Narrativamente deliziosa, sottilmente ambigua, non esente da una sua certa perversità e da una buona dose di eros e thanatos questa “Storia di un manichino di parrucchiere”, che è la prima di un ciclo di cinque novelle “fantastiche” scritte da Aleksandr Čajanov e pubblicate in un arco di 10 anni dal 1918 al 1928.
La “Storia” semplice ma al tempo stesso complessa, avventurosa e ricca di simbologie e allusioni ha come protagonista l’architetto moscovita Vladimir M. e narra del suo ultimo amore come recita il sottotitolo dato da Čajanov. L’architetto M. è infatti un Casanova che stufo della vita che conduce a Mosca decide di recarsi in uno “sperduto angolo di provincia” per “riordinare i suoi pensieri”. E giunto nella “sonnolenta…cittadina” di Kolomna fa l’incontro che cambierà tutta la sua vita. Vede infatti nella vetrina del “maestro parrucchiere Tjutin…un manichino di cera dalla fulva chioma” le cui fattezze lo fanno restare di sasso.
E’ amore a prima vista. Per Vladimir inizia così una vera e propria epopea che lo porterà a risalire da quell’ inanimato manichino che ha prodotto in lui quell’ enorme suggestione, a colei che lo ha ispirato e gli ha dato il suo volto. In un susseguirsi di colpi di scena e di spostamenti che lo condurranno in giro per mezza Europa, Vladimir scopre che il manichino è la metà di due manichini “gemelli”, originariamente saldati tra loro, realizzati a Heidelberg da una locale ditta, dove egli si reca di persona e dove scopre l’identità “reale” dei manichini.
Essi riproducevano le “Sorelle Henrichson, gemelle siamesi di Rotterdam….esibite in molti circhi…ritratte a Heidelberg dal maestro scultore Van Hoote” il quale “si infiammò di innaturale passione per una delle due sorelle e portata a termine la scultura si impiccò”. Giacché come emergerà successivamente lo scultore e le due sorelle scoprono di essere tra loro fratelli e l’amore incestuoso che stava per nascerne segnerà lo scultore ma anche la sorella innamorata dello scultore, la stessa, ovviamente, di cui è innamorato Vladimir.
Vladimir fa fare ricerche di tutti i tipi, nel mondo dei circhi ma senza esito. Decide quindi di iniziare a “vagare, in cerca di un colpo di fortuna per tutte le città europee”. Sebbene qualcosa scopra come, per esempio, che delle due sorelle Berta, quella di cui si è invaghito, è la più “vivace” mentre l’altra Kitti è la più “pensosa”, tuttavia le ricerche non hanno alcun esito. Senonché rassegnato e quasi sul punto di rinunciare decide di recarsi a Venezia per concedersi una sorta di vacanza e qui accade lo sperato ma ormai inatteso incontro con le “gemelle”. Infatti proprio di fronte al suo albergo staziona una compagnia tra le cui attrazioni vi sono le sorelle Henrichson. Da qui in poi le vicende assumono un’accelerazione e una drammatizzazione dove non sarà l’amore a trionfare ma la morte.
Vladimir possederà Berta, la metterà anche incinta, in una sceneggiatura a suo modo raccapricciante con Vladimir che si unisce a Berta avendo Kitti attaccata a lei. “Trascorsero mesi di delirio e di follia”, con Berta che ancora sotto l’influsso del fratello suicida allontana Vladimir, però poi lo chiama a sé ma poi lo allontana di nuovo. In un crescendo dove Vladimir è ormai “pallido come un morto” e Berta ahimè morrà per davvero, con Kitti che verrà, in tal modo, “liberata” dalla sorella.
Ispirata esplicitamente e programmaticamente a E.T.A. Hoffmann, alla cui memoria Čajanov dedica, in apertura, questa sua novella, essa riprende e rielabora archetipi e prototipi hoffmaniani, mescolando, in un certo senso, gli ingredienti propri di Hoffmann. Se prendiamo, per esempio come riferimento un noto modello hoffmaniano come quello presente nel suo più famoso racconto: “L’uomo della sabbia” dove il personaggio femminile protagonista crediamo sia una figura femminile in carne ed ossa per scoprire poi che invece è un automa, qui abbiamo un ribaltamento del modello hoffmaniano in quanto a partire da una figura femminile inanimata si perviene ad una figura femminile in carne ed ossa.
Ma il gioco dei doppi in Čajanov si moltiplica perché al doppio Berta manichino/Berta donna vi è anche il doppio Berta/Kitti “costrette” dalla loro condizione ad esistere come doppi, che solo la morte separa, così come l’iniziale ritrovamento da parte di Vladimir dei loro due manichini separati aveva alluso. Ed è evidente in Čajanov questo suo “giocare” con la morte e con i suoi simboli, perché il manichino è un modo per dire la morte, alludendo alla vita e così come questa storia comincia con una cosa morta: il manichino di Berta, finisce con una cosa morta: la persona di Berta. Come dire che frequentare un manichino equivale a frequentare quell’ assenza che è sempre implicita nella presenza, significa praticare un culto alla dissoluzione e allo stesso tempo cercare di esorcizzarlo ma, come abbiamo visto, vanamente.