“Necrocultura” – Fabio Giovannini

La prima considerazione, leggendo questo libretto, riguarda la paradossale contraddizione fra la penetrazione che il tema della morte ha ormai avuto nella nostra società di massa e l’assoluto rifiuto e rimozione della morte che questa stessa società ha messo in atto e imposto.

Si è così sviluppata una mostruosa estetica della morte, dalle forme più trash a quelle più colte, che ha disumanizzato la morte, nel senso letterale di strapparla dai valori e dai significati che per qualsiasi uomo essa ha: perdita, sofferenza, disperazione, dolore, solitudine, liberazione, lutto, facendola diventare un’icona dell’immaginario collettivo: uno spettacolo, un mezzo di intrattenimento, un “prodotto” comunicabile e da comunicare, un bene, una merce. Questa desolante operazione di megaesorcizzazione collettiva, non solo non ci ha liberato dalla paura della morte, ma non ci ha neanche aiutato ad affrontarla. Perché descrivere, rappresentare, spettacolarizzare, riprendere, riprodurre, commercializzare la morte, così come è stato fatto nel nostro contemporaneo, significa appiattirne la drammaticità, collocarla sullo scaffale dell’odierno sistema di comunicazione di massa e rimuoverla da qualsiasi seria e consapevole possibilità di elaborazione, lasciandoci ancora più soli di quanto già si è di fronte ad essa.

Banalizzare la morte è la cosa più terribile che si possa fare e, ancora più terribile, è mancarle di rispetto. Ed è questa la sensazione che si ha leggendo questo volumetto, il quale senza pretesa alcuna di affrontare i rimandi profondi, nonché storico sociali e antropologici che il tema della morte suscita, inanella, con un taglio descrittivo e informativo, eccessivamente schiacciato peraltro sulla cronaca del periodo in cui è stato scritto, risultando in tal senso anche datato, una rassegna di tutte le diverse manifestazioni e di tutti i diversi “luoghi” fisici ed espressivi, in cui la morte “oggetto” ha trovato spazio nella nostra cultura e nella nostra società.

Riprendendo in tal senso i titoli di alcuni capitoli si va dagli “Immaginari necrofili” alle “Musiche mortali”, da “L’arte della morte” a le “Immagini di morte”, dal “Necrocinema” a “La morte in tv”, a “La morte cibernetica”. E quello che colpisce è come la gran parte di coloro che, nei contesti sin qui detti, hanno “utilizzato” la morte, nei diversi ambiti artistico-espressivi e della comunicazione, siano tutti rimasti relegati in una dimensione effimera e marginale o, per contrasto, siano assurti a “fenomeni”, a oggetti da star system, proprio perché, a questo livello, non c’è discorso sulla morte, ma c’è una produzione e riproduzione seriale che richiede di sfornare e inventare “effetti” nuovi e sempre più sofisticati, per catturare pubblico e pubblici e che quindi non sedimenta nulla, né in chi crea, né in chi fruisce.

Il paradosso è – contestando in tal senso la tesi di questo libretto, che afferma l’esistenza di una “necrocultura” espressione di valenze originali e controculturali – che in realtà nella nostra società oggi non esiste alcuna vera cultura della morte. Anche questa sedicente “necrocultura” appare come un ennesimo “prodotto” culturale: eterogeneo, virtuale, impersonale, che “gioca” con la morte e si alimenta di quegli stessi sistemi di comunicazione di massa che vorrebbe destabilizzare. Il problema è che la morte oggi è stata desimbolizzata, desacralizzata, deritualizzata, ridotta a mero atto e riportata sotto l’egida del tabù. Se ne parla tanto perché non se ne vuole parlare veramente, laddove parlarne veramente vorrebbe dire ammettere che si possa decidere la propria morte, essere aiutati in questo e accompagnati verso di essa se liberamente e coscientemente lo si vuole, rispettando e aiutando nel contempo sia quelli che legittimamente la vedono come “fine inaccettabile” ad accettarla, sia quelli che la vedono come liberazione ad attuarla.

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