Siamo tutti pazzi. Siamo tutti normalmente pazzi ed essendo la pazzia una malattia: una malattia mentale, siamo tutti malati. Inutile illudersi. E’ di questo che si parla in “Perturbamento”: “… per tutta la vita non ho visto che pazzi e ammalati.”, “Tutti gli uomini sono più o meno pazzi, persino mio figlio – disse il principe”.
Inesorabilmente, analiticamente, impietosamente Bernhard, all’ interno di una grande narrazione fa una grande rassegna e, in una platea di individui, a prima vista normali, di soggetti nella norma, nella normalità, ecco annidarsi una platea di disadattati, di devianti, di disturbati, di diversi, di aspiranti suicidi, di suicidi veri, di criminali, di segregati, di autosegregati, di ingabbiati, di autolesionisti, di disperati, di gente che guarda il muro, di bestie, di malati inguaribili, di servi, di serve, di solitari in solitudini orrende, di malvagi, di segnati sin dall’ infanzia, di annientati, di surrealisti di un surrealismo diverso, di sgomentati, di spaventati, di succubi, di morbosi, di bisognosi di aiuto, di esseri in preda alla stanchezza di morte, di deboli di mente, di propensi alla mistica dell’endogamia, di scolari ignari di diventare uomini orrendi e quindi già malati ancora prima di esserlo.
Tutti rinchiusi nei loro nascondigli perfetti alla luce del sole.
Perché la domanda chiave che ci dobbiamo fare è: come si vive in “Perturbamento”? E la risposta a questa domanda ci dà la parola chiave di “Perturbamento”, presente dovunque in Perturbamento e cioè: indifferenza. “Perturbamento” descrive una comunità che ha un comune destino di comunità che, i suoi membri, indifferenti a tutto e a tutti, rinchiusi nella loro indifferenza, ignorano e, i quali, nel contempo si ignorano, essendo occupati a nutrire, ognuno per proprio conto la loro pazzia che li identifica e da cui traggono la loro unica identità.
“Ad un tratto…mi fu perfettamente chiaro che il principe era pazzo, cosa di cui io in un primo momento,…non mi ero accorto; mi era sembrato anzi che il principe non fosse pazzo…Ma ora, mentre camminavamo a passi sempre più veloci sulle mura esterne del castello, vidi che il principe era veramente pazzo”; “Quello che mi sgomenta – disse il principe – non è tanto che i rumori nel mio cervello ci siano sempre stati, tutti, che questi rumori ci siano sempre, ci siano sempre stati, ci saranno sempre, mi sgomenta il fatto tremendo che nessuna delle persone con cui sono venuto in contatto,…nessuno, neanche un solo cervello si sia mai accorto né si accorga mai di questi rumori. Non mi sconvolge tanto il fatto che le cose stiano come stanno, ma che sia soltanto io, che sia soltanto il mio cervello a dover registrare quanto ciò sia spaventoso e letale! L’ambiente in cui io vivo…questo ambiente è caratterizzato da una incapacità addirittura agghiacciante di intendere, di registrare e di capire. Questa situazione per me è letale, la situazione letale per me consiste nel fatto che io in questa situazione mi trovo solo, sono solo in questa situazione.” .
E allora un’altra domanda: è la malattia che produce indifferenza o, e qui il mostro bernhardiano spalanca le fauci, è l’indifferenza che produce la malattia, anzi è essa stessa malattia? Scrive Eugenio Borgna: “Si, l’indifferenza è davvero la malattia più crudele e inesorabile della vita psichica, e in essa siamo prigionieri di un deserto della speranza che non consente alcuna reale comunicazione, alcuna sincera relazione, con il mondo delle persone e delle cose. Nella indifferenza siamo immersi in una solitudine arida e pietrificata, che nulla ha a che fare con la solitudine interiore, con la solitudine creatrice, e che diviene isolamento. Nell’ isolamento diveniamo monadi senza porte e senza finestre: negati a qualsiasi slancio altruistico, e solo incentrati sui ghiacciai di un individualismo implacabile, e dilagante. Nella indifferenza si inaridisce, e si spegne, ogni possibile comunità di destino che è invece la cifra tematica, l’immagine, la metafora palpitante e viva, di una condizione di vita che rende la vita degna di essere vissuta anche nel dolore e nella sofferenza, nell’ angoscia e nella disperazione.
