“Il trentesimo anno” – Ingeborg Bachmann

Vi è in tutta l’opera di Ingeborg Bachmann, e nei racconti che compongono “Il trentesimo anno” in modo palese, un’esplicita istanza utopica rivolta verso una vera e propria “rifondazione” del mondo: “La libertà che intendo io: il permesso…di rifondare il mondo ex novo e di dargli un nuovo ordine”.

In questa affermazione, che è riportata nel diario del protagonista del racconto che dà il titolo alla raccolta, è sintetizzato il tema intorno a cui ruota, nel suo insieme, “Il trentesimo anno”. Perché se si prende il mondo così com’è non vi è alcuna salvezza: “E che tutti temono la morte che è l’unica salvezza possibile contro quell’atroce offesa che è la vita” esperisce il protagonista del racconto. Essendo che la violenza, insita in questa affermazione, è, per lui, l’ ”inevitabile” conseguenza della violenza insita nel mondo e fra gli uomini: “…avevo imparato che gli uomini ci usano violenza, che anche noi usiamo loro violenza e che vi sono momenti in cui ci prende lo sconforto per via delle ferite patite – che ognuno di noi viene offeso dagli altri fino alla morte”.

Ed è contro questa “pena di vivere” che i protagonisti dei diversi racconti lottano, conducendo una battaglia prima di tutto con se stessi per cercare di aprirsi un “varco” che è già esso stesso un traguardo. Perché la Bachmann, con una metafora, ci fa capire da subito che è con degli itinerari di disillusione che avremo a che fare e che la speranza è “solo un quadro”:“L’esperance è il titolo del quadro di Puvis de Chavannes nel quale la Speranza…con in mano un ramoscello verde tenero siede sopra un panno bianco…Benché non appaia sul quadro – la notte verrà! Calerà sul quadro della Speranza…tingerà di nero quel ramoscello e lo farà seccare. Ma è solo un quadro” e il protagonista de “il trentesimo anno”, che quel quadro se lo trova fra le mani, inconsapevole presago di quanto gli accadrà, “Lo butta via”, con un’anticipazione premonitrice di quale destino attende qui la Speranza.

Ma i progetti di trasformazione e le mutazioni esistenziali che qui vengono messe in gioco, al di là degli esiti, genereranno comunque nelle vite dei personaggi cambiamenti evolutivi. C’è in questi racconti alla fine una rinascita o almeno ne è data la possibilità. La parabola è quella della disillusione ma non quella dell’autodistruzione. D’altro canto qui si gioca una partita ambiziosa: fare i conti con l’esistente per scardinarlo e aprirsi ad una nuova era in cui vige una nuova lingua: “Non c’è mondo nuovo senza una nuova lingua”. E una nuova lingua, intesa come un nuovo sistema di segni e di simboli per decodificare il mondo esterno ma, soprattutto, il proprio mondo interno alla fine resta e si insedia. Perché se nessuno arriverà a realizzare il progetto di “rifondazione” del mondo e quindi del linguaggio tuttavia, come accade al protagonista de “Il trentesimo anno” , se prima “nella sua mente non vi era che un fluttuare di segni di interpunzione rivolti al mondo”, adesso, giunto alle soglie del congedo da quell’ ”anno che gli ha rotto le ossa” e “Presto compirà trent’anni” , si accorge che “ora invece gli venivano in mente le prime frasi in cui si presentava il mondo”.

Ed è questa tensione – fra “quando non crederai più che le cose debbano andar meglio “nell’ambito di ciò che esiste”” e “quando il mondo sarà afferrato là dove è afferrabile, là dove si trova il segreto del suo ruotare, là dove è ancora casto, dove non è ancora stato amato né disonorato, dove i santi non hanno ancora interceduto in suo favore e i criminali non l’hanno ancora macchiato di sangue” – che pulsa in questi racconti e che lavora nelle vite dei suoi protagonisti. Questo è particolarmente vero in quattro dei sette racconti e cioè: “Il trentesimo anno”, “Tutto”, “A un passo da Gomorra”, “Un Wildermuth” in cui i protagonisti si trovano di fronte ad un’istanza di trasformazione che prende sempre le mosse da una “caduta” che è o una presa di coscienza su di sé o l’accadere di un evento che irrompe nelle loro vite.

