“Bolero berlinese” – Ingo Schulze

Nel finale di “Una notte da Boris”, uno dei tredici racconti che compongono “Bolero berlinese”, colui che narra la storia oggetto del racconto e di cui ne è uno dei protagonisti, rivela che la storia che noi stiamo leggendo è, a sua volta, il testo di una sua novella: “Avevo scritto la mia “piccola novella”, – così recitava il sottotitolo”,così infatti egli dice. Pertanto colui che narra ci rivela uno sdoppiamento di ruoli e cioè di essere oggetto della narrazione, in quanto parte di essa e, nel contempo, di essere “autore” di quella narrazione avendoci comunicato che quello che abbiamo letto è la trasposizione, scritta da lui, di quella storia da lui narrata.

E sempre questo io narrante, nonché “autore” aggiunge: “Certi dicono che si è obbligati a inventare, altrimenti non riesce bene. Ma io non voglio inventare proprio niente. In questo caso per me si tratta soltanto di rendere giustizia a quella notte da Boris. Il sottotitolo era semplicemente sbagliato. Nella vita quotidiana non ci sono novelle.” Questo escamotage narrativo adottato da Schulze e le successive considerazioni che egli fa tramite il suo io narrante/”autore” sul rifiuto dell’invenzione nel narrare e sulla non necessità della finzione laddove è della “vita quotidiana” che si parla, rivelano bene la concezione e lo stile di Ingo Schulze che si ravvisa in questi racconti.

Al centro dell’attenzione di Schulze vi è infatti l’ ”esperienza” a partire dalla sua personale esperienza così come da lui stesso affermato in una sua riflessione scritta proprio a proposito di “Bolero berlinese”: “Quello che voglio comunicare sono le mie esperienze….la letteratura esiste affinché non si rimanga soli con certe esperienze, con esperienze che non sono comunicabili conversando o in una discussione scientifica, che nella loro universalità e simultaneità trovano espressione soltanto in un racconto, una poesia, un romanzo”. ( I. Schulze – “Double face. Note a cura dell’autore” – pubblicato sul sito di “Nazione Indiana” il 28.6.2008).

Quella doppia veste di personaggio narrante/”autore” creata da Schulze nel racconto “Una notte da Boris” è quindi riferibile in primis proprio a Schulze, essendo ricorrente in questi racconti la presenza di un io narrante di cui si intuisce, per uno o più aspetti, la corrispondenza con lo scrittore che si fa quindi “autore” di se stesso e delle sue “esperienze”. Ora questo impianto e queste scelte narrative adottate da Schulze rimandano alla famosa distinzione fatta da Benjamin, nel suo noto saggio su Leskov, tra narratore e romanziere. Laddove il narratore, com’era appunto Leskov per Benjamin, attinge dalla realtà, soprattutto dalla propria e la ricrea con il suo narrare, restando ancorato a una tradizione che rimanda all’oralità, mentre il romanziere si separa dalla realtà per creare un suo proprio mondo.

Non a caso “Bolero berlinese” nella versione tedesca del titolo riporta la dicitura “Dreizehn geschichten in alter manier” e cioè “Tredici storie alla vecchia maniera”, che sembra voler richiamare proprio questa idea del narrare nella sua tradizione originaria. E un’ ulteriore conferma di ciò ce la dà lo stesso Schulze che parlando della stesura di questi racconti dice: “Mentre scrivevo, la tradizione alla quale mi sentivo più prossimo era quella del cronista e del narratore orale di storie; era come se dovessi ricominciare dalle origini della narrazione.” ( I. Schulze, cit.).  E la vicinanza a Leskov, e l’ammirazione nei suoi confronti, Schulze la esplicita in uno di questi racconti: “In Estonia, in campagna” , in cui fa affermare al protagonista: “Che bello sarebbe poter raccontare il seguito nello stile di un Leskov o di un Turgenev”.

Ma Schulze nel raccontarci la “sua” realtà, riesce a trasformare il contenuto cronachistico in “storie” che si “aprono” sull’esistenza e sul mondo e si fanno rivelazioni di se stesse. E’ come se le cose che accadono, così come accadono, avessero, già di per se stesse, una loro intrinseca densità alla quale non occorre aggiungere altro e la loro apparente scontatezza finisce per apparire tutt’altro che tale. Schulze allude a un senso più profondo delle cose ma non per restituircelo e “comprenderlo” ma per farcene percepire tutta la sua sfuggevolezza e, al fondo, la sua incomprensibilità, non a caso “Bolero berlinese” riporta nel frontespizio un motto di Friederike Mayrocker che dice: “Poi i giorni si susseguirono senza che le questioni fondamentali della vita fossero state risolte”.

