziante ma sempre umanissima, e sia per la sua incredibile modernità.
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