In tal senso tale “caduta” non va interpretata in senso negativo o positivo ma come il determinarsi di un nuovo stato o di una nuova consapevolezza, una sorta di momento di ingresso o di passaggio da una fase/stadio all’altro della vita. Essa però costringe e dirige i protagonisti a confrontarsi con dimensioni “antagoniste” rispetto alla realtà così com’è, le quali si insediano dentro di loro con una prepotenza tale che apre in loro squarci che non possono essere lasciati a se stessi. Tali dimensioni si configurano come speranze, aspirazioni, desideri, aspettative, utopiche e/o sovversive, da cui ci si sente attratti e che si vorrebbero affermare e imporre al fine di affermare e imporre un nuovo sé e un nuovo mondo. Ma esse non saranno mai raggiunte così come si vorrebbe e la loro irrealizzazione che ne decreta il fallimento tuttavia lascia aperto un “varco” attraverso cui incamminarsi. Abbiamo quindi in questi racconti tre momenti chiave: la “caduta” che attiva e genera il processo; la dimensione “antagonista” rispetto al reale, che detta l’azione e il fine ma contro cui ci si infrange costituendosi come illusione; e il “varco” che è ricomposizione e sintesi della scissione fra realtà e illusione e ripartenza ad un punto comunque nuovo di consapevolezza.

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Il protagonista de “Il trentesimo anno” è un giovane alle soglie dei trent’anni che una mattina si sveglia “e, tutt’ a un tratto, rimane lì steso senza riuscire ad alzarsi”. La sua “caduta” ha origine proprio da quel suo scoprire all’improvviso che “gli sembra di non avere più diritto a farsi passare per giovane” e così “precipita in una voragine senza fondo finché non perde i sensi, finché non si è dissolto, spento e annientato tutto ciò che egli credeva di essere”. Non più capace di essere quello che era, ma neanche ancora capace di sapere quello che vuole essere egli opera, nell’arco dei 12 mesi che lo porteranno al compimento del trentesimo anno, un viaggio esistenziale e fisico alla ricerca di sé, che si configurerà come una sequenza di fughe da esperienze e luoghi (lascia Vienna per Roma, poi ritorna a Vienna, poi di nuovo a Roma) in perenne conflitto fra illusioni e realtà.

La tensione qui è tutta giocata fra un’aspirazione di libertà portata ai limiti dell’assoluto: “Aveva sempre amato l’assoluto e l’idea di partire alla sua ricerca” e l’impossibilità, all’estremo opposto, di riuscire ad insediarsi in alcuna realtà, scoprendo che la prima di tutte le illusioni con cui dovrà fare i conti è proprio quella della libertà: “Gli uomini non amano la libertà. Ovunque sia loro apparsa, essi l’hanno respinta. Io amo la libertà, che anch’io sono costretto a tradire mille volte. Questo mondo indegno è il risultato di un ininterrotto rifiuto della libertà”  scrive nel suo diario.