Così quando alla fine dei singoli racconti ci si pone la consueta domanda su qual’è il senso, qual è il significato di ciò che è accaduto ci si rende conto dell’inutilità di questa domanda proprio perché quel senso, quel significato non lo sappiamo e sono lo stupore e l’interrogazione che prevalgono, tanto più espliciti quanto più inespressi. E anche quando improvvise epifanie riscattano lo svolgimento di quanto accaduto esse non sono rivelatrici di un qualche ordine o di una qualche verità, ma di un’emozione che resta impressa e si fa a sua volta “esperienza”, che va oltre il bene e il male.

E’ come se i personaggi avessero delle scosse esistenziali che sono conseguenza dei contrattempi, dei turbamenti, degli scampati pericoli, delle crudeli scoperte, dei liberatori epiloghi, delle impersonali conclusioni, delle improvvise visioni, delle ostinate reazioni che come “motivi” narrativi costellano questi racconti. Quelli creati e raccontati da Schulze sono dei microcosmi fatti di eventi e accadimenti in sé minimi, all’apparenza marginali e banali, per niente straordinari, su cui, pur tuttavia, aleggia un alone di straordinarietà.

Schulze, in questo senso, attua un “distanziamento” nel suo raccontare attraverso cui riesce a riflettere e a rendere tutta l’ambiguità, contraddittorietà ed enigmaticità di ciò che racconta. La “sua” vita quotidiana con le sue circostanze incrina convinzioni e certezze, smaschera illusioni e sogni e, intenti in una cosa, si scopre che ne sta accadendo un’altra. La sua prosa piana e descrittiva, svagata e indolente riesce a rendere bene tutto il minimalismo degli eventi, la loro assoluta mancanza di enfasi e nello stesso tempo a lasciare dietro di sé quella scia di perturbante e di assurdo che crea quell’effetto di straordinarietà di cui si diceva.

Schulze si sottrae e ci sottrae alle sensazioni forti, alle grandi passioni così come ai grandi dolori, salvo costellare di piccoli momenti di gioia e di dolore molti di questi racconti. Gioie e dolori che restano per lo più interiorizzati, vissuti ma non detti, quasi i personaggi si auscultassero più che esprimersi, essendo intenti, come spesso accade, a convivere con quel sottile senso di smarrimento che li accompagna. E così trapelano inquietudini, tensioni, conflitti che si insinuano di continuo pur con risvolti grotteschi, avendo Schulze un particolare istinto per il senso del tragicomico e del ridicolo che è poi il modo con cui ci fa vedere quel senso più profondo o, se si vuole, quel “non senso” che si diceva.

In queste sue storie avvertiamo le stesse insicurezze e le stesse minacce che avvertiamo molte volte nella nostra realtà e nella nostra contemporaneità in cui queste storie sono ambientate, e questo risalta tanto più in quanto buona parte di questi racconti si svolgono in luoghi, anche in senso geografico, molto diversi tra loro, il che produce una particolare sensazione: come se fossimo messi di fronte a una sorta di “globalizzazione esistenziale”. Vi è, in questo senso, in molti racconti uno sviluppo per cui un elemento esterno imprevisto penetra nelle vite e nelle situazioni in cui i protagonisti si trovano e li disorienta e li confonde o, ancor più, li aggredisce e li minaccia, suscitando tutto ciò insicurezze e paure, smarrimento e impotenza, ma anche aggressività repressa o esplicita. Questo imponderabile rimanda alla convinzione di Schulze sull’assoluta casualità degli eventi nella nostra esistenza: “perché è tutto molto casuale, tutta la nostra esistenza” dice il protagonista del racconto “Mr. Neitherkorn e il destino”, il quale si può considerare un racconto programmatico rispetto a questo punto.

Tuttavia Schulze fa intendere che egli non crede nel destino, inteso come una volontà di qualche entità superiore che ci sovrasta, ma l’imprevedibilità con cui le cose accadono è determinata appunto dal caso il quale se pure – dice il protagonista del racconto, richiamando un’espressione di Goethe – è l’organo del destino tuttavia è “un organo assai maldestro”. Da qui il senso di disordine e di precarietà, l’impossibilità di dare un ordine e trovare una chiarezza, nelle cose che accadono, a prescindere da dove accadano. E così, alla fine di questi racconti, si ha come la sensazione di avere assistito a delle favole perché di quella realtà, pur così reale, ci resta il suo senso di irrealtà, come se fossimo entrati e usciti da una fiaba. E, in questo, il narrare di Schulze ritrova il piacere della finzione, la capacità di dare vita ad un suo mondo. Tutto alla fine si stempera e si dissolve e quanto accaduto non travolge i protagonisti ma li lascia come spettatori di se stessi, come se si abbandonassero a quello che è loro accaduto senza chiedersi un perché, felici in fondo che le cose non abbiano un perché.

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