Questa edizione: “Conrad – “Il passeggero segreto” – Biblioteca del viaggiatore – Passigli Editori – 1986” contiene due famosi racconti di Joseph Conrad: “Il passeggero segreto” e “Gioventù”. Pur facendo entrambi parte del classico solco conradiano dei cosiddetti “racconti di mare”, tuttavia meritano e richiedono di essere trattati e commentati separatamente.
In primo luogo per la distanza cronologica che li separa, essendo “Gioventù” del 1898, mentre “Il passeggero segreto” fu scritto 12 anni dopo, nel 1910. Inoltre, protagonisti dei due racconti, sono due personaggi/io-narranti, ricorrenti in Conrad ma molto diversi tra loro.
La figura del “capitano”, protagonista de “Il passeggero segreto” e quella di “Marlow”(M.), protagonista di “Gioventù”, figura, quella di M., che poi sarà protagonista anche di “Cuore di tenebra” e che appare per la prima volta proprio nel racconto “Gioventù”.Ma, come detto, questi due personaggi hanno un differente profilo, sintetizzabile nella definizione datane da Virginia Woolf: ”Uno è quel suo capitano di mare, semplice, freddo, oscuro; l’altro è Marlow, acuto, psicologo, attento, loquace”.
Ma vi è poi anche e soprattutto una differenza di temi e di enfasi nei due racconti. Se infatti “Gioventù” appare segnato da un vitalismo avventuroso e persino un po’ prometeico, dove domina il tema del senso della sfida che l’energia e le passioni giovanili promanano, ne “Il passeggero segreto” vi è invece il tema della solitudine interiore e del dover fare tormentosamente i conti con l’altro da sé, quel “passeggero segreto” che non solo il capitano si sentirà in dovere di celare agli altri, ma che gli si configurerà come un suo vero e proprio doppio. Una figura, questa del capitano, ben lontana quindi da quel clima di esaltazione che connota il personaggio di M.
Comincio da “Gioventù” non solo per motivi cronologici ma perché idealmente collocabile all’ inizio della parabola narrativa conradiana rispetto all’ altro racconto.In “Gioventù”, M. ricostruisce, in un convivio fra navigati uomini di mare, quel’ “indimenticabile”, così da lui definito, “primo viaggio in Oriente”, destinazione Bangkok, nonché suo “primo viaggio come ufficiale in seconda”, il che illumina, da subito, uno dei classici temi conradiani: il viaggio come iniziazione. In questo caso una duplice iniziazione: all’ esotico e al suo fascino e, soprattutto, al ruolo di comando e di responsabilità. Una messa alla prova di se stessi e delle proprie giovanili orgogliose ambizioni, avendo M., all’ epoca di queste vicende, appena vent’ anni.
In questo senso Conrad “lavora” esplicitamente, nelle prime pagine, sul contrasto giovane/vecchio perché sia il capitano, sia il primo ufficiale e sia la nave sono caratterizzati da Conrad per la loro vetustà a fronte dell’aitante giovinezza di M.: “a stare con quelle due lane bianche” dice M., riferendosi al capitano e al primo ufficiale “mi sentivo come un ragazzino in mezzo a due nonni”. Anche la nave, la Judea, era una vecchia imbarcazione sebbene il suo motto, “Agisci o muori”, infiamma l’immaginazione di M. e gli appare perfetto per le sue motivazioni.
Ma andando contro le attese di M., la traversata si rivelerà un’impresa titanica. Subito dopo la partenza, ancora presso le coste inglesi, incappano in una tempesta che li costringerà a fare rientro in porto. Le cose vanno per le lunghe e ci vorranno ben tre mesi prima che la nave possa ripartire. Finché, preso finalmente il largo, allorquando sono ormai in pieno Atlantico, li coglie una violenta burrasca. La “vecchia” Judea comincia a imbarcare acqua e a disfarsi repentinamente: “Piano piano il mare la stava sventrando”. M. e tutto l’equipaggio passano giorni a pompare disperatamente acqua fuori bordo, mentre la tempesta imperversa. Ma quando questa finalmente si sedò apparve a tutti evidente che la nave era in sfacelo e così ritornano di nuovo in patria per le indispensabili riparazioni.