L’elemento “antagonista” che farà per lui da molla ma anche contro cui impatterà è quello di immettere quel suo bisogno di “assoluto”, estraneo a qualsiasi compromesso: “Si consumava nel tentativo di fare un passo verso il luogo che per lui rappresentava questa meta suprema e voleva agire di conseguenza, senza riguardi per nessuno”, all’interno di un disegno di vera e propria reinvenzione della Storia e in un suo reinizio: “Il grande sciopero: l’arresto istantaneo del vecchio mondo. La rinuncia a lavorare e a pensare in funzione di questo vecchio mondo. Le dimissioni della Storia, non a favore dell’anarchia, ma di una rifondazione” scrive nel suo diario. Ma questo progetto fallirà, infrangendosi contro tutta una serie di dati di realtà che pregiudicheranno, in primo luogo, l’idea stessa di autosufficienza derivante da un’idea assoluta di eterna giovinezza: “la giovinezza, questa luce che splende in eterno. Ma quando essa cominciò a vacillare, a farsi sempre più fioca e stentata e dopo che tutti i suoi tentativi di trovare lavoro o di continuare il viaggio…erano falliti…scrisse ai suoi…e per la prima volta, pregò suo padre di aiutarlo…Non si era mai sentito così privo di forze e di risorse. Riconobbe il proprio fallimento e chiese del denaro”

Ma quei dati di realtà pregiudicheranno altresì l’idea stessa di bellezza, insita in quell’ansia di mondo idealizzato: “là dove si trova il bello, quello è il mio paradiso[ma] la bellezza è ormai compromessa,non mi protegge più”. E, inesorabile, cala il sipario sulla Speranza. E’ infatti giunto al punto in cui: “Egli non spera nulla”. Deciso quindi a rientrare definitivamente a Vienna per reinsediarvisi, mentre è diretto in auto a Milano, è vittima di un incidente stradale. Si salva, ma il guidatore dell’auto muore. Ed è questa morte, la morte dell’ “altro”, che simbolizza la fine di quel viaggio e di quella ricerca e l’apparire di un nuovo essere. Il quale, a partire dall’accettazione del fallimento – che si configura come disillusione ma non come ripiegamento, bensì come presa di contatto con la realtà – si spoglia in primo luogo dell’illusione della morte come rifugio:” Da giovanissimo si era augurato una morte prematura, non desiderava nemmeno arrivare ai trent’anni. Ora invece si augurava di vivere”, ci dice di lui la Bachmann prima che egli lasci l’ospedale dopo l’incidente.

Ed è da questo “varco” che gli si apre di fronte che passa quel suo reingresso nel mondo basato su una duplice sostituzione: dell’astratto(gli ideali) con il reale(la vita), e del rifiuto di tutto (il mondo tout-court) con la possibilità di credere in qualcosa (se stesso): “Aveva anche vissuto a lungo senza sapere che cosa credere e senza sapere se non fosse un’infamia il solo fatto di credere qualcosa. Ora incominciava a credere a se stesso quando faceva o diceva qualcosa. Acquistava fiducia in sé. E nutriva anche fiducia in quelle cose che non avevano bisogno di dimostrazione, i pori sulla pelle, il sapore di sale del mare, l’aria frizzante, e insomma tutto ciò che non era astratto” E tra ciò che non è astratto vi è quel capello bianco, “questo primo segno dell’età” , che scopre su di sé, il quale gli dice che la vita sta facendo il suo corso: “quel processo che ora mi si mostra nella sua fisicità” ma di cui scopre di non esserne più preda:”ma non [ne] avrò più paura”. Ma quel capello bianco gli appare anche il segno tangibile di una sequenza di dolore: “Questo capello bianco, questa prova lampante di una sofferenza”. E dicendo questo la Bachmann dice che se è anche possibile trovare una salvezza ciò non è separabile dalle ferite che ci resteranno impresse.

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Nel racconto “Tutto” l’evento che genera il processo è la procreazione: “Quando sposai Hanna non fu tanto per lei quanto perché aspettava il bambino. Non avevo scelta, non dovetti prendere alcuna decisione”. La nascita del figlio determina quindi l’entrata in una nuova sfera dell’ esistenza: “Il bambino che aspettavamo ci trasformò”, “Cominciai a vedere tutto in funzione del bambino” . E se questo tutto significherà all’inizio prefigurarsi un ruolo educativo con tutto quello che comporta in termini di riproduzione sociale, giunge un momento – quando il bambino “un giorno disse le prime parole” – in cui questo padre decide che sarà il bambino a scoprire il mondo e a denominarlo, nella prospettiva che egli possa diventare un nuovo “primo uomo:”In passato avevo creduto di dovergli insegnare il mondo. Dopo quel muto dialogo con lui cominciai ad avere dei dubbie a ricredermi. Non era forse in mio potere tacergli il nome delle cose e non insegnargli l’uso degli oggetti? Egli era il primo uomo. Con lui tutto aveva inizio e non era escluso che grazie a lui tutto potesse cambiare radicalmente.”

