“E la cosa orribile ebbe principio. Tombo s’accostò con decisione al ciborio e l’aprì bruscamente, sbatacchiando il portello. Restato un attimo a guardare dentro di traverso, come una gallina, vi affondò il braccio e ne trasse per due volte una manciata di ostie consacrate che rapidamente divorò.” In questo passo è fulmineamente fissato con grottesca drammaticità il momento del verificarsi di quella profanazione la cui constatazione attesterà inequivocabilmente che era proprio Tombo a introdursi in quella cappella, salire su quell’altare e compiere quell’inimmaginabile sacrilegio.
Ma si dà il caso che Tombo è una scimmia, anzi una “scimia”, come per tutto il racconto egli sarà definito, così come “per compenso”, dice Landolfi nella Nota finale, “mi venne l’altra di “zittella”…quasi “zittella” potesse essere diminutivo di “zitta” anziché di “zita”. Queste invenzioni verbali e le “diversità” in esse contenute che ne falsificano i significati originari, creandone di nuovi, sono emblematiche del “mondo” creato da Landolfi in questo comicissimo e al tempo stesso crudelissimo racconto. Un “mondo” fatto di capovolgimenti spiazzanti e votato a provocare un sistematico disorientamento nel quale, con una leggerezza e una eleganza dissacranti, egli vi instaura quella dimensione fantastica intrisa di un che di diabolico e di demoniaco che sarà tipica di gran parte della sua opera.
Non a caso Montale, all’uscita di questo racconto, avvenuta nel ’46, lo definì uno dei “maggiori “incubi” psicologici e morali della moderna letteratura europea” e, in tal senso, vi si avvertono l’eco di Kafka per ciò che di claustrofobico e spietato vi è nella storia, così come è presente un’impronta che rimanda a Gogol per quell’elemento surreale e grottesco che vi ricorre. Autori questi che Landolfi conosceva bene e che, con riguardo a Gogol, egli aveva studiato e tradotto ampiamente. Ma quello che qui avvince e che connota Landolfi è l’uso magistrale che egli fa di quel suo sarcasmo beffardo e dirompente con cui ottiene e veicola quell’effetto di sovvertimento della ragione e di follia che aleggia in tutto il racconto, quel senso di favola dell’orrore e dell’assurdo che lo contraddistingue. Acuito, per altro, da una prosa particolarissima, sapientemente desueta e volutamente arcaicizzante. Una scrittura apparentemente retorica che fa in realtà il verso e beffeggia il ridicolo e il retorico contenuto in questa storia che, ella stessa, mette a nudo e smaschera. Una scrittura che promana uno splendore verbale e stilistico unico, che cattura il lettore avvolgendolo e sorprendendolo continuamente.
La scena – perché qui la realtà si fa vera e propria messa in scena che si tinge di toni macchiettistici e sconfina in una rappresentazione altamente teatralizzata di sé – è, da subito, imperniata su una situazione di “ingabbiamento” che è non solo una sorta di topos narrativo del racconto ma ne è in fondo il suo tema. Chiusi in un’impossibilità dell’esistenza i personaggi alla fine resteranno tali e, una volta portati sulla scena, Landolfi ce ne mostra la loro parabola destinata all’impotenza della quale finiranno tutti sottomessi o vittime. E le prime ad apparire sulla scena e in quel ruolo di “ingabbiate” sono proprio le due “zittelle” che sono per davvero due zitelle, le “bacchettonesche” sorelle Lilla e Nena che vivono “colla vecchia madre” che impone loro la sua presenza, costringendole a stare costantemente con lei e della quale sono totalmente succubi.
Landolfi tratteggia con graffiante ironia le due donne, ammuffite e ingrigite da quella vita condotta in quella casa-prigione nella quale spadroneggia la decrepita vecchia, meno che mai arrendevole anche sopraggiunta la quasi totale immobilità fisica. La sudditanza delle due donne fa tutt’uno con il loro essere “estremamente divote” che le rende tutte chiuse in un loro inflessibile moralismo nel quale vivono – potremmo dire – “zittamente” inacidite. Ma la penosa convivenza con la dispotica vecchia – la cui descrizione suscita punte di ilarità assoluta – un bel giorno finisce con la di lei dipartita. E qui per le due sorelle, “libere non già, dall’incubo che la nominata madre aveva loro creato, ma almeno alleggerite dalla sua presenza”, allorché “cominciavano forse a godere d’una certa tranquillità”, ha inizio un nuovo incubo assai più drammatico e fatale perché del tutto inatteso e inaudito, anzi, per loro, spaventoso e aberrante e che avrà come conseguenza di trasformarle in spietate carnefici, mettendo a nudo tutta l’angustia delle loro fasulle esistenze.