Avviandomi a una preliminare definizione di comunità di destino non potrei se non dire che in essa si vuole tematizzare una visione del mondo, una Weltaschauung, nella quale si esca dalla nostra individualità, dai confini del nostro egoismo, e non si riviva il dolore, la sofferenza altrui come qualcosa che non ci interessi, come qualcosa che non ci appartenga, come qualcosa che nemmeno sfiori la nostra ragione di vita, ma invece, e sinceramente, come qualcosa che ferisca anche noi: come qualcosa, cioè, che non ci sia estraneo, o indifferente, e nel quale si sia tutti implicati. Insomma si forma una comunità di destino, una comunità solo visibile agli occhi del cuore, quando ciascuno di noi sappia sentire, e vivere, il destino di dolore, di angoscia, di sofferenza, di disperazione, di gioia e di speranza, dell’altro, come se fosse, almeno in parte, il nostro destino,: il destino di ciascuno di noi.” ( Aldo Bonomi – Eugenio Borgna, Elogio della depressione, Einaudi, 2011)
Ed ecco allora ergersi dai suoi stessi abissi l’altezza e la profondità (“Una profondità è sempre anche un’altezza, quanto più profonda sarà la profondità dell’altezza, tanto più alta sarà l’altezza della profondità e viceversa”), anticipatrice ed epocale della scrittura e della predizione bernhardiana, di colui che aveva già visto e aveva già capito tutto questo e che con “Perturbamento” (ma non solo) produce la grande metafora, la metafora della nostra abiezione assolutamente normale: “TRADER PIU’ SPIETATI DEI DISTURBI MENTALI. Gli operatori di Borsa sono più spietati e manipolatori degli psicopatici. A rivelarlo sono alcuni test effettuati dall’ elvetica Università di San Gallo, che ha messo a confronto degli agenti dei mercati finanziari con persone affette da squilibri psichici. Il quadro che ne esce dei professionisti della finanza è fatto di egoismo e aggressività maggiore rispetto ai “disturbati”. “Il loro comportamento spesso senza scrupoli – spiegano gli autori dei test – sottolinea che i trader invece di lavorare in modo oggettivo e sobrio per un profitto più alto, hanno soltanto cercato di ottenere più dei loro avversari. E per danneggiarli hanno speso molte energie.” ( Dal “Quotidiano gratuito Metro” ediz. di Milano del 27.9.2011)
Che cosa opporre a tutto questo. Illusorie parvenze di sollievo mediante lo straniamento fisico? “Dissi che pur di liberarmi dalla tendenza alla disperazione ero disposto a sopportare qualsiasi fatica. Meglio essere spaventosamente stremati, aggiunsi, che essere profondamente disperati.”.
Il cieco appello ad un raziocinio affermato ma già impotente all’ atto del suo stesso essere pronunciato? Patetico tentativo di elevarsi dal magma ribollente e sordo della disperazione: “Lasciarsi offuscare dai sentimenti, non fare nulla contro il normale incessante incupirsi del proprio umore, ecco ciò che rende gli uomini disperati. Dove prevale il raziocinio, la disperazione è impossibile, dissi. “Quando subentra in me questo stato di completa irrazionalità, tutto in me diventa disperazione”. Solo di rado ormai ricadevo in questo stato. La vita è sempre faticosa, finché non se ne esce, e il piacere consiste nel sopportarla con raziocinio. La maggior parte degli uomini sono sentimentali, non raziocinanti, e proprio per questo la maggior parte di loro finisce nella disperazione e non nel raziocinio. “Ma il raziocinio di cui sto parlando” dissi “non ha nulla di scientifico.””.
E, infine, almeno uno spiraglio che, guarda caso, contiene e pronuncia, come fosse una residua e ultima speranza, quella possibilità del “trovarsi insieme” di cui si è ampiamente detto sopra, peraltro coerentemente e lucidamente ricondotta da Bernhard allo stadio di magia, non essendone visibile né allora né oggi una sua declinazione come strategia: “…perché proprio questa è la più perfetta delle magie: trovarsi insieme in un momento in cui l’esistenza è sopportabile”. Chi non ha voglia di queste cose si legga Perturbamento perché potrebbe scoprire che ne potrebbe ricavare qualcosa. E poi, riprendendo quanto detto da Claudio Magris a proposito di Perturbamento: “il suo [di Bernhard] libro più grande ed inquietante, il suo capolavoro”.