E l’eco totalizzante delle parole del padre introduce la dimensione “antagonista” che qui è in gioco: creare le condizioni per fare del figlio colui che, interrompendo la linea genealogica umana in senso culturale, dà inizio ad una nuova era”: “Qui, dalla parte dove noi ci troviamo, il mondo è il peggiore di tutti i mondi possibili e nessuno finora è riuscito a capirlo, ma dove si trovava lui nulla era deciso. Ancora nulla. Per quanto tempo ancora? E all’improvviso capii: tutto è una questione di lingua…Si trattava soltanto di sapere se sarei riuscito a salvare il bambino dalla nostra lingua fino a quando lui stesso non ne avesse fondata una nuova e non fosse riuscito a dare inizio a una nuova era”. Ma queste titaniche aspettative paterne saranno amaramente e rapidamente frustrate perché il figlio, nel suo crescere, ripercorrerà inesorabilmente gli stadi di sviluppo archetipici comuni al genere umano e ne metterà in atto le relative manifestazioni. E lo scacco paterno si trasformerà nella smarrita consapevolezza della ineluttabilità della condizione umana: “Io ero prigioniero insieme al bambino, e condannato sin dall’inizio a far parte del vecchio mondo…Non sembrerà possibile, eppure non c’è scampo per nessuno di noi”.

Il fallimento che ne deriverà determinerà la rinuncia ad esercitare la funzione educativa paterna: “Poiché non sapevo più come e per che cosa educarlo, ci rinunciai” per giungere alla rinuncia del figlio in sé, ripudiandolo: “Gli tolsi il mio amore”, e privandolo di qualsiasi pietas: “Poiché il male, come noi lo chiamiamo, era già radicato in quel bambino come un focolaio di materia infetta” .  Ancora una volta la speranza abbandona la scena e il pensiero autocritico del padre ne svela i suoi limiti insieme all’umana inadeguatezza di fronte al compito stesso di essere padre: “Facevo il processo a me e a questo bambino – a lui perché distruggeva la più nobile delle mie speranze, a me perché ero stato incapace di preparagli il terreno. Avevo sperato che questo bambino, per il fatto che era un bambino, si, avevo sperato che redimesse il mondo. Parrebbe una mostruosità. Ed è anche vero che io con questo bambino mi sono comportato in modo mostruoso, ma le mie speranze non erano mostruose. Semplicemente, come ogni altra persona prima di me, non ero preparato al bambino.”.

Ma accade che questo figlio fortuitamente muore. La tragedia trasformerà il ripudio in colpa, e quel figlio non amato in realtà salverà il padre consentendogli il riscatto e l’apertura di una possibilità di rientro nel mondo. Questi si riapproprierà infatti del suo istinto paterno, questa volta svincolato da idealismi e proiezioni e basato sull’accettazione come valore in sé: “Anche se in questo mondo non riesco a farlo tornare in vita, non è troppo tardi per pensare: Io questo figlio l’ho accettato. Non ho potuto essere gentile con lui, perché con lui ero andato troppo lontano”. Ed esortativamente la Bachmann gli mostra il “varco” in cui incamminarsi: “Non andare troppo lontano. Prima impara ad andare avanti. Imparalo tu”. Ma prima c’è da chiudere una ferita lacerante, quella con Hanna che quel figlio l’aveva accettato incondizionatamente e che non ha ancora perdonato al marito di avergli fatto mancare il suo riconoscimento. Solo se ci sarà l’abbraccio con la moglie, solo dopo di esso, sarà possibile riaffermare il ruolo del Padre:”Ma prima bisognerebbe riuscire a spezzare l’arco luttuoso che è teso tra l’uomo e la donna. Questa distanza misurabile in silenzi, come potrà mai diminuire?…Non per riaverla andrei da lei, ma per tenerla nel mondo e perché lei tenga nel mondo me. Attraverso l’unione dolce e oscura.. Se dopo questo abbraccio verranno dei figli, ebbene, che vengano, che ci siano, che crescano, che diventino come tutti gli altri.”

