“La nave bianca” – Cingiz Ajtmatov

Baudelaire nel suo celebre saggio sulla “Morale del Giocattolo” afferma: “Tutti i fanciulli parlano ai loro giocattoli; i giocattoli diventano attori nel grande dramma della vita, miniaturizzato dalla camera oscura del loro cervellino. I fanciulli con i loro giochi danno prova della loro grande capacità d’astrazione e della loro alta facoltà immaginativa. Giocano persino senza giocattoli.” E questo è anche quello che fa il protagonista de “La nave bianca”, anche lui un fanciullo.

Un fanciullo che “Quell’ anno compì sette anni, entrò nell’ ottavo”, il quale non avendo giocattoli ne istituisce di suoi e, per mezzo della sua immaginazione, ne fa dei suoi interlocutori: “Al ragazzo piaceva chiacchierare per conto proprio. Ma questa volta non si rivolse a se stesso, bensì alla cartella: “Facciamo prima un salto al fienile. Là è nascosto il mio binocolo….sai, io parlo così anche col binocolo. Adesso saremo in tre – io, te e il binocolo…””

Già da questo accenno traspare quell’ atmosfera favolistica che fonda e permea tutta la narrazione de “La nave bianca” e che rende questo romanzo breve del kirghizo Cingiz Ajtmatov un piccolo capolavoro di leggerezza e di poesia. Ciò tanto più in quanto la favola, ne “La nave bianca”, non è solo quella in cui si rifugia e si abbandona il ragazzo protagonista del romanzo, ma è qualcosa di assai più profondo ed arcano.  E’ l’evocazione ripetuta e riecheggiante di grandi miti ancestrali propri della tradizione kirghiza, affascinanti non solo in sé, per le suggestioni che essi suscitano ma, soprattutto, perché la loro forza simbolica trascende la loro origine “locale” per assumere una eco universale.

Tutto questo avviene però all’ interno di una struttura narrativa solida e lineare, ancorata a ben precisi elementi di realtà, nella quale si dipanano le vite di personaggi “realistici” per condizioni materiali ma, al tempo stesso, tutti a loro modo emblematici per ciò che riguarda le loro condizioni esistenziali e le loro funzioni simboliche. Una narrazione insomma consapevole che la vita non è una favola e consapevole soprattutto che la vita non è una favola perché gli uomini smarriscono l’incanto, la poesia e la purezza della favola intesa come capacità di tenere viva dentro di sé la forza dell’immaginazione e, tramite essa, creare miti positivi che aiutino a vivere. Tanto che la “favola” de “La nave bianca” non sarà una favola a lieto fine.

Assistiamo infatti, ne “La nave bianca”, a scene di estrema crudezza e di vera e propria crudeltà che rimandano, anche qui ancestralmente, al primitivo e al selvaggio che persiste nella natura umana e la cui capacità di devastazione è così pervicace che nulla, quando essa agisce, riesce a porle freno. In tal senso forze profonde, primordiali dell’animo umano si scontrano, in modi anche tremendi, in una lotta fra istinto di dominio e di possesso e ricerca di una vita giusta e armonicamente in pace col mondo.

Ma questo scontro avrà esiti tragici. Gli interpreti del rispetto e dell’amore verso gli altri e verso il mondo e cioè il vecchio Momun e il ragazzo suo nipote, simboli di innocenza, di mitezza, di umanità e di sensibilità, saranno schiacciati e travolti dall’ aberrante violenza e disumanità di Orozkul, il cognato di Momun, “padrone” della piccola comunità in cui è ambientato il romanzo, abbrutito dalla e nella sua dispotica, devastante e volgare miseria umana.

Eppure la forza delle immagini suscitate dai “sogni” del ragazzo che “vede” col suo binocolo apparirgli sul lago Issyk-Kul la nave bianca su cui immagina vi sia suo padre che egli non ha mai conosciuto e che, trasformatosi in pesce, egli fantastica di raggiungere a nuoto, oppure la rievocazione fiabesca del mito della Madre-cerva, salvatrice della stirpe a cui i protagonisti appartengono, simbolo di una natura buona e protettiva, portatrice di vita e di salvezza e infine l’apparizione reale, ma come in sogno, dei cervi marali, a cui la Madre-cerva apparteneva, e, tra i quali, riappare magicamente un esemplare in tutto simile alla Madre-cerva,  restano indelebili.

E sono queste “magie” che danno a “La nave bianca” quel senso di incanto e di incantato che ci porta lontano in un mitico altrove. Ma queste magie sono anche la speranza e la possibilità che ci è data e a cui dobbiamo credere se vogliamo “vivere”: “…il cielo è eterno. In ciò è la mia consolazione. Ma è anche nella coscienza infantile che vive nell’ uomo, come il chicco nel grano – e senza chicco il grano non può  crescere” Perché la lotta tra innocenza e perdita dell’innocenza è la lotta in cui si gioca, da sempre, l’esistenza umana. Ma, “…qualunque cosa ci aspetti nel mondo, la verità vivrà in eterno, finchè gli uomini continueranno a nascere e a morire…”

P.S. Chi fosse interessato alla lettura de “La nave bianca” ne troverà diverse edizioni con il titolo “Il battello bianco”, più facilmente reperibili.

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