Ma la nave è così vecchia e malconcia che raggiunta di nuovo l’Inghilterra, fatte le riparazioni ritenute necessarie, tentato per la terza volta di prendere il largo, si scopre che la nave continua a imbarcare acqua.La Judea verrà portata in un bacino di carenaggio e lì resterà mesi: “Diventammo parte integrante del paesaggio, un’istituzione del luogo” dirà M. non nascondendo l’amara ironia della vicenda, a fronte del fervore che lo animava per quella impresa. L’umiliazione per lui e i marinai è totale: “Era orrendo. Moralmente…Sembrava che il mondo intero ci avesse dimenticato”
Dopo mesi, rifatta praticamente ex novo la chiglia, finalmente tutto è pronto per ripartire. Ma un segnale premonitore la dirà lunga su cosa sta per accadere ancora alla Judea. Infatti, all’improvviso, poco prima della ripartenza “tutti i topi abbandonarono la nave”. Eppure la nave adesso era in condizioni ottimali. Il famoso detto quando la nave affonda i topi scappano in questo caso non avrebbe dovuto avere riscontro.E invece i topi erano stati preveggenti. Infatti raggiunto senza contrattempi l’oceano Indiano, in piena navigazione, il carico della nave prenderà fuoco. La Judea trasportava carbone e “per la lunghezza del viaggio” dato che la nave procedeva lentamente, il carbone “si era surriscaldato, provocando una combustione spontanea”, la quale causerà letteralmente l’esplosione del carico. Miracolosamente salvi tentano disperatamente di proseguire la navigazione, ma invano.
Calate le scialuppe, M. assume il comando di una delle tre, il suo primo comando, di cui si sentirà immediatamente fiero, e mentre ormai la nave brucia inesorabilmente, le tre scialuppe si allontanano per raggiungere la più vicina terraferma, trovandosi, per loro fortuna, non lontani dall’ isola di Giava. Dopo numerosi giorni in mare aperto, remando e lottando raggiungono l’isola e sarà M. che, più abile del capitano e del primo ufficiale, arriverà per primo a terra, da cui il suo orgoglio per questa sua prima piccola-grande impresa. Sarà per lui il coronamento di un sogno: “Ricordo le facce stirate, le sagome abbattute dei miei uomini, e ricordo la mia giovinezza, e la sensazione che non tornerà mai più…la sensazione di essere immortale”, nonché il fatto di avere raggiunto il magico e vagheggiato Oriente: “per me tutto l’oriente è contenuto in quella visione della mia giovinezza. E’ tutto in quel momento quando lo accolsi nei miei giovani occhi spalancati.”
Ora le vicissitudini della Judea, del suo equipaggio e di M. e le veementi energie da questi profuse, evidenziano l’idea di Conrad che il destino avverso e la cattiva sorte, attanagliano e ostacolano l’esistenza, ma compito dell’uomo è assumersi le sue responsabilità, reagire, una sorta di coraggio di esistere, pur nella consapevolezza, fatta di disincantato realismo, che giovinezza, forza e illusioni saranno, nel corso della vita costrette a lasciare il passo allo scorrere del tempo e al loro contestuale svanire, infatti “Gioventù” finisce con queste parole, pronunciate al tavolo dei convitati che hanno ascoltato il racconto di M.: “ le nostre facce segnate dalla fatica, dagli inganni, dal successo, dall’ amore; i nostri occhi stanchi che ancora, sempre, cercano di trar fuori qualcosa dalla vita che mentre l’aspetti è già passata…insieme con la giovinezza, con la forza, con il romanzo delle illusioni.”
La gioventù nella visione di Conrad, nonché nella sua personale esperienza è quindi il luogo dell’avventura per antonomasia, in cui affermare la vita contro la morte, ma è una lotta prima di tutto individuale quella che descrive Conrad, dove l’uomo deve contare prima di tutto su se stesso: “Agisci o muori”, il motto della Judea, è più volte richiamato da M. nel corso del racconto. Vi è quindi una sottile “linea d’ombra” di rimpianto e di nostalgia in questo racconto per un momento della vita in cui forza e coraggio sono nel loro acme.