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In “A un passo da Gomorra”la “caduta” avviene per l’entrata improvvisa e inattesa di Mara(M.) nella vita di Charlotte(C.): “ Gli ultimi ospiti se ne erano andati. Soltanto la ragazza col maglione nero e la gonna rossa stava ancora lì seduta, non si era alzata con gli altri. E’ ubriaca pensò C.”. Ma M. non è ubriaca, ella è ancora lì perché è attratta da C. e la desidera. Trascinata da M. sul terreno dell’amore lesbico, C. nel corso di quella notte, durante la quale si svolgono le vicende narrate, si dibatterà fra l’offerta di amore di M. che la smarrisce e la turba e la sua vicenda sentimentale e matrimoniale con Franz(F.) suo marito: “C. pensò: Ma come faccio a toccare M.? E’ fatta della mia stessa pasta. E pensò con tristezza a F. che era in viaggio per tornare da lei”.

Ma M. mettendo in crisi C. in realtà mette in crisi l’asimmetricità del rapporto di C. con F., in relazione al quale C. prende coscienza di quanto poco hanno contato i suoi desideri e della sua subalternità a questo stato di cose: “Mai le era concesso infuriarsi con F. né di sgridarlo come lui talvolta faceva con lei. Non era mai lei a decidere. Decideva lui (oppure decidevano insieme – avrebbe detto lui – ma di fatto era sempre lui a decidere senza rendersene conto, né lei avrebbe voluto che fosse altrimenti)”. Ma ancor più radicalmente la presenza di M., inducendo C. a riflettere sul suo matrimonio, le fa realizzare che anche lei ha creato un suo “ruolo”, costringendo F. a una sorta di “regime anaffettivo”: “i tormenti che lei gli infliggeva…erano tormenti di tipo sovversivo, insanabile”. Ma F. vi si è adattato perché “più saggio” dice qui la Bachmann, in quanto, dice ancora la Bachmann, “da tempo aveva capito che il matrimonio è una condizione più forte degli individui che lo contraggono…In qualunque modo lo si viva, un matrimonio non può mai essere vissuto liberamente, mai in modo creativo, non tollera innovazioni né cambiamenti, perché contrarre un matrimonio significa accettarne la forma”.

La dimensione “antagonista” che si fa strada in C. è, in prima istanza, quella della rottura proprio di questa simbiosi matrimoniale, affermando con se stessa, prima di tutto, la libertà di poter vivere una solitudine e un’infelicità veramente sue: “lei sapeva che F. non era tipo da concederle il diritto a una infelicità propria, a una solitudine diversa. Lei partecipava all’infelicità di lui oppure fingeva di parteciparvi;…L’orgoglio di pretendere una propria infelicità e una propria solitudine,…ora questo orgoglio osava manifestarsi…Lei non poteva essere salvata e nessuno doveva arrogarsi il diritto di salvarla” . La rivendicazione interiore di C. la induce a proiettarsi in un mondo del tutto nuovo che, incorporando M., consentirebbe a C. di impossessarsi di un ruolo mai avuto: “Mio Dio, pensò, oggi io non vivo, partecipo a tutto, mi lascio coinvolgere in tutto quello che accade, in modo da non poter mai cogliere una mia personale occasione. Il tempo mi sta appeso a brandelli. Non sono la donna di nessuno. Non esisto nemmeno. Voglio decidere chi sono e voglio anch’io prendermi la mia creatura, che sia per me una compagna indulgente, debitrice e sempre relegata nell’ombra. Io non voglio M. perché voglio la sua bocca, il suo sesso – che è il mio. Niente di simile. Voglio una mia creatura e me la prenderò…Se amasse M. tutto cambierebbe. Avrebbe un essere da iniziare alla conoscenza del mondo. Sarebbe lei sola ad imporre ogni norma , ogni segreto”.