Come ci annuncia lo stesso Landolfi “entra qui [per] la prima volta in scena quantunque sia il vero protagonista, anzi l’eroe di questo racconto” la scimia Tombo, portata a suo tempo in quella casa, di ritorno da uno dei suoi viaggi, dal fratello contrammiraglio di Lilla e Nena, prematuramente defunto. E giacché le due sorelle avevano “concentrato tutto l’affetto di che erano capaci” su quest’ultimo, alla di lui morte, “questo affetto riversarono sull’animale”. E siccome “è costume degli uomini tenere se possibile in gabbia l’oggetto del proprio amore…una grossa gabbia era la dimora abituale della scimia” Ma all’ “ingabbiato” Tombo quella gabbia sta stretta. La sua esuberanza lo rende turbolento, nonché animato da “una certa prepotenza”, anche perché la scimia Tombo “era una creatura misteriosa”. E le sporadiche e limitate occasioni di libertà che le due zittelle gli concedono in casa evidentemente non gli bastano, tanto che “lasciata libera, si comportava assai più ragionevolmente” e poi, “in definitiva era [lei] il maschio di casa”.
Insomma accade che si scopre che Tombo nottetempo, con impensabile abilità, aperta la sua gabbia fuoriesce da essa e di poi dalla casa stessa e usa fare incursioni nell’ “attiguo monastero” dove si dà a baldanzosi e licenziosi festini a base di ostie e di sacro vino sull’altare della locale cappella, facendo poi, come se niente fosse, ritorno, richiudendosi, non visto, nella sua gabbia. Sbigottite e smarrite le due zittelle all’inizio si rifiutano di credervi finché, constatato che, per davvero, Tombo ha escogitato e mette in atto il sistema di fuga anzidetto, decidono di assistere anche all’ attuazione dei suoi effetti, verificando de visu se è davvero Tombo a compiere quelle furtive ed esecrabili irruzioni.
E Nena, la più ostinata e imperterrita in quell’accertamento, appostatasi nella cappella, non solo assisterà allibita al banchetto di Tombo sull’altare, descritto in apertura ma, inorridendo, vedrà Tombo simulare grottescamente il sacro rito della messa, da lui sicuramente osservato in qualcuna delle sue precedenti scorribande e compiere, infine, un supremo gesto di bestialità che dà alla scena un apice massimamente blasfemo e di diabolico abominio: Tombo “scompisciò l’altare”. Per Nena il destino di Tombo è segnato: “deve morire”. In questo connubio comico – drammatico che dà alla scena e alla situazione un sapore quasi hoffmanniano, assumendo Tombo nella sua libertaria e spregiudicata gozzoviglia, tratti da demonio intento a un rito spiritistico, Landolfi porta al suo massimo grado, in forme estreme e parossistiche, il tema del racconto che assume qui le vesti del conflitto, assolutamente violento, fra repressione e libertà.
Il povero Tombo nei suoi irriverenti comportamenti sacrileghi in realtà non fa altro che rispondere alle sue più istintuali pulsioni, laddove il contesto e i suoi significati non hanno e non possono avere per lui alcun valore. La sua immoralità è ovviamente un falso problema che non ha alcun senso, ma per le due ottuse zittelle e, in modo particolare per Nena, “c’è caso [che] non tanto stesse a cuore tener freno materialmente la scimia, quanto farsi un’idea adeguata della sua moralità” osserva Landolfi. L’applicare quelle categorie “umane” alla scimmia dà ridicolmente la misura dell’obnubilante conformismo delle due zittelle, specchio a sua volta della loro follia. Incapaci di suscitare la vita in se stesse e spaventate nel vederla pulsare di fronte a sé esse si barricano in quella loro morale che è la loro gabbia e alla quale condannano, suo malgrado, anche lo sventurato Tombo.
