Il protagonista di “Lontano” la cui vicenda “occupa” stabilmente tutta la narrazione, non ha nome. Ora già questa scelta determina un significativo effetto di spaesamento, nonché un elemento di spersonalizzazione che permea la narrazione e si promana sul lettore.
Questo duplice effetto è, in realtà, non solo proprio della figura del protagonista ma è, a partire da esso, l’elemento più peculiare e pervasivo di “Lontano”. Un senso costante di distacco delle cose e dalle cose e di impotenza e incapacità di legarsi alle cose attraversa questo romanzo di Zoderer senza che, neanche nel finale, se ne fuoriesca.Si dilata, quindi, progressivamente, un senso di perdita e di sfuggevolezza che tocca via via qualsiasi sfera di relazione con cui il protagonista è o entra in contatto.Ed anche quando egli sembra che affermi una sua capacità e volontà, non vi è mai una reale padronanza degli eventi, ed anche le proprie scelte che, come tali, non dovrebbero avere caratteri coercitivi e coattivi, finiscono per sembrare anch’ esse subite, con una collocazione o ricollocazione del soggetto, nonché io narrante, nonché protagonista in una condizione gregaria e subalterna rispetto agli altri e rispetto al mondo.
Nulla si sedimenta e tutto si appiattisce e le rotture, sia quelle subite sia quelle agite, che dovrebbero fungere da prodromi di una ricerca interiore e di una ricollocazione e ridefinizione nel mondo, finiscono per incistarsi o per disperdersi nel mero ricordo che diventa rimpianto non elaborato. E così è per la figura quasi fantasmatica di Mena la moglie che lo ha lasciato e che a lui ritorna costantemente di fronte come rievocazione di un tempo amorevole ma che ormai non c’è e non ci sarà più. Altrettanto per la figura della madre, fonte di rievocazione di affetti lontani, ma ormai legame morto, ancor prima che la morte, quella vera, di sua madre lo colga lontanissimo, in giro per gli States.
E anche qui, in questo luogo, per un momento caricato di una sua maieutica progettualità, tutto si infrange in un “on the road” sociale, esistenziale, fisico che “porta” in un sacco di posti e da un sacco di persone, ma che, in realtà, non porta da nessuna parte, suscitando ciò un disincanto che induce a pensare che neanche nel “sogno americano” ci sia più il sogno.
“Viaggiò per alcune migliaia di chilometri, su verso i laghi canadesi, senza avere scambiato una sola frase con un essere umano…..ciò nonostante …il contare …ininterrottamente, che gli si rivolgesse la parola,, era tutto ciò che era ancora in grado di collegare all’ idea di avventura, tutto il resto si perse per gradi in una crescente indifferenza. Gli piacevano molte cose, ma nessuna l’attirava. Viaggiava per viaggiare….In realtà solo il viaggiare era importante per lui,…Dentro di sé sperava di non trovare nulla d’imprevisto, eppure s’augurava ugualmente la trasformazione: vorrei essere libero come Mena”
Ma questa trasformazione non ci sarà dato sapere se ci sarà. Detto questo “Lontano” lascia alla fine un senso di irrisolto, che non è solo intrinseco alla vicenda in sé, ma ne è partecipe anche il “prodotto” finale. Andare “lontano” non serve laddove siamo noi che siamo lontani da noi, ma questa evidenza non è sufficiente, secondo me, a dare valore al romanzo di Zoderer, che sicuramente è più un romanzo su una crisi di identità e sulla crisi dell’identità. Ma anche in merito a questo si avverte la mancanza di una forza narrativa e di un’idea forte e le atmosfere wendersiane che trapelano nei “falsi movimenti” del protagonista finiscono per trasmettere un che di datato più che un marchio di distinzione e originalità