Nella riproposizione, che C. fa di “fantasie maschili” in chiave dominante, che rivelano la intercambiabilità delle dinamiche di potere nei rapporti umani, ella in realtà tenta una duplice rifondazione. In primo luogo, sicuramente, una sua rifondazione esistenziale, ma anche la prefigurazione di un nuovo “regno” che ridefinendo il maschile e il femminile, ne ridefinisca le categorie attraverso un nuovo linguaggio, alternativo a quello che da sempre identifica l’uomo e la donna, ma in cui anche, da sempre, si identificano gli uomini e le donne: ”Se fosse riuscita ad amare Mara, non sarebbe più stata un ospite in questa città, in questo paese, ospite di un uomo, di una lingua…Aveva sempre detestato quel linguaggio, ogni marchio con cui era stata bollata e per mezzo del quale era stata costretta a bollare gli altri – un vero attentato alla verità. Ma con l’avvento del suo regno, quel linguaggio avrebbe perduto ogni valore, si sarebbe condannato da sé…Il linguaggio degli uomini, quando si riferiva alle donne, era già abbastanza brutto e poco attendibile; ma il linguaggio delle donne era ancora più brutto, ancora meno dignitoso, le era sempre parso ripugnante.” 

Fino a prefigurare una vera e propria rifondazione del femminile nel mondo, attraverso la negazione di tutte le immagini del femminile archiviate nell’immaginario collettivo: “L’immagine della cacciatrice, della grande madre, della grande meretrice, della samaritana, della incantatrice degli abissi marini e della donna innalzata tra gli astri…”, per giungere infine ad affermare il bisogno di elaborare una nuova immagine che è prima di tutto il bisogno di un nuovo sé e di una nuova identità: “Io non sono nata con nessuna di queste immagini addosso, pensò C. per questo mi sento pronta per una rottura. Per questo vorrei un’immagine antagonista e vorrei costruirmela da sola”.  Ma questa nuova immagine/aspirazione di C. ancora non esiste, l’elaborazione resta a livello simbolico, ben lungi dall’essere agibile nella realtà. Quell’immagine infatti, dice C., “Ancora non ha un nome. Non ancora. Prima devo fare il salto, un salto che scavalchi tutto, devo andarmene…Sperare nel regno. Che non sia né il regno degli uomini né quello delle donne. Né l’uno né l’altro”.

 E’ ormai quasi mattina: “Il mattino era alle finestre con la sua prima luce non ancora rosata” , C. e M., esauste, per quella lunga notte insonne, si distendono innocentemente l’una accanto all’altra e C. ripiomba amaramente e dolorosamente nella realtà e nel suo ruolo: “C. piangeva, si girò dall’altra parte, allungò la mano per afferrare la sveglia e la caricò” , giacché i suoi impegni per quel giorno, elencati la sera prima, prevedevano: “domattina andare a prendere F., caricare la sveglia, essere fresca e riposata, aver l’aria contenta”. C. è ancora ostaggio del mondo così com’è, e quella rifondazione, da lei immaginata, resta un’aspirazione utopica. Tuttavia in lei un “varco” si è aperto. Perché poco prima di questa scena finale C., a metà tra sogno e visione, ha seppellito F. e con lui gli altri uomini della sua vita: “Morto era l’uomo F., morto l’uomo Milan, morto un certo Luis, morti i sette uomini che lei aveva sentito respirare sopra il suo corpo” e C. stessa, insieme a M., sono descritte come morte e autrici di morte: “Erano morte tutte e due e avevano ucciso qualcosa”. Quelle uccisioni simboliche sono sicuramente un’esperienza evolutiva ma anche un’esperienza lacerante e dolorosa che richiede un grande lavoro di elaborazione. Perché prima di ritrovare la passione vi è in realtà da vivere l’enorme lutto che tutto ciò ha prodotto. Infatti conclude la Bachmann: “La gonna rossa”, (quella gonna rossa di Mara che all’inizio del racconto aveva tanto colpito C. e che l’aveva portata a percepire il mondo intero rosso tanto da farle dire: “per una volta sola il mondo era rosso” ebbene quella gonna che all’inizio era stata quel simbolo di passione ora “giaceva in terra davanti al letto, misera e sgualcita” 