Colpevole per quella sua voglia di libertà Tombo, al pari di animali “nocivi e pericolosi”, per le represse e repressive sorelle va definitivamente soppresso e ciò soprattutto per Nena perché Lilla, che in lui ci vede pur sempre “il loro fratello morto”, tenta di intercedere e ottiene che si consulti un “qualche santuomo di comune fiducia”. Ne nascerà una disputa a sfondo teologico tanto farsesca e surreale nel suo svolgersi quanto caustica e tagliente nei suoi contenuti. Nella quale si sancirà inesorabilmente il dissidio fra un dogmatismo che imprigiona, tutto teso a stabilire ciò che è male e ciò che è bene e quindi le relative colpe e punizioni, e il suo superamento in nome del fatto che “Non c’è male e non c’è bene. Il male e il bene…sono come una cosa sola, non l’uno contro l’altro”.
A incarnare queste tesi saranno Monsignor Tostini, il “santuomo” chiamato dalle due zittelle, e il giovane padre Alessio, fatto capitare lì per caso, i quali insceneranno un vero e proprio processo a Tombo assumendo il primo le vesti dell’accusa e il secondo quelle della difesa. Ne scaturirà quella che Montale definì “la grande scena madre del racconto”, in un crescendo vorticoso e via via sempre più alterato, essendo Tostini appartenente alla più “declamatoria e retriva genia” degli uomini di fede e padre Alessio invece seguace di un Dio estraneo alle “complicate partite di dare e avere“ degli uomini. Con toni e argomentazioni irricevibili per il Tostini ma, soprattutto, per le due zittelle, inorridite dagli estremi di blasfemia che il giovane prete, ai loro occhi, propugna, padre Alessio approderà, in modo sempre più infervorato, tanto da sembrare in preda a un delirio, a un j’accuse sprezzante rivolto alle due sorelle: “So bene che l’ammazzerete, questo che a voi appare deforme e immondo essere, questo che è essere santo e divino al pari di Dio, di cui è parte; che l’ammazzerete per un orrendo misfatto che è invece un naturale suo moto”.
E non contento si scaglierà contro la stessa Nena rinfacciandole e penetrandone quella sua esistenza inaridita e priva d’amore: “Ma l’amore, quello verecondo che Dio fa nascere fra gli uomini, vi è inviso, e per questo nessuno vi ha scelta”, trapelando, in tal modo, sullo sfondo, anche un risvolto perturbante di Tombo capace di quegli istinti e di quelle pulsioni che le zittelle non sono mai state capaci di vivere, quella capacità di sprigionare il desiderio che Tombo ha e che alle due zittelle appare un’oscura minaccia. Ma così facendo padre Alessio sarà per Tombo l’opposto di quello che avrebbe voluto essere giacché “Povero Tombo. Peggior avvocato non poteva trovare” e così quella sua sprezzante predizione avrà irrimediabilmente e ferocemente luogo, lasciando le due zittelle sottomesse a quell’inesistenza del vivere di cui Tombo sarà l’incolpevole vittima.
Assolutamente da leggere! Grazie di avermene parlato e della presentazione, ottima come al solito. La “scimia” Tombo, reliquia del fratello contrammiraglio, mi ha fatto venire in mente – su un altro registro – il pappagallo di Félicité in “Un cuore semplice” di Flaubert, che per la povera domestica diventa tutt’uno col nipote morto. Un effetto del libero gioco delle analogie, che è così divertente… Adesso vado a risponderti dall’altra parte, à tout à l’heure 🙂
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E’ vero, il paragone con il pappagallo di Felicitè di “Un cuore semplice”, in termini di devozione all’animale, adottato come sostituto della buon anima della situazione, ci può proprio stare. E visto che siamo in tema di analogie un’altra analogia volatile, anzi proprio fra pappagalli e, per non farci mancare niente, anche con un altro monumento della letteratura francese è con Il pappagallo di “Zazie nel metro” di Queneau, il pappagallo Laverdure, quello che dice sempre “Chiacchieri, chiacchieri, non sai far altro”, che lo avvicina all’ indisponente irriverenza di Tombo.
Grazie di tutto.
Alla prossima.
Raffaele
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