E che quel periodo della vita, della sua vita fosse per Conrad foriero di emozioni ce lo dice anche, in tutta la sua autorevolezza, Pavese, riferendosi, non a caso proprio a “Gioventù”, quando scrive: “Come in tutta la buona narrativa della sua generazione, si sente che Conrad, quando fa le sue prove migliori, attinge a un fondo di memoria e d’ emozione che si può chiamare col titolo di uno dei suoi romanzi: <<Gioventù>>” ( C. Pavese – Nota introduttiva, in J. Conrad – Linea d’ombra – Einaudi – 1988 – pg.V) E, più in generale, è sempre Pavese a darci un’ulteriore, più precisa, direi definitiva chiave di lettura, perfettamente valida anche per questo racconto: “Il Mare del Sud è veramente per Conrad il luogo dell’anima, non l’altomare di Melville, titanico e insieme biblico, non quello di Stevenson, stazione climatica ricca di nobili leggende e interessanti istituzioni, ma il perenne inquieto via vai della costa, degli ozi delle tolde e dei porti, l’esitazione che può fare di ogni imbarco e di ogni approdo l’inizio di una stupenda e assurda avventura di giovinezza di passione e di destino.” ( C. Pavese – Cit. pgg. V/VI)
Ne “Il passeggero segreto”, come detto, il protagonista è il capitano il quale nasconderà a bordo, anzi nella sua stessa cabina, un ufficiale di un’altra nave, ormeggiata vicino alla sua che, issatosi nascostamente sulla sua nave, vi aveva trovato rifugio. Come confesserà al capitano egli fuggiva in quanto macchiatosi, se pur contro le sue intenzioni, dell’uccisione di un marinaio sulla nave in cui era imbarcato. Ma il vero soggetto di questo racconto è il sottile e via via sempre più avvolgente conflitto interiore che avvilupperà il capitano il quale, nel diventare, di fatto, complice del fuggiasco, proteggendolo, svilupperà un progressivo processo di identificazione, quasi che anche egli avesse in sé una colpa oscura e inconfessata di cui l’altro da sé, il fuggiasco, con la sua apparizione, ne fosse diventato la materializzazione.
Il capitano non assumerà mai atteggiamenti ostili verso “il passeggero segreto” e meno che mai penserà di denunciarne la presenza a bordo, ma farà in modo, ingegnandosi in una pericolosa manovra sotto costa, “inventata” a bella posta tra lo sconcerto dei suoi secondi, a farlo sbarcare di nascosto, di fatto salvandolo o comunque dandogli una chance per salvarsi e la possibilità di un destino di libertà.Ora l’idea del doppio se stesso è esplicitata da Conrad quando fa dire al capitano: “E io ebbi paura che mi chiedesse a bruciapelo notizie di quell’ altro me stesso”. Come è stato osservato: “Nessuno sa che cosa abbai commesso questo capitano – ma la sua paura rivela un sentimento di colpa, una trasgressione che è avvenuta” (Piero Jahier – Prefazione, in Joseph Conrad – “Racconti di nare e di costa” – Oscar Mondadori – 1980 – pgXI)
Il capitano sarà per tutto il racconto solo con se stesso, “condannato” e “autocondannato” alla solitudine interiore, in preda a quel complesso di colpa ancor più acuito dall’evidente trasgressione che sta compiendo. E solo quando, fatto sbarcare il clandestino, potrà riprendere il largo si sentirà sollevato. Laddove il mare, contrapposto alla terraferma sarà per lui un ritorno alla libertà, quasi che solo sul mare e nel mare la libertà sia possibile.
“L’uomo conradiano…Non può farsi illusioni, può solo tentare di vivere una solitaria vita eroica che lo costringa ad affrontare sempre di nuovo la paura dell’ignoto e dell’altro se stesso. La fuga sul mare è così un atto romantico: sciogliere le vele, puntare al largo la polena corrisponde al solo possibile tentativo di redenzione” ( Piero Jahier – Cit. pg. XI). Perché, come ebbe a dire lo stesso Conrad: “Il mare non è mai stato amico dell’uomo. Al massimo complice della sua irrequietezza”.
Ciao R.
Sono venuto a sbirciare il “tuo” Conrad avendo affrontato Lord Jim (un’altra delle storie narrate da Marlow) ed essendo stato, ancora una volta, grandemente affascinato da questo scrittore.
Bellissima la tua recensione di questi due racconti, che peraltro non ho ancora letto. Vi ritrovo molti degli elementi analitici che anche io ho cercato, più confusamente, di evidenziare commentando quello che considero un capolavoro assoluto ed altri libri del nostro.
Mi pare che Gioventù in qualche modo anticipi, come accenni subdolamente anche tu, i temi che saranno al centro de La linea d’ombra.
Bella la citazione di Pavese: anche io ho pensato a quali potessero essere i legami ideali fra tre grandi scrittori di mare come Conrad, Stevenson e Melville, senza però giungere, ovviamente, a conclusioni così nette. Resta il fatto che davvero, il mare è la più grande metafora della vita che si potesse immaginare, forse anche perché inconsciamente sappiamo che è da lì che la vita proviene.
A presto
V.
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Grazie V. per gli apprezzamenti e l’attenzione. Si, Conrad è proprio, come dice Pavese, un cantore del mare come luogo dell’anima e, come tale, ne mette a nudo tutte le irrequietezze. Sul “tuo” di Conrad ti ho scritto di là.
Un carissimo saluto
R.
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