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In “Un Wildermuth” la manifestazione concreta attraverso cui si materializza la “caduta” è un urlo: “il consigliere della Corte d’Appello Anton Wildermuth (A.W.) si tirò su a fatica dalla sedia, puntò le mani e urlò. Quell’urlo gettò nella costernazione l’intero tribunale…Secondo alcuni egli avrebbe urlato: Se qui ancora una volta qualcuno osa dire la verità…! Secondo altri avrebbe urlato: Basta con la verità, smettetela con la verità, smettetela una volta per tutte con la verità…! Poi avrebbe ripetuto più volte queste o quelle parole in mezzo a un terribile silenzio, avrebbe dato uno spintone alla sedia e sarebbe uscito dall’aula. L’unica cosa certa era l’urlo.”.

Ritiratosi nella sua stanza mentre “Il suo mal di capo si era ormai propagato a tutti gli angoli del cervello e la sua testa era come schiacciata da una corona di dolore”,“Il consigliere A. W., ripensò a questa formidabile frase che tanto spesso aveva sentito pronunciare da suo padre Anton Wildermuth”: “Un Wildermuth sceglie sempre la verità”. E “mentre quella frase tonante continuava a rimbombargli nella testa…si mise a sedere su una seggiola e pensò che d’ora in poi con quella verità era finita per sempre”. “Poco dopo…fu portato giù messo in un taxi che lo portò a casa…Si lasciò mettere a letto e vi restò per alcune settimane sotto osservazione del medico di famiglia e di uno psichiatra” .

L’antefatto di tutto ciò è nel processo che il consigliere A. W. sta presiedendo. In questo processo un tale, con il suo stesso cognome, un certo Josef Wildermuth, ha ucciso il padre e, dichiaratosi colpevole, risulta quindi reo confesso. I fatti, a prima vista, sembrano perciò semplici e lineari. Invece, nel corso del procedimento e del dibattimento in aula, essi si fanno sempre più complicati, tradendo incertezze e discordanze. E così, durante il dibattimento, monta una tale confusione che il Pubblico Ministero insorge richiamando tutti alla necessità di attenersi alla verità: “Invocò la verità a gran voce”. E “Fu in quell’istante… che il consigliere A.W. …. urlò”. A partire da quell’istante inizierà per A.W. la rimessa in discussione di ciò che la verità e la ricerca della verità hanno rappresentato nella sua vita, apparendogli come egli sia stato, da sempre, ostaggio dell’ “amore per la verità”. Sin da quando, ancora bambino, il padre gli aveva inculcato e aveva preteso da lui tale “amore”: “E’ stato mio padre l’inventore della parola “vero” e di tutti i modi per utilizzarla…”Veritiero”, “veracità”, “verità”, “il vero”, “fedele al vero”, “amore del vero” e “amante del vero” – son tutte parole che venivano da lui e lui è stato l’artefice dello stupore che esse hanno destato in me sin dall’infanzia”.

E A.W. lo aveva interiorizzato così bene quell’amore per la verità da farne un uso metodico e sistematico, al punto da “confessare” sempre, ai genitori, nel modo più circostanziato e veritiero possibile, qualsiasi cosa. Si era quindi “specializzato” nel raccontare la verità, “e non tanto per paura di mio padre” dice nel suo soliloquio A.W.”ma piuttosto per effetto di un oscuro desiderio”.  Ma adesso si accorge che attenersi a quell’idea di verità è significato diventare prigionieri di quell’idea, è significato sottomettersi ad un perenne esame di coscienza. La libertà di peccare e di derogare senza doverne dar conto, ammettendo quindi implicitamente la menzogna, era apparsa, sin da ragazzo ad A.W. come una possibilità a lui preclusa, ma attraente e avventurosa. “Il mio mondo “cattolico”” , così A.W. chiamava, tra sé, quel “mondo…peccaminoso, ricco e variopinto”, identificandolo con la madre: “Era un mondo che io collegavo a quello di mia madre” . La quale, pur cattolica, non andava in chiesa e la domenica si dedicava al suo corpo e alla sua toletta.

Nell’implicita ammissione che in quel “mondo cattolico”, vigendo la facoltà dell’assoluzione, il peccato e la negligenza e quindi la menzogna si potevano praticare assai più di quanto la rigorosa educazione protestante del padre consentisse ad A. E così a partire da questa prima decostruzione A.W. smantella progressivamente, nel corso della sua riflessione, tutta l’impalcatura, fondata su quell’eterna ricerca della verità, che egli aveva innalzato nel corso della sua vita, portando tale impalcatura ad una vera e propria implosione. L’antagonismo qui sta proprio nello smascherare a se stesso e in relazione al mondo, tutta l’illusorietà e instabilità della verità. A partire da come gli altri se ne servono, creandosela ad arte, come fa per esempio sua moglie Gerda, senza che questo le procuri alcun danno, anzi apparendo sempre credibile e convincente. Per passare poi alla constatazione di quanto lui stesso A.W. non sia in grado di stabilire una verità “vera” su se stesso, di fronte al convivere in lui di conflitti, opposizioni, dissociazioni, difformità che egli osserva nelle sue reazioni e nei suoi atteggiamenti.

Quell’ urlo pronunciato in aula durante il processo diventa quindi il punto di partenza ma anche di non ritorno per A. W. rispetto a quell’idea di verità così tanto a lungo coltivata: “non c’è mai nient’altro che un mucchio di opinioni, di affermazioni perentorie, di opinioni sulle opinioni, e c’è un’opinione sulla verità che è ancor peggio delle opinioni su tutte le verità… e se l’opinione ha già qualcosa di terribile, a maggior ragione deve averlo la verità. Ed è grave anche questo, l’alta opinione della verità, che avevo e che ora ho perduto, da quando per me non c’è più verità” .

Una rifondazione del mondo che realizzi il superamento dell’illusione della verità, se pur sottintesa, non è data e neppure A.W. se la dà. Se quindi questo superamento è, per sua natura, intrinsecamente impossibile da porre, costituendosi come mera utopia, tuttavia resta l’innegabilità del percorso di autocoscienza operato da A. W. E la consapevolezza, fattasi in lui strada, della liberazione da quell’implicita castrazione che il rapporto con la verità aveva rappresentato. In tal senso così come il personaggio dell’imputato Josef Wildermuth è autore nella realtà di un parricidio, altrettanto, a livello simbolico, fa A.W. uccidendo, nell’abbattere l’impalcatura della verità, la figura del padre, che di quell’impalcatura era stato l’ispiratore. E che A. W. voglia affermare e si predisponga a vivere quest’istanza liberatoria ce lo dicono inequivocabilmente le parole che concludono il racconto: “Una muta consapevolezza che invita a urlare, un urlo improvviso che si leva sopra tutte le verità. Una verità di cui nessuno sogna, che nessuno vuole”.

 